Un libro scomodo
Gadi Luzzatto Voghera
Raramente la pubblicazione di un libro di storia medievale ha suscitato tanta attenzione polemica in Italia, quanto l’uscita del testo di Ariel Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali (Il Mulino, Bologna 2007, 366 pp., ?25). I giudizi negativi hanno iniziato a grandinare ancora prima dell’uscita del volume, sull’onda di un’anticipazione provocatoria scritta da Sergio Luzzatto sul paginone culturale del Corriere della Sera. Si è trattato di reazioni spesso non meditate, istintive, provocate dall’evidente disagio per un tema scabroso e duro come quello della nota accusa rivolta agli ebrei di far uso di sangue cristiano nei riti pasquali, che veniva presentato senza le cautele che avrebbe richiesto.
In una settimana di reazioni, recensioni e commenti si è letto e sentito di tutto. Chi ha voluto colpire la persona (Toaff) addebitandogli (sentite con le mie orecchie) alcoolismo, antisemitismo inconscio e una pulsione parricida; chi ha voluto screditare lo storico contestandogli un uso sbagliato e superficiale delle fonti, chi ha messo in guardia dal trattare certi argomenti in un’epoca in cui ancora la riflessione sulla memoria della Shoàh è viva e apre continuamente una ferita non rimarginata. Hanno anche cominciato a circolare ipotesi fantasiose e intriganti, fra cui la più diffusa vuole che il testo di Toaff sia stato in qualche maniera commissionato dagli ambienti vaticani contrari al dialogo interreligioso. Si è perfino (colpevolmente) giocato sui rapporti personali e famigliari, coinvolgendo nella polemica pubblica preventiva il padre di Ariel, il rabbino capo emerito della comunità ebraica romana Elio Toaff. Nonostante la delicatezza dei temi toccati dal libro, e malgrado l’inusuale e direi esagerato scandalismo giornalistico con il quale il maggiore quotidiano nazionale ha scelto di dare risalto a una pubblicazione scientifica, le reazioni cui abbiamo assistito non sembrano giustificate e mettono in campo altre questioni che il libro di Toaff – di per sé piuttosto confuso e spesso, lo vedremo, inattendibile – ha contribuito a far emergere. Ha lasciato particolarmente interdetti il comunicato «obbrobrioso» (definizione di Toaff) di alcuni rabbini e del presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che senza conoscere neppure il colore della copertina del libro condannavano recisamente l’infondatezza delle tesi in esso contenute: paradossale, ma – visto che il proclama era firmato da autorità con ruoli istituzionali – sarebbe meglio dire pericoloso.
A lettura avvenuta, sarà bene provare a fare un po’ di luce sulle dinamiche che si sono attivate, affrontando contestualmente il commento nel merito della struttura e delle argomentazioni del testo stesso. Proviamo a farlo elencando alcuni punti che sembrano importanti:
1) Vi è una differenza sostanziale, che non viene quasi mai percepita, fra storia degli ebrei e storia dell’antisemitismo. Lo afferma a chiare lettere Toaff nella prefazione quando sottolinea che fino ad ora «gli studi sugli ebrei e l’accusa del sangue si sono concentrati in modo pressoché esclusivo sulle persecuzioni e sui persecutori, sulla loro ideologia e sulle loro presumibili motivazioni. […] Nessuna attenzione è stata prestata agli atteggiamenti degli ebrei perseguitati e ai loro comportamenti ideologici». Questo fatto è di fondamentale importanza e ha a che fare con un uso di fonti differenti fra chi si occupa di uno o dell’altro aspetto, e con una lettura spesso diversa delle fonti comuni ai due gruppi di studiosi. Nel caso in questione, i verbali e le «confessioni» del processo agli ebrei di Trento del 1475-8 sono interpretati in modo diametralmente opposto. E’ vero – va detto alla luce della lettura del libro – che Toaff non fa seguire alla sua enunciazione di principio una pratica coerente. In effetti la lettura da lui proposta di fonti notoriamente spurie come i testi di confessioni estorte sotto tortura non è in alcun modo accettabile sul piano metodologico: sono troppe le frasi ipotetiche che lo studioso introduce nella sua prosa (esempi alle pp. 8, 134), e l’incrocio di queste fonti processuali con altre assai differenti per collocazione geografica, per distanza temporale e per tipologia non fanno parte del corretto operare del mestiere dello storico. Per fare un esempio della confusione che regna sovrana nelle argomentazioni del libro, si tenta di dimostrare la centralità della polemica anticristiana di settori dell’ebraismo di area tedesca utilizzando i testi dei polemisti ebrei convertiti al cristianesimo Giulio Morosini e del sefardita livornese Paolo Medici (che scrivono fra l’altro a 200 anni di distanza fra loro) come prove attendibili a carico per dimostrare il significato anticristiano di passaggi della Hagadàh di Pesach, un testo narrativo composto mille anni prima e che non è peculiare dell’ambiente tedesco. E – cosa peggiore – si fa seguire a queste pseudo dimostrazioni una frase apodittica e priva di cautele come la seguente: «Nella loro mentalità collettiva, il Seder di Pasqua si era da tempo trasformato in una celebrazione in cui l’augurio della prossima redenzione del popolo di Israele doveva muoversi dall’aspirazione alla vendetta e dall’imprecazione sui persecutori cristiani» (p.171); una frase che se scritta da uno studioso qualsiasi e non dal figlio del rabbino capo della comunità ebraica di Roma avrebbe sicuramente richiamato l’attenzione della magistratura e provocato l’emarginazione dello studioso stesso dalla comunità accademica. Tuttavia, nonostante gli scivoloni metodologici e l’arditezza funambolica di certe interpretazioni proposte, la questione di fondo rimane aperta: la storia degli ebrei è cosa diversa dalla storia dell’antisemitismo, e resta in gran parte da scrivere.
2) «In questo mondo ebraico-germanico in continuo movimento profonde venature di magia popolare avevano solcato nel tempo il quadro delle norme della legge religiosa, alterandone forme e significati» (p.10). L’idea a-storica che le norme della tradizione ebraica siano state sempre le medesime nel tempo e che siano state sempre rispettate dalle devote comunità ebraiche in ogni tempo e in ogni luogo, fino alle soglie della modernità secolarizzata è forse la forma più visibile di manipolazione della realtà che certa ortodossia (non tutta) vorrebbe accreditare. Su questo punto, il comunicato emesso contro Toaff è esemplare: «Non è mai esistita nella tradizione ebraica alcuna prescrizione né alcuna consuetudine che consenta di utilizzare sangue umano ritualmente. Questo uso è anzi considerato con orrore». Sono considerazioni esatte, confermate dallo stesso Toaff nel libro (anche se avrebbe potuto scriverlo come monito in maniera più chiara e definitiva all’inizio del volume). Ma lo sforzo dello studioso vorrebbe essere quello di indagare se e quali fossero i comportamenti degli ebrei in carne ed ossa nella realtà, in questo caso in relazione al divieto di avvicinarsi al sangue e di usarlo a scopi rituali. L’argomento di Toaff mi sembra tutto fuorché peregrino: gli ebrei (chissà perché solo quelli ashkenaziti, contro i quali mi pare che l’atteggiamento dell’autore sia piuttosto pregiudiziale) vivevano in una società medievale nella quale il rapporto con il corpo, con il sangue, con la morte era assai diverso da quello nostro oggi. E se i memorabili studi di Piero Camporesi sulle credenze superstiziose e popolari sono considerati attendibili e degni di nota, non si vede per quale motivo gli ebrei che condividevano con la maggioranza cristiana la stessa società e in gran parte le stesse credenze non potessero anche assumere come singoli o a gruppi comportamenti superstiziosi e difformi dalle regole ufficiali della tradizione ebraica. Lo storico fa il suo mestiere, e spesso è un mestiere scomodo per chi cerca di accreditare visioni ideologiche della realtà. Resta da capire che cosa ci sarebbe di particolarmente rivoluzionario e «coraggioso» (giudizio di Sergio Luzzatto) nel descrivere l’uso ipotetico che gruppi marginali di ebrei ashkenaziti avrebbero fatto di sangue essiccato nei loro riti (portando a prova una letteratura storiografica vecchia di decenni come l’articolo di Cecil Roth del 1933), accreditando tali riti come comuni e generalizzati e non come episodi marginalissimi e condannati apertamente dalle autorità rabbiniche ebraiche, come peraltro ammette fra le righe lo stesso Toaff (p.185).
