Un asino erudito che ha divorato i libri del rabbino Simone ben Yochài si difende in tribunale con citazioni bibliche in una geniale parodia cinquecentesca per Purim
Umberto Fortis
Le piccole rappresentazioni sceniche, i racconti o le canzoni che accompagnano la festa di Purim costituiscono una sorta distinta di genere conviviale, che richiede particolari scelte comunicative, in un linguaggio adatto a un pubblico distratto nell’allegra atmosfera che caratterizza la festività stessa. È una tradizione che si protrae nel tempo anche attraverso l’evoluzione dei Purim-shpil, che da forme cantate si sono spesso sviluppati fino a soluzioni teatrali, assumendo di volta in volta aspetti diversi, ma tutti sempre connotati dall’impegno a ricordare l’evento che ha salvato il popolo ebraico. L’uso di rievocare la vicenda biblica, con una narrazione in versi, spesso durante il séder (banchetto), la storia già letta in sinagoga nella megillà, il rotolo di ’Estèr, ha in effetti prodotto, nei secoli, una lunga serie di composizioni di varia natura, ma quasi tutte costruite, nel complesso, su una struttura e su una segmentazione simili: all’invito iniziale a partecipare al lieto evento, segue di norma il racconto biblico, intessuto su ampliamenti tratti dal midràsh, o si narra un evento strano e divertente; mentre conclude spesso il testo l’indugio compiaciuto, sempre ampiamente enfatizzato, sull’elenco delle numerose portate del convito, fino, talora, al ringraziamento corale al Signore: un “genere”, dunque, che una lunga, secolare tradizione ha finito per codificare entro precisi, consolidati parametri.
Al Quattrocento risale, ad esempio, per restare in ambito italiano, la fiorentina Rapresentatione della reina Hester, edita da Antonio Miscomini nel 1483 e poi molte volte ristampata nei secoli successivi: e si tratta di una vera e propria struttura scenica, vicina, per molti aspetti, alle antiche sacre rappresentazioni; ancora al primo Settecento, per fare solo una parziale esemplificazione, è attribuibile un lungo poema in volgare del romano Tranquillo del Monte, ricco di ampie digressioni: si tratta, insomma, di una vera e propria consuetudine paraletteraria. In tale contesto, anche la letteratura giudeo italiana, avvalendosi della forte capacità espressiva delle varie parlate diffuse nei ghetti, ha prodotto, nel corso dei secoli, esemplari degni di particolare rilievo: dalla famosa cinquecentesca Istoria de Purim io ve racconto del rabbino Mordekhày Dato, alla non meno nota Mascheretta veneziana, definita “ghiribizzo novello carnevalesco” dal suo anonimo autore del Settecento.
Destinata all’atmosfera purimica, però, pur nella sua particolare eccentricità, è anche una ricercata parodia, nota come Massèkheth Chamòr (Trattato dell’asino), presente nel manoscritto 278 della Biblioteca Statale di Mosca, edito nel 2001 da Maria Mayer Modena. Il manoscritto appare copia del primo Seicento ed è quindi ipotesi possibile che prologo e breve epilogo, lontani dalla primitiva stesura, siano stati aggiunti dal copista per adattare più direttamente alla realtà festiva un testo nato probabilmente con altri obiettivi, pur se contenente specifici richiami all’evento gioioso. Si tratta di un testo singolare, comunque disposto per una destinazione conviviale, che si distingue per molti versi da tante altre composizioni, pur se strutturato anch’esso per la pubblica lettura o per la recitazione a più voci, forse con possibili esiti di realizzazione teatrale.
Ne è autore il noto talmudista Gedalyà Ibn Yahyà (Imola 1515 – Alessandria 1587), che compose, tra le molte opere, la celebre Shalshèleth ha Qabbalà (Catena della tradizione), edita a Venezia nel 1587, da Di Gara: la lunga storia del popolo ebraico e dei popoli della diaspora, alla quale lavorò nei lunghi anni di una vita inquieta, raminga tra Ferrara, Rovigo, Imola e, dopo l’espulsione voluta da papa Pio V, Alessandria, ove morì. Per Gedalyà si tratta ovviamente di un divertissement, di un suo singolare apporto al genere dei canti o delle rappresentazioni per la ricorrenza del mese di Adàr, una scelta ove non appare la consueta storia di ’Estèr e di Mordekhày, ma un racconto immaginario e attraente, forse nato con altre finalità, adattato però, più direttamente, come appare dall’incipit, alla gioiosa occasione del banchetto festivo.
