Riemergono i diari di David Prato, che nel 1936 incontrò Pio XI per chiedergli di fare causa comune di fronte alla marea montante del “neopaganesimo”
Maurizio Molinari
L’incontro fra un esperto d’arte di Sotheby’s e l’allievo di Renzo De Felice attorno a un manoscritto inedito consente di ricostruire una pagina sorprendente della storia europea: negli Anni Trenta del Novecento i rabbini europei guardavano al Vaticano di Pio XI come possibile fonte di protezione e tutela dall’antisemitismo «pagano». L’esperto d’arte è Angelo Piattelli, romano trapiantato a Gerusalemme, già al servizio di Sotheby’s per la Judaica in Israele ed Europa, che nel 2003, durante una visita in casa di Jonathan Prato per discutere dei diari del padre David che fu rabbino capo d’Alessandria dal 1927 al 1936 e di Roma nel 1937-38 (e dopo la guerra dal 1945 al 1951), trova casualmente una pagina manoscritta ingiallita dove in cima si legge «Capitolo XVI – La missione in Vaticano in favore degli ebrei polacchi».
Piattelli trascrive oltre mille pagine dei diari e si rivolge a Mario Toscano, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma dove fu a lungo a fianco di Renzo De Felice, invitandolo a studiarne assieme le ricostruzioni degli incontri con Mussolini, Ciano e i rapporti con il Vaticano. È proprio Toscano a riassumere ora le novità contenute nell’inedito «Capitolo XVI» in un articolo su Mondo contemporaneo che esce quasi in contemporanea con uno studio di Piattelli sulla Rassegna mensile di Israel dedicato a David Prato.
Ciò che emerge è, anzitutto, la ricostruzione della missione di Prato a Roma in favore degli ebrei polacchi. Siamo nel 1936, Adolf Hitler è al potere da tre anni in Germania, e l’atmosfera di odio antiebraico spazza il Vecchio Continente. A Varsavia il Parlamento approva una legge che vieta la macellazione religiosa ebraica del bestiame e per oltre tre milioni di ebrei polacchi significa restare senza carne. Per Prato si tratta di un’«infamia» e il 25 febbraio 1936 riceve dal rabbino di Dublino, Isaac Herzog, la richiesta di chiedere aiuto a Pio XI. «Sforzandomi di ragionare per trovare il modo di agire», scrive Herzog a Prato, «mi è venuto in mente che, in quanto nato in Italia e scelto per assumere la cattedra rabbinica romana, avrà conoscenze influenti ed altolocate che potrebbero raggiungere persino il Vaticano, quindi la prego di rivolgersi a loro affinché dal Vaticano provenga una direttiva riservata ai capi della Chiesa cattolica polacca».
Prato interpella i maggiori rabbini italiani dell’epoca – Gustavo Castelbolognesi, Adolfo Ottolenghi e Alfredo Sabato Toaff – esprimendo la convinzione che «il Vaticano ha un’enorme influenza sul governo polacco e potrebbe agire con speranza di risultato». Un’opinione sostenuta anche da Ottolenghi: «Il Vaticano ha una grande autorità religiosa internazionale». E il 17 marzo 1936 David Prato sbarca a Roma, ottenendo 48 ore dopo udienza in Vaticano, nel giorno del calendario che coincide con san Giuseppe. Varcata la soglia della Santa Sede, Prato manifesta stupore: «Una meraviglia, uno splendore, un incanto inverosimile. All’impressione provata che colpiva il mio
animo si aggiungeva per aumentare il mio imbarazzo la completa ignoranza del protocollo e del cerimoniale». Vede il cardinale Eugenio Pacelli, che nel 1939 diventerà Pio XII, e monsignor Domenico Tardini, sottosegretario di Stato di Pio XI. «Non mi sarei mai immaginato che mi ricevessero in un giorno di festa, è stato un colloquio interessantissimo» annota Prato nel diario, aggiungendo di aver ricevuto la «promessa di intervento immediato presso l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede». «Non potevo trovare comprensione più rapida e completa» osserva.
Così quando l’8 gennaio 1937 torna a Roma, il rabbino Prato fa recapitare un «reverente saluto a Tardini» e il 15 maggio 1938 incontra di persona Pacelli «per perorare la causa degli ebrei ungheresi» anch’essi alle prese con discriminazioni e sofferenze. Anche in questo caso Prato agisce con il consenso dei rabbini europei e italiani e parla della proibizione della macellazione rituale, come anche della normativa antisemita introdotta in Ungheria proprio in quelle settimane che introduce criteri proporzionali nella presenza ebraica nella società.
«Certo è che noi dovremmo curare i rapporti col Vaticano perché siamo in questo momento compagni di sventura» appunta Prato nel diario, individuando un terreno di convergenza di interessi con il Vaticano: «Quanto avviene nel mondo rappresenta il fallimento del Cristianesimo» a causa del «neo paganesimo che rimonta con la sua marea», e l’ebraismo «deve lottare, come già lottò, contro il paganesimo che non è affatto scomparso e che si ripresenta oggi sia pure sotto un nuovo aspetto ma sempre temibile per l’umanità». «Questa è la nostra missione» aggiunge Prato, sottolineando la convergenza tra ebrei e Vaticano.
Il canale di comunicazione tra il rabbino di Roma e la Santa Sede funziona ancora nel maggio 1938 – a pochi mesi dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia – grazie all’attenzione del Pontefice nei confronti dell’intolleranza religiosa e «della crescita del razzismo e della statolatria». Per Toscano «Prato coglieva nel neopaganesimo avanzante un pericolo che minacciava insieme il mondo ebraico e quello cattolico», e il 18 maggio 1938 lo spiega all’esponente sionista Moshe Waldmann, formulando la convinzione che l’aggravarsi della spinta neopagana in Germania avrebbe provocato una maggiore attenzione del Vaticano nei confronti delle «richieste ebraiche».
Ma la situazione per gli ebrei in Europa precipita, Prato nel dicembre 1938 lascia l’Italia per rifugiarsi in Palestina e il pontificato di Pio XII, succeduto a Pio XI nel ’39, si sviluppa in un clima assai mutato. Ma «il nuovo rapporto, paritario, aperto e collaborativo del Vaticano con il mondo ebraico, vagheggiato da Prato in anni drammatici e terribili», conclude Toscano, «sarebbe sorto decenni più tardi, in un contesto drammaticamente e radicalmente mutato dalla Shoah e dalla nascita di Israele».
La Stampa – 13.6.14