3) In un’epoca in cui «l’uso pubblico dell’ebreo» è limitato e appiattito alle vicende politiche mediorientali e al ricordo della Shoàh, una pubblicazione provocatoria almeno quanto inconsistente come quella di Ariel Toaff mette a nudo una debolezza strutturale dell’ebraismo diasporico. L’espulsione della dimensione storica di lungo periodo come propria componente identitaria ha raggiunto un livello decisamente allarmante e rappresenta forse il punto di maggiore distanza fra l’ebraismo della diaspora e quello di Israele. In Israele una società ebraica complessa ha raggiunto un grado di maturità e autocoscienza tale da potersi permettere di dare spazio alla nascita di correnti storiografiche che coraggiosamente sottopongono al vaglio della ricerca momenti delicati della storia del sionismo e dello Stato d’Israele. Si accendono polemiche anche aspre, ma il dibattito rimane aperto e franco fra le diverse componenti di una società che è abituata a discutere senza tabù. Forse non è un caso che lo stesso Toaff viva e lavori a Tel Aviv. In Italia (ma la reazione sarebbe stata la stessa in Francia o in Gran Bretagna) anche la colta élite intellettuale ebraica è visibilmente disarmata di fronte alle argomentazioni di Toaff. Mancano i fondamentali, si direbbe in gergo calcistico, cioè manca completamente la conoscenza della lingua ebraica (che permetterebbe di leggere e conoscere la ricca bibliografia prodotta in millenni di storia dalle comunità ebraiche italiane), manca un aggiornamento concreto e non retorico sullo stato degli studi e delle ricerche storiche su questioni anche fondamentali come il processo di Trento del 1475. Si è alla disperata ricerca di «competenze» che non si possono improvvisare: chi mi chiede «un’aggiornata bibliografia sull’omicidio rituale», chi mi propone di ripubblicare un saggio vecchio di 50 anni sull’argomento, come se dopo di quello non fosse stato scritto più nulla. Il volume sulle Pasque di sangue (titolo veramente scandalistico e inappropriato) ha molti difetti, ma anche almeno un merito: costringe il lettore a confrontarsi con la storia come disciplina complessa e non indifferente alle sorti del presente. Avere il coraggio e farsi le competenze per confrontarsi con la propria storia è un momento decisivo della crescita umana come gruppo e come singoli. Sono decenni che la società israeliana si confronta non solamente con la revisione della storia della guerra d’Indipendenza, ma anche con episodi spiacevoli e brutali come gli infanticidi di massa perpetrati nelle comunità ebraiche renane ai tempi delle prime crociate. Che sia arrivata l’ora di «lavorare» sulla nostra storia anche qui da noi?
4) L’argomento scelto da Ariel Toaff per i suoi corsi universitari e per le sue indagini archivistiche che hanno condotto alla stesura del libro è tremendamente ambiguo, e in effetti egli stesso nello svolgere le sue argomentazioni non riesce a fare ordine. Se il libro dichiara di volersi occupare dell’uso del sangue nelle comunità ashkenazite del medioevo, in realtà la narrazione salta di qua e di là senza ordine, toccando il processo di Trento (1475) per poi risalire a quello di Norwich (1147), poi dedicandosi allo studio iconografico delle haggadòth del ‘500 e del rituale connesso al Seder, per poi terminare con la vicenda triste e grottesca di un pittore miniaturista ebreo tedesco coinvolto per caso nella vicenda di Trento. Un bel guazzabuglio, nel quale si alternano note antropologiche di assoluto interesse (il commercio del sangue, l’uso del medesimo come emostatico, l’attenzione per il prepuzio e il suo presunto valore per la fertilità femminile) a ipotesi azzardatissime e basate su un assoluto disordine delle fonti, che vengono effettivamente usate in maniera distorta e non coerente. Ora, non è che improvvisamente Toaff abbia dimenticato come si fa ricerca storica. Rimane uno stimatissimo