Uno dei fenomeni della cultura di massa più interessanti, ma anche più enigmatici, dei primi mesi del 2021 è stato, senza dubbio, il grande successo della serie tv Shtisel. Per quale motivo una serie che racconta le vicende di una famiglia di ebrei haredim (i cosiddetti ultraortodossi), in modo molto realistico ma senza accenti critici (diversamente da tutti i prodotti cinematografici e televisivi che l’avevano preceduta), ha riscosso un simile successo, e in particolare anche presso un pubblico raffinato, colto, laico – in Israele, negli Usa, in Europa, tra ebrei, cristiani, non credenti?
Un primo livello di risposta sta certamente nell’eccellenza artistica: la recitazione, la sceneggiatura, la fotografia, la colonna sonora di Shtisel sono semplicemente sublimi, e miscelati in modo praticamente perfetto, come tante recensioni in tutto il mondo hanno già opportunamente sottolineato. Qualcuno ha rilevato, giustamente, la magia dell’ascolto dello yiddish. Ma queste spiegazioni, pur corrette in sé, non risolvono l’enigma.
Poiché, come ha correttamente sottolineato il prof. Massimo Faggioli in una bella e istruttiva recensione comparsa sulla rivista cattolica Il Regno, Shtisel è tutto fuorché un prodotto “politicamente corretto”. Il mondo che descrive è lontanissimo dai cardini che oggi impostano il discorso pubblico (in particolare, ma non solo, nei paesi anglosassoni), tanto che mai, finora, quel mondo era stato raccontato senza presentarlo anche se non soprattutto come un universo oppressivo, arretrato. Senza, insomma, che lo sguardo della macchina da presa fosse connotato in qualche misura da un giudizio negativo che si presumeva riflettesse quello degli spettatori. I quali invece, a sorpresa, prima in Israele, e poi ovunque, si sono appassionati alle storie di questi uomini col cappello e donne con la parrucca che vogliono restare tali nel XXI secolo.
Credo che il punto essenziale sia proprio lì, nei cappelli e nelle parrucche. Non in quanto tali, ma in quanto forme di osservanza di una Legge. La nostra società ha un profondo irrisolto problema con la Legge. La psicanalisi lacaniana contemporanea, da Charles Melman a Massimo Recalcati, sottolinea come la crisi del cosiddetto Nome del Padre abbia dato vita a una società meno nevrotica (quanto sono nevrotici, invece, gli Shtisel, spesso anche tecnicamente nei sintomi…) eppure problematicamente dominata dalla struttura della perversione, dal primato del godimento immediato e illimitato e, dunque, dall’incapacità di desiderare.
I personaggi di Shtisel, invece, sono pervasi di desiderio. L’amore, nelle sue molteplici forme (grande e importante in tutta la serie è il ruolo dell’arte, della pittura e della musica), è il centro focale delle loro vite in tutte le puntate. La loro fedeltà all’amore sembra scaturire proprio dalla loro fedeltà alla Legge. Non da sistemi teorici astratti, così lontani dalla sensibilità ebraica: il padre – l’insegnante Shulem Shtisel, che incarna in modo praticamente paradigmatico o archetipico la funzione paterna per come viene rintracciata da Lacan e dai suoi discepoli (non per caso, credo, Shulem desidera che sulla sua tomba sia scritto soltanto: “Padre e educatore”) – ripete più e più volte, in momenti decisivi della serie, di fronte a interrogativi fondamentali: “Noi non sappiamo nulla”.
Quel limite, quella Legge che lui rappresenta, che custodisce, che trasmette, non è un sistema di verità. Ma una via di fedeltà. È un fatto di prassi, non di dogmi. Il modo tenace con cui gli Shtisel seguono le vie dell’amore è lo stesso modo tenace con cui seguono i loro precetti e le loro usanze. La Legge crea lo spazio e il tempo del desiderio.
Per questa ragione, credo che una visione spiritualmente avvertita di Shtisel possa essere molto utile anche nell’arricchire il processo di riforma della Chiesa cattolica, coraggiosamente portato avanti tra mille ostacoli da Papa Francesco. Non ci sarà profonda e duratura e rilevante riforma della Chiesa, infatti, se non verranno messe al centro le prassi concrete. Per questo è anche così importante lavorare con sempre maggiore impegno a una autentica e profonda accoglienza dei risultati della ricerca storica su Gesù, che da decenni ormai insistono in modo unanime sulla sua piena ebraicità (segnalo in particolare due recenti pubblicazioni di qualità: Riattivare il Gesù storico, ed. Effatà, a cura di Piotr Zygulski e Federico Adinolfi, una ricca sintesi critica accessibile anche ai non studiosi, e il bellissimo e importante Giovanni Battista. Un profilo storico del maestro di Gesù, pubblicato per Carocci dallo stesso Federico Adinolfi, una pietra miliare negli studi sul rapporto tra Gesù e il Battista).
Gesù, ebreo osservante, predicò (e testimoniò) una ortoprassi, non un sistema di dogmi. Una ortoprassi di giustizia sociale e amore fraterno, fondata su un rapporto spirituale quotidiano concretissimo con Dio. Contrapporre Gesù alla Legge ebraica non è solo del tutto contrario alle risultanze della ricerca storica. È contrario al cuore stesso del suo insegnamento.
Poiché, come sembrano raccontarci in modo poetico, intimo e delicato i personaggi di Shtisel (e per questo credo abbiano incantato un pubblico così largo e distante), senza Legge, senza una Legge, non troveremo mai il filo di Arianna del desiderio e dell’amore.