Qualche riflessione sulla tragedia e una tradizione difficile
Alberto Moshe Somekh
“Colomba mia negli anfratti della roccia, nel nascondiglio del dirupo, mostrami il tuo aspetto, fammi udire la tua voce, poiché la tua voce è dolce e il tuo aspetto è grazioso” (Shir ha-Shirim 2,14). Nelle nostre fonti il popolo ebraico è spesso paragonato ad una colomba. Scopriremo presto la ragione di ciò.
L’eccidio di Tolosa è avvenuto all’inizio della settimana in cui in tutto il mondo ebraico si leggeva la prima Parashah del Levitico: Wayqrà. Questa Parashah tratta un argomento difficile da comprendere e da accettare per noi moderni: i sacrifici. Fra le offerte che la Torah indica a questo scopo vi sono determinati quadrupedi: bovini, ovini e caprini; vi sono offerte farinacee ed è prevista l’offerta di alcune specie di uccelli. Quali? Anche qui si menziona la colomba.
“E se vuol trarre il sacrificio dai volatili… dovrà presentare il suo sacrificio traendolo dalle tortore o dai figli della colomba” (Wayqrà 1,14). E’ interessante che le due specie non sono presentate nello stesso identico modo. Perché non si parla dei “colombi” così come si parla delle tortore, e li si chiama invece “figli della colomba”? Nel suo commento alla Torah R. Bachyè spiega che la tortora è simbolo di fedeltà: essa si unisce ad un solo partner nella vita e quando lo perde si astiene dal ricercarne un altro. La virtù delle tortore si manifesta dunque in età avanzata e per questo sono gradite in sacrificio le “tortore” per antonomasia, le tortore mature.
Il caso della colomba è diverso. Essa – seguita ad argomentare R. Bachyè – simboleggia un’altra virtù: la mansuetudine. La colomba, almeno finché è giovane, si astiene dall’attaccar briga con i propri simili. Per questo motivo la Torah specifica che si portino in sacrificio non le colombe adulte, bensì proprio quelle in tenera età, i “figli della colomba” che non hanno conosciuto il sapore della discordia.
I nostri Maestri insegnano che i sacrifici sono stati disposti dalla Torah perché l’animale venga sostituito all’uomo in certe situazioni. Ad ogni passo dell’esecuzione del sacrificio l’uomo si ricorderà che l’animale viene immolato al posto suo. Ma dobbiamo ammettere con lancinante dolore interiore, anche se l’idea ripugna alla nostra mente, che ci possono essere dei casi in cui per imperscrutabile Volontà Divina la persona umana è chiamata al sacrificio della propria vita. E il dolore si acuisce ancor più quando si tratta di “figli della colomba”!
Vi sono due tipi di Male nel mondo. Da un lato vi è il Male naturale: le calamità, i terremoti, gli tzunami. Neppure questi ci colpiscono per caso. Maimonide ci insegna che li manda il S.B. perché noi facciamo Teshuvah. E’ dunque nostro dovere accettare queste disgrazie ed elaborare il lutto in tali casi. Ma dall’altro vi è il Male provocato dall’Uomo nei confronti dell’Uomo. Anche a seguito di eventi del genere siamo chiamati a fare Teshuvah, ma ciò non basta. Il Male dell’Uomo non può essere accettato: deve essere combattuto. E’ il contenuto della Tefillah che tutti gli anni rivolgiamo a D. per Rosh ha-Shanah: “fa’ che tutta la malvagità sparisca, quale fumo si dilegui dal mondo allorché allontanerai il dominio del Male dalla Terra”.
Dal Male dobbiamo anzitutto difenderci, nel senso più concreto del termine. Al servizio di Shemirah delle nostre Comunità e di tutte le Comunità Ebraiche del mondo deve essere riconosciuto il merito dell’impegno svolto perché sia garantita la nostra costante protezione. Ma ciò non è ancora sufficiente. Occorre svolgere un’attività capillare in ogni direzione. E’ difficile indicare che cosa fare di volta in volta. C’è però un punto sul quale mi sento di insistere. Dai “figli della colomba” impariamo che si deve cercare di andare d’accordo. E’ un appello che rivolgo a me stesso, alle nostre Comunità, a tutto il mondo ebraico. I nostri Maestri ci insegnano che ‘Amaleq si fortifica allorché, D. ci scampi, noi Ebrei ci presentiamo divisi…