Storie di Storia /10
Il decimo numero di Storie di Storia, la newsletter de La Repubblica, è dedicato alla vicenda di Pietro Caruso, il criminale fascista che opera come questore di polizia a Roma durante l’occupazione nazista della capitale. Svolge il proprio ruolo tra le attività della polizia militare tedesca e le compagnie autonome di fascisti che imperversano in città. Firma di suo pugno una lista di deportazione di ebrei ai campi di sterminio. Allo scoppio della bomba in via Rasella è il primo ad arrivare sul posto. Nelle ore che precedono l’eccidio delle Fosse Ardeatine, rappresaglia per l’attentato partigiano, il questore Caruso è coinvolto nella redazione della lista dei 50 nomi di prigionieri che il comandante della polizia tedesca di Roma Herbert Kappler richiede agli italiani e che con altri 285 prigionieri sono trucidati il 24 marzo 1944. Pietro Caruso sarà condannato a morte e fucilato sei mesi dopo nel primo processo contro il fascismo. Questo numero di Storie di Storia si è avvalso della collaborazione dello storico Amedeo Osti Guerrazzi. Buona lettura.
LA STORIA
Vita, delitti e morte di Pietro Caruso
IL PRIMO CRIMINALE FASCISTA A PROCESSO
Roma, 22 settembre del 1944. Forte Bravetta, Riserva naturale della Valle dei Casali.
Alle 14 precise da un furgone grigio entrato nel cortile escono alcuni carabinieri in divisa. Un ufficiale guida a passo di marcia un plotone di fucilieri verso una collina colorata dal verde di erba incolta. Una sedia vuota di legno è posizionata di fronte alla parete di terra. Due militari portano a braccia un uomo, gli porgono le stampelle. Lui si china con cautela, le afferra e si appoggia con difficoltà sulla sedia. Fatica a stare a cavalcioni con la faccia verso lo schienale. I carabinieri lo aiutano a sedersi e lo legano con una corda. L’uomo è Pietro Caruso, questore di Roma, primo criminale fascista italiano condannato da un tribunale del governo a morte per fucilazione. A sua moglie nella sua ultima notte di vita scrive: «Cara Giulia, io sconto con la mia vita il male che ho fatto alla società. Di ai miei figli di non maledire il loro padre». Scriverà di lui il giornalista Salvato Cappelli: «fu il personale nemico di due milioni e mezzo di uomini, stretti e avvinti l’un l’altro nelle terrificate case romane».
Indossa un abito blu elegante, dal taschino della giacca gli spicca un fazzoletto bianco, ha la barba non perfettamente rasata. È zoppo dal giorno in cui correva ad alta velocità in un’auto scoperta per sfuggire agli alleati. L’auto aveva sbandato in un fosso e Caruso si era rotto l’anca. La sedia delle esecuzioni capitali è solidamente piantata nel suolo a pochi metri dalla scarpata. Il colonnello Pollock con una rappresentanza di militari alleati, insieme con il questore di Roma sono di fronte al terrapieno. Pietro Caruso a testa bassa e con passo stanco si avvia alla seggiola. Aiutato da due uomini si siede a cavalcioni, mentre alcuni uomini lo legano alla sedia. A quell’uomo vicino alla morte si avvicina un prete. Parlano qualche momento, Caruso prega e bacia un piccolo crocifisso attaccato ad un rosario appositamente benedetto da Papa Pio XII. A un cenno il sacerdote si allontana. Caruso gira leggermente la testa e dice con voce roca ma decisa: «Viva l’Italia! Mirate bene». Sedici carabinieri, otto in piedi e otto in ginocchio, puntano i fucili e sparano. La schiena è perforata dalle pallottole, la nuca si frantuma. Ora tocca ai fotografi che si precipitano per immortalare il corpo martoriato. Una semplice bara di ebano accoglie il corpo dell’ex Questore, la sedia viene distrutta mediante un accetta.
«È stato l’uomo più odiato della capitale, un sadico praticante», scriverà domani la rivista americana Time, «aveva un appartamento privato dove torturava personalmente le vittime». Questo però non è mai stato accertato.
Quarantacinque anni prima.
Caruso nasce il 10 novembre del 1899 nella cittadina di Maddaloni vicina a Caserta, dal professore Cosimo e da Giuseppina Pisanti che aveva già messo al mondo quattro figli. A tre anni è considerato un bambino prodigio, recita con grazia e buona dizione versi dell’Alfieri e del Manzoni. La poesia non influisce sul suo carattere. Durante le scuole elementari si mostra irruente e prepotente verso i compagni. All’età di otto anni frequenta il Collegio di S. Lorenzo ad Aversa. Non portato per gli studi classici, dopo essersi diplomato in un istituto tecnico, frequenta a diciotto anni presso la Reggia di Caserta un corso di allievi ufficiali di complemento. Consegue il grado di aspirante è assegnato a un reggimento di bersaglieri e parte per il fronte. Siamo verso la metà dell’anno 1918, la Grande Guerra è al termine e a novembre di quell’anno Caruso, cessate le ostilità, poco dopo l’armistizio viene congedato e si stabilisce a Napoli. Nel fascicolo “Vita delitti e morte di Pietro Caruso” Edizioni dell’Alfabeto si legge di lui: «Squattrinato, ozioso, svogliato, trascorreva le sue giornate napoletane tra i marciapiedi di via Toledo e la crociera della Galleria; e quando tra il 1920 e il 1921 il nascente fascismo raccoglieva tra i rifiuti della società gli sfaccendati, i facinorosi e gli scapestrati per formare le famigerate “squadre d’azione”, Caruso sentì che gli si schiudeva la vita che aveva sempre sognata: aggredire gli inermi a colpi di manganello, somministrare a vecchi uomini politici l’olio di ricino; saccheggiare e incendiare le case di persone rispettabilissime rispondeva perfettamente alle sue mussoliniane tendenze di “italiano nuovo”». Il 1 febbraio del 1921 si iscrive al fascio di Napoli ed è accolto nella squadra d’azione “La Serenissima”. Dopo aver preso parte nel ‘22 alla famosa adunata di Napoli, Caruso, come dirà dopo la sua morte l’avvocato Francesco Spezzano suo difensore nel processo, «poco più che ventenne fu travolto dall’idea fascista, fece la così detta Marcia su Roma, il primo capitolo del più vergognoso periodo che ha schiantato la nostra terra martoriata. Aveva scarsa cultura, era un debole, un mediocre, un fanatico che doveva scontare con la vita le colpe e turpitudini della più raffinata e cinica associazione a delinquere che abbia avuto la storia». Il 3 marzo 1923 è capomanipolo delle Camicie nere. Spadroneggerà successivamente nella Milizia portuaria di Napoli per una decina d’anni, quando vestendo un cappello stile cowboy frequenta i più eleganti locali cittadini. Tra il ‘33 e il ‘34 supera indenne, come accadeva sempre ai benemeriti fascisti, un regolare processo intentatogli per ammanchi all’amministrazione della portuaria, ma viene trasferito. Dopo diverse destinazioni – Livorno, Genova, Venezia, Sabaudia, Trieste dove comanda la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, