È la voce di Bezalel Smotrich, ministro dell’Economia e leader del partito sionista religioso, quella più netta e perentoria relativamente all’obiettivo della guerra.
Recentemente, suscitando le reazioni indignate dall’opposizione, Smotrich ha dichiarato che la priorità non è la liberazione dei restanti ostaggi prigionieri a Gaza, 134, di cui non si sa quanti ancora vivi, ma la sconfitta di Hamas, concetto da lui ribadito successivamente. In altre parole, per Smotrich la sicurezza di Israele viene prima della liberazione degli ostaggi, e la sicurezza di Israele, relativamente a Hamas, può solo essere ottenuta in virtù della sua smilitarizzazione e della fine del suo dominio sulla Striscia. Questo è l’obiettivo dichiarato dal governo subito dopo il 7 ottobre, ma che a ormai cinque mesi dall’inizio del conflitto, il più lungo intrapreso dallo Stato ebraico dopo la guerra del ’48-’49, ha iniziato a offuscarsi, facendo apparire un nuovo accordo con Hamas finalizzato al ritorno degli ostaggi dopo quello raggiunto a novembre, come la principale priorità da raggiungere.
Bisogna avere la testa ferma sulle spalle e la capacità di guardare i fatti in modo freddo per rendersi conto che la carta principale che può giocare Hamas per tentare di sopravvivere sono gli ostaggi. Il nuovo accordo che si prospetta comporterebbe oltre agli scambi umani da definire tra ostaggi e terroristi incarcerati in Israele, una tregua di sei settimane, ed è questo l’aspetto decisivo, interrompere la guerra per poi fare in modo che non riprenda più.
A questo fine, al di là dell’appoggio militare e del sostegno politico nei confronti di Israele, lavora alacremente l’Amministrazione Biden, per la quale, il prolungamento della guerra è un problema che influisce sul consenso elettorale. Smotrich è una delle bestie nere della Casa Bianca, l’altro è Itamar Ben Gvir. Sono gli impresentabili da tenere a distanza e fuori dal gabinetto di guerra, e idealmente da sostituire con gli assai più docili Lapid e Gantz.
Non è un mistero per nessuno che il governo in carica in Israele sia poco gradito a Washington, se ne vorrebbe un altro, più remissivo nonostante il fatto che da quando la guerra è cominciata, gli Stati Uniti l’hanno commissariata, imponendo direttive umanitarie, cercando di forzarne i tempi, riesumando dalla rigatteria della storia il fantomatico Stato palestinese guidato da una rinnovata Autorità Palestinese, rinnovamento a cui non crede nessuno, così come sono pochi, pochissimi in Israele a volere, dopo il 7 ottobre, uno Stato arabo potenzialmente omicida nel cuore ebraico del paese, e sicuramente lo vede per quello che è, un pericolo reale, Smotrich, così come lo vede Netanyahu.
Fermare per sei settimane la guerra quando Hamas sta caracollando è, per dirla con Joseph Fouché, “Peggio di un crimine, è un errore.” Sarebbe un errore fatale infatti. Credere che dopo una interruzione così lunga la guerra riprenderebbe e si attuerebbe l’attacco a Rafah, avamposto estremo di Hamas, lo possono credere dei bambini.
La realtà è brutale, non si possono avere gli ostaggi liberi in virtù di un accordo con una efferata organizzazione terrorista e, al contempo, l’eliminazione della medesima, sono due esiti del tutto incompatibili, bisogna rinunciare a uno per avere l’altro. Darsi come priorità la vittoria a Gaza significa mettere nel conto la morte degli ostaggi, se non tutti, molti. Esito terribile, ma l’alternativa sarebbe lasciare sopravvivere Hamas a Gaza, vanificare l’obiettivo principale e la morte sul campo di battaglia di quasi trecento soldati dell’IDF.
Sarebbe questo il prezzo da pagare.