Raccontò allora il Tannà Rabbì Yossì. Stavo camminando per le strade di Yerushalàyim, quando arrivato il tempo di pregare, capii che non avrei trovato un miniàn di dieci persone per pregare assieme. Decisi allora di entrare in un palazzo in rovina.
Venne allora il profeta Eliàhu che attese alla porta la fine della mia preghiera. Con gran sorpresa lo trovai che mi aspettava.
“Shalòm a te, Rabbì” mi salutò.
“Shalòm a te, mio rabbino e maestro” gli risposi.
“Dimmi, figlio mio — continuò — perché sei entrato in questo palazzo in rovina? Non lo sai che è un posto pericoloso?”
“Sono entrato per pregare” risposi.
“Ma avresti dovuto pregare per strada piuttosto che esporti a un pericolo!”
“Certo, ma temevo che i passanti mi avrebbero interrotto” risposi.
“Questa non è una ragione sufficiente per entrare in un posto così pericoloso — disse Eliàhu — avresti dovuto dire una preghiera corta (un riassunto che al giorno d’oggi non si usa più, n.d.R.) per strada piuttosto che entrare in questo palazzo in rovina.”
Fui dunque grato al profeta Eliàhu per avermi insegnato tre regole: 1) Che non si entra in un posto pericoloso; 2) che in determinate circostanze si può pregare per strada e 3) chi prega per strada deve recitare una preghiera corta per non essere interrotto dai passanti.
Elia mi domandò poi però incuriosito: “Ma che cosa hai sentito in quel palazzo in rovina?”
Risposi: “Ho sentito una voce come una colomba che tubava. Diceva: ‘Guai ai miei figli, che hanno fatto sì che distruggessi il Mio Tempio a causa dei loro peccati, il Bet Hamikdàsh e che li esiliassi tra gli altri popoli!”
“Sappi — mi disse allora Eliàhu — che la divina Shekhinà (la presenza divina) si lamenta e si addolora tre volte al giorno, quando gli ebrei pregano Shacharìt, Minchà e ‘Arvìt. E quando questi rispondono amèn al kaddìsh nel Bet Hakkenèset, Dio risponde ‘Fortunato è il re che viene onorato nella sua casa. Guai al padre che ha scacciato i suoi figli per farli vivere in esilio. Amara è la sorte dei figli esiliati dalla tavola paterna.’
Per i più piccoli — Che cosa impariamo dal Midràsh?
- Che i grandi Chakhamìm avevano, tramite i loro meriti, la possibilità di poter “dialogare” anche con il profeta Elia.
- Che anche il profeta Elia, pur non essendo d’accordo con il comportamento del Maestro, aspetta che quest’ultimo termini la preghiera prima di parlargli. Anzi lo saluta per primo, rispettandone la sapienza.
- Che talvolta un grande Maestro riesce a instaurare un rapporto con Dio di cui nemmeno un grande profeta è capace (sente infatti le voci nelle rovine).
- Che salutare con “Shalòm” — pace, che è uno dei nomi divini, vuol dire invocare la protezione divina sulla persona che si sta salutando (Elia vuole proteggere il Maestro in pericolo).
- Che Dio, pur avendo punito il proprio popolo con la distruzione del Tempio di Gerusalemme e l’esilio, in un certo modo “soffre” di questo ed è pronto a salvarlo.
- Che le preghiere degli uomini, e in particolare dei Giusti, possono accelerare il perdono divino e quindi la fine della Diaspora.
Per i più grandi – Oltre il Peshàt (significato letterale)
I nostri Maestri nella raccolta ‘En Ya’akòv hanno cercato di superare il significato letterale del racconto. Nel Talmùd il midràsh si inserisce dopo una affermazione di R. Eli’èzer che sostiene che la preghiera di ‘Arvìt detta su questa terra ha una corrispondenza, come tutte le altre preghiere della giornata, a quello che avviene nell’alto dei cieli. Secondo la concezione ebraica dunque, Dio partecipa alle preghiere degli esseri umani.
Il Maestro che si avventura nel palazzo in rovina è un discepolo di rabbì Akivà, che una generazione prima aveva creduto di poter vedere ai suoi tempi l’avvento messianico, durante la rivolta di Bar Kokhvà. Le rovine potrebbero dunque essere quelle del Bet Hamikdàsh distrutto. Entra dunque con la speranza di poter accelerare, con la sua preghiera, la venuta del Mashìach: i passanti che lo disturbano in strada, che raffigura la diaspora, sono le nazioni della Terra con le loro persecuzioni.
Appare dunque Eliàhu, il profeta che in effetti, secondo la tradizione, annuncerà l’avvento. Questi però, con le sue domande vuole sincerarsi delle intenzioni del rabbino. Vuole pregare per lamentarsi con Dio che ancora non ha portato il Mashìach, oppure vuole con la sua tefillà di tzaddìk influenzare il decreto divino? La preghiera corta di cui si parla, in realtà sarebbe la tefillà diminuita di valore che rimane al popolo ebraico nel tremendo esilio della Golà. A R. Yossì viene dunque fortemente rimproverato il suo tentativo di accelerare l’evento messianico e viene però ribadito il ruolo che la preghiera umana, di tutti gli uomini, può avere, per accelerare tale evento.
Il Kaddìsh in effetti è la preghiera fondamentale che santifica e fa grande il nome di Dio tra le nazioni, che riconoscendolo permetteranno l’evento messianico. Nel Talmùd (TB Shabbàt 119b) è scritto che vengono aperte le porte del Gan Eden nel mondo futuro a chi risponde amèn al Kaddìsh. Secondo altri a.mè.n. sono le iniziali di El Mèlekh Neemàn, ovvero Dio Re Fedele. Fedele al suo patto di mandare la redenzione finale, nonostante il millenario esilio.
T.B. Berakhòt 3a
David Piazza
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