Ugo Volli
Com’è potuto accadere che in meno di due secoli, proprio mentre molti ebrei godevano (ovviamente ad eccezione dei luoghi e dei tempi dei pogrom e della Shoah) della maggiore libertà e prosperità della storia, l’ebraismo europeo nel suo complesso sia avvizzito e si sia frantumato come un albero colpito dal fulmine? Decadenza non solo demografica e della pratica religiosa, com’è ovvio, ma anche della sua identità collettiva, della sua produzione autonoma, della sua autoconsapevolezza.
Quanto numerosi furono i saggi, i quadri, i romanzi, le musiche, i trattati scientifici, gli articoli giornalistici, le imprese commerciali, i film prodotti da persone di origine ebraica fra la metà dell’Ottocento e gli anni recenti, quanto più poi (ma solo negli ultimi decenni) l’ebreo fu sopravvalutato nella categoria estranea della vittima e dell’Olocausto – che è concetto ben diverso dalla Shoah -, tanto progressivamente si fece debole il pensiero ebraico (con le note eccezioni), tanto perse prestigio e interesse la vita comunitaria e l’appartenenza stessa all’ebraismo, tanto più crebbe l’odio di sé, dal furore masochistico degli Otto Weininger alla insinuante autodiffamazione dei “diversamente sionisti”, degli storici revisionisti di Israele o dei suoi ideologici nemici ebrei. Tanto più numerose si fecero le conversioni a tutte le fedi possibili, e soprattutto l’assimilazione silenziosa alla religione conformistica dei consumi di massa, con l’illusione che essa non abbia alcun contenuto teologico o religioso. Tanto più l’ebraismo si sminuzzò per filoni religiosi incapaci di parlarsi, ma soprattutto per divisioni ideologiche e per il tacito abbandono di chi lo sentì e lo sente come un’origine sempre più remota, per cui non ha senso fare sacrifici o battersi.
Le risposte che si danno a questa domanda sono abbastanza poche. Certo, la catastrofe più grande e terribile, il colpo più tremendo alla continuità dell’ebraismo è stata la Shoah, che però ha portato con sé, al di là del genocidio anche una coda di dispersione, non quel rinsaldarsi comunitario con cui l’ebraismo ha reagito tante altre volte alle sue tragedie. E a impoverire la diaspora vi è stata anche l’aliyà in Israele, che pure va senza dubbio trattata come un elemento di speranza (“germoglio della nostra redenzione”) e non di dissoluzione. Si cita poi di solito un nesso fra emancipazione e assimilazione, che è fondamentalmente sbagliato, come se gli ebrei prima delle libertà civili fossero stati incatenati nei ghetti e non invece incoraggiati a uscirne in ogni modo – da convertiti e assimilati, è chiaro.
E allora perché tante conversioni dopo l’emancipazione, quando si poteva vivere civilmente da ebrei, senza troppi danni? Perché ancora oggi, l’orgoglio per la grande “cultura ebraica” del Novecento o piuttosto per quella “degli ebrei” (Einstein Proust Chagall Freud Kafka e gli altri, la solita serie di nomi) si trasforma difficilmente in amore pratico e concreto per la nostra lingua, il nostro pensiero, la nostra tradizione? Perché gli ebrei hanno comunque assorbito e condiviso i pregiudizi delle maggioranze contro di loro?
Se non proprio una risposta, molti indizi in direzione di un’altra ipotesi l’ho trovata in un grosso libro appena pubblicato da Neri Pozza. Si chiama Il secolo ebraico (di Yuri Slezine, uno slavista di Berkeley, pp.568, € 20) ma non è la solita compilazione di biografie di geni di origine ebraiche. E’ invece la storia della posizione sociale degli ebrei nell’ultimo secolo e mezzo, vista dall’ottica dell’impero russo (poi diventato Urss). A parte un po’ di rimpianto folkloristico per lo shtetl, l’Yiddish e gli apologhi chassidici noi conosciamo molto meno questa storia di quella degli ebrei italiani, francesi o tedeschi; ma il baricentro dell’ebraismo europeo è stato per secoli in quelle regioni. Il libro di Slezine è per molti versi discutibile, per esempio classifica il popolo ebraico insieme agli armeni, ai Rom, agli indiani in Africa e ai libanesi in Sudamerica in una generica categoria di “mercuriani” (nel senso di discepoli di Mercurio, cioè commercianti, mediatori, fornitori di servizi onesti e loschi) in quanto contrapposti agli “apollinei” stanziali (che in polemica con Nietzsche, per Slezine sono la stessa cosa dei “dionisiaci”). Vi è un qualche eccesso di identificazione con i burocrati sovietici di nascita ebraica, un filtro piuttosto letterario nei confronti della realtà. Ma quel che conta sono i moltissimi fatti e le testimonianze che il libro riporta.