Il testo rivela, da un lato, la natura della tradizionale esposizione di un evento curioso, offerto al distratto pubblico del pranzo di Purim, riportando un racconto fatto in versi da un giovane contadino in lingua ‘santa’, mista a ‘parole di vanità’, per rallegrare la serena atmosfera del giorno di festa:
Voglio cantare un ma‘asè (fatto) Che itravenne a Don Moshè
Che ’l suo asino li dette qualcun La fersa
E li fece nel règel (piede) una morsa Wehotzì ma‘òth harbè (e spese molti soldi) Per guarir come si dè (I, 1-4);
dall’altro, vede dominante la struttura, disponibile per un’eventuale realizzazione scenica, di un vero e proprio dialogo tra i due protagonisti di una strana vicenda narrata dal giovane: un tale Don Moshè viene a chiedere giustizia presso i giudici del tribunale della città a causa di una ferita a un piede causatagli dal suo asino; gli risponde lo stesso animale parlante che, con la sua acuta arringa difensiva, copre, per estensione, la maggior parte del testo. Don Moshè racconta di essere stato colpito dall’asino, proprio quando aveva in mano il qanqan (vaso) “per bever e imbiriagar di Purìm” (I, 17) e così, versato in gran parte il vino, è stata rovinata la festa. Dispiaciuto e irritato, chiede perciò giustizia di fronte ai giudici, i quali, giustamente, vogliono ascoltare anche le ragioni dell’asino, che, a riscontro, per giustificarsi e per spiegare l’accaduto, inizia a raccontare tutte le sue avventure, con l’intenzione anche, allo stesso tempo, di attestare la sua nobiltà:
Voglio cianciare
E quattro parole formare
Per mostrare la mia nobiltà (III, 28 – IV,1-2)
Il testo, a questo punto, ha una svolta decisiva, l’evento festivo sembra dimenticato: Gedalyà sveste, in parte, i panni dello studioso di Talmud e ricorre, con acuta strategia, alla scelta di un narratore di secondo grado, che a sua volta assume la dimensione dell’animale, anche per meglio giustificare e accreditare la ricercata mistura linguistica dei versi: la scelta è caratterizzata in effetti da una koinè settentrionale, nella quale restano però sicuri residui meridionali, alcuni arcaismi (grimo – vecchio), accanto a parole tipiche, rimaste poi nelle parlate giudeo-italiane: chamòr – asino; yehudì
– ebreo; makkà – botta; shikkòr- ubriaco…, insieme a interferenze come achlàre – mangiare e darshàre – predicare; mentre domina comunque, vera spia della presenza dell’autore, l’elemento ebraico, ricco di molte citazioni bibliche e di interi passi talmudici.
Il lungo monologo-arringa dell’animale parlante sembra distrarre dalla tradizionale allegria della festa, per trasformarsi in una vera e propria ‘apologia dell’asino’ e sviluppare in chiave ebraica, biblica e mistica, un tema assai diffuso nelle varie letterature: dal celebre Lucio, l’asino di Luciano, ripreso nel romanzo di Apuleio, L’asino d’oro, all’eccentrica Asinesca Gloria di Anton Francesco Doni, ristampata nel 1558 dallo stesso editore Marcolini, con il titolo Il valore degli asini, per ricordare solo anche alcune fra le opere contemporanee a Gedalyà, senza dimenticare L’asino di Machiavelli, l’animale sotto le cui sembianze si ritrae l’autore. Il narratore contadino, in realtà, sembra svanire, per lasciar posto a una sorta di esibizione culturale dell’autore, che pare una parentesi estranea all’atmosfera festiva. L’animale difensore di sé stesso inizia a riproporre i momenti fondamentali in cui un asino appare nel testo biblico: ricorda l’asino che Abramo prepara per avviarsi al cosiddetto sacrificio di Isacco; non dimentica l’asina parlante di Bal‘àm, né la mascella asinina usata come arma da Sansone per uccidere mille filistei, fino ad affermare, estremo segno di nobiltà, che, proprio a cavallo di un asino, verrà il Messia. Del resto: l’asino è stato oggetto di adorazione idolatra, protagonista, in molti testi letterari e in molti culti pagani (non cita, ovviamente, le accuse di onolatria mosse agli ebrei da Apione, Plutarco o Tacito); ma, ad accrescere ulteriormente il proprio valore, l’animale parlante fa presente che le lettere che compongono il nome ebraico stesso chamòr, in una diversa valutazione, se lette in ordine inverso o mutato, valgono in ebraico ‘misericordia’ (rachàm) o ‘scomunica’ (chérem), e in più numerano 248, quanti sono i precetti positivi indicati nella bibbia. E dunque, in nome di tante nobili attestazioni, pur riconoscendosi colpevole, l’asino conclude la sua arringa difensiva con la richiesta di essere perdonato, proprio lui che ha appreso tanta esperienza culturale e tanta eloquenza per aver mangiato i libri che un suo padrone, il rabbino Simone
ben Yochày, ha lasciato abbandonati, per distrazione, nella sua mangiatoia. È l’apice di un’elaborata, colta orazione, perché, con la perorazione finale, giocata sull’effetto-sorpresa, un vero quid luminis conclusivo, s’infrange il tono serio e sostenuto dell’intero intervento difensivo, per rientrare nella più rispondente atmosfera giocosa e brillante del giorno di festa. Il perdono è ovviamente concesso dai giudici e da parte di Don Moshè; ritorna l’allegria di Purim, si berrà insieme alla festosa compagnia il vino e si mangerà, perché:
É massime di Purìm che bisogna aver
Molti parìm (buoi) e tziporìm (uccelli) da ’akhlare (mangiare) E poi come shikkòr (ubriaco) imbiriagare
E Dio vi dia il bon Purìm (XV, 3-6).
Nessun accenno, dunque, alla storia di ’Estèr, motivo centrale in tutti i canti o rappresentazioni del genere; l’aggancio alla dimensione conviviale avviene più esplicitamente nel breve ricordo della festa nell’incipit o nell’invito finale dell’explicit, quasi a voler celebrare l’evento anche in un modo diverso, antitradizionale, eccentrico, con la strana storia dell’asino, atta a stupire e a divertire, comunque, nell’atmosfera festiva.