e originale professionista, che però ha posto in questo caso al centro dei suoi studi un argomento che – forse come nessun altro – è gravato di una ambiguità linguistica e concettuale inestricabile. E’ noto che per lunghi secoli l’accusa del sangue è stata la base concettuale dell’antigiudaismo cristiano. Ed è altrettanto noto che negli ultimi tempi il medesimo argomento è stato adottato senza mediazioni dalla propaganda antisemita nel mondo islamico. Si tratta quindi di un tema che uno storico non può trattare in maniera asettica, dilettandosi a usare un linguaggio incuriosito e divertito (ma moralmente indifferente) nell’ipotizzare l’uso di sacrifici umani presso le comunità ebraiche, facendo finta che la sua prosa non assuma valenze politiche solo perché parla di presunti episodi medievali. Non lo può fare perché questo è forse l’unico argomento attorno al quale storia degli ebrei e storia dell’antisemitismo diventano un’unica cosa. Tutto questo Toaff mostra, colpevolmente, di non averlo compreso. Se così non fosse, avrebbe aggiunto un bel po’ di materiale su quel che ha significato l’accusa di omicidio rituale per gli ebrei (si veda il recente libro di Adam Michnik, Il pogrom, Bollati Boringhieri, Torino 2006), procurando di studiare la ricca bibliografia in proposito e evitando di spigolare qua e là fra la spazzatura antisemita attribuendole valore probatorio e attendibile, come nei casi di Paolo Medici (p.170) e di August Rohling (p.273).
In questo, in effetti, il testo di Ariel Toaff si può definire scandaloso.
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Tortellini di Sangue
“Un gesto di inaudito coraggio intellettuale”; cosi’ e’ stato definito il volume “Tortellini di sangue – Antropofagia e il sol dell’avvenir” dello storiografo Pasquale Togliatti, nipote di Palmiro, pubblicato la settimana scorsa dalla casa editrice Il Frullino.
“Forse il celebre slogan di alcuni manifesti elettorali del dopoguerra poteva suonare inverosimile o denigratorio; ma lo era veramente? (…) Erano anni difficili, ovunque scarseggiava il cibo, non dimentichiamolo…”. Questa la provocatoria ma rigorosa tesi alla base dell’opera di Togliatti. Ed e’ subito shock in tutta la sinistra europea: fervono le smentite, le controtesi, i dibattiti, gli anatemi… ma il gesto di coraggio è stato adesso compiuto.
L’inquietante domanda e’ stata posta alle fonti dell’epoca, da uno storico perfettamente attrezzato per farlo. La inquietante tesi infatti getta una nuova, inaspettata luce sulla inspiegabile scomparsa nel dopoguerra- di numerosi bambini nei pressi di alcune sezioni PCI, forse attirati con la scusa che, nel dopolavoro annesso, si poteva giocare a calciobalilla. Si parla addirittura di ricette, di un mercato nero, di un andirvieni di misteriose spedizioni dalla zona del Modenese a Mosca…
Con l’opera di Togliatti la casa editrice Il Frullino inaugura “Ebbene si! …” una nuova collana che -a fascicoli settimanali- propone studi firmati da studiosi di impeccabili origini. Questi, con coraggioso rigore intellettuale, rivisitano in chiave critica tesi da tempo considerate mero pregiudizio, o addirittura leggenda.
In catalogo, tra i vari titoli:
“Ebbene si! …Il sole gira intorno alla terra” di Amedeo Galilei;
“Ebbene si! …Gli ebrei hanno la coda” di Adolf Poliakov (con Julius Darwin);
“Ebbene si! …Gli afroamericani sono scimmie poco evolute” di John Calvin King;
“Ebbene si! …Le donne sono tutte putt*** (tranne mia madre e mia sorella)” di Romeo Merlini;
“Ebbene si! …Il Barone aveva ragione!” di Wilfred Munchausen;
“Ebbene si! …Elvis non e’ morto. Era tutto un complotto della CIA” di George W. Presley.
JS
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“Tortellini di Sangue – Antropofagia e il sol dell’avvenir”
di Pasquale Togliatti. Ed. Il Frullino
(Con il primo fascicolo in regalo il secondo ed un libro di ricette tipiche).