Ne emerge che la spinta all’assimilazione fu fortissima da metà dell’Ottocento anche in questi territori, benché non vi fosse stata affatto emancipazione, anzi, la repressione imperasse. Che essa avesse due facce, una moderata intraprendente, modernista, commerciale e industriale e una maggioritaria invece estremista, verbosa, rivoluzionaria (prima in senso populiste e poi marxista), con tratti inquietanti di crudeltà e fanatismo. Che nei territori dell’Impero zarista per due o tre generazioni si siano svolti due processi rivoluzionari paralleli: quello “russo” contro l’oppressione zarista che portò all’Urss e quello “ebraico” (cioè in sostanza contro l’ebraismo) che portò i figli a rinnegare i padri e i nonni, la loro lingua e la loro cultura. Una strage culturale autoinflitta, un grande atto edipico che fa riflettere sull’ingenuità o la malafede di chi oggi fa mostra di rimpiangere sia il chassidismo che il comunismo. Le testimonianze di questo rifiuto, del disprezzo, dell’odio vero e proprio espresso da poeti e scrittori, politici e militanti nelle loro memorie o romanzi contro il mondo ebraico sono agghiaccianti. La spinta a cancellare la propria memoria assume forme estreme, nel nome dell’adesione al “progresso”, all'”umanità” intesa in senso universalistico, e naturalmente alla superiore cultura russa, ai “bei suoni armoniosi” della lingua russa, ecc. ma innanzitutto alla “Rivoluzione”. Ben prima della Shoah, il mondo ebraico orientale fu svuotato da giganteschi processi migratori, di assimilazione e autonegazione, che portarono le nuove generazioni ebraiche nelle città russe, con un fortissimo impegno ideologico e pratico nelle attività rivoluzionarie, e solo in parte oltre oceano, prevalentemente negli Stati Uniti.
In chi restava in Russia, dominò un’esplicita ideologia assimilazionista, motivata con l’antitradizionalismo, il progressismo, il rifiuto della “limitata” e “tribale” identità tradizionale. A questo sviluppo contribuì molto l’antisemitismo diffuso da decenni in tutto il movimento socialista, che a partire dal giovane Marx identificava tutti gli ebrei rimasti tali con il “nemico di classe”, l’ebraismo con il capitalismo. Che la maggior parte degli ebrei fossero poverissimi, e che buona parte dei socialisti fossero di origine ebraica non contava: bisognava comunque rinnegare la tradizione ebraica, allontanarsi il più possibile dal “dio denaro” che per Marx era la divinità vera degli ebrei. Molti lo fecero. All’inizio la rivoluzione russa premiò questo sforzo collettivo di buona parte degli ebrei sovietici di cancellarsi come popolo, assegnando ai transfughi (Trocki, Kamenev, Zinovev, Sverdlov e decine di migliaia di altri) potere, responsabilità e spesso anche il compito assunto con fierezza di reprimere e depredare, magari di uccidere fra gli altri i propri fratelli, di finire di distruggere il mondo yiddish. Poi, come è noto, rapidamente l’illusione si dissolse apartire dagli anni Trenta e gli ebrei sovietici furono condannati, deportati e ammazzati sia perché troppo ebrei (nazionalisti borghesi) sia perché troppo sovietici (spie mimetizzate).
Quel che ci interessa, in questa storia, è il carattere illusorio dell’ideologia progressista e universalista, la menzogna del valore progressivo dell’assimilazione. Ogni universalismo non può che proporsi la distruzione delle minoranze consapevoli; non può provare a realizzarsi se non proponendosi la loro distruzione. Le minoranze che si identificano con un universalismo (gli ebrei cristiani dei primi secoli, gli ebrei rivoluzionari del secolo scorso e perfino quelli più modestamente “progressisti” e “pacifisti” di oggi) lavorano per la propria distruzione e per quanto odino la propria origine o al contrario cerchino di giustificarla come fonte universale di valore condivisibile da tutti, non riescono a convincere le maggioranze a fare a meno di eliminare anche loro. Questa dialettica è sottesa alle svolte politico-ideologiche raccontate nel libro di Slezine e alle complesse vicende che ne seguirono. E’ l’ideologia il grande nemico di una cultura tradizionale come quella ebraica: non solo l’ideologia razzista del nazismo, ma anche quella universalista del comunismo. Accanto all’emancipazione, l’ideologia ha abbattuto l’albero dell’ebraismo, con la forza che le derivava dalla sua apparente natura etica, dall’assonanza con i temi profetici e messianici della nostra tradizione. E ancora agisce. Il sospetto “etico” per il proprio punto di vista e il proprio interesse, per l’affetto verso i propri fratelli “tribali”, si trasforma rapidamente nell’assunzione dello sguardo altrui e in odio di sé. Un morbo contagioso, di cui l’ebraismo paga ancora le conseguenze.
L’Unione Informa 14 agosto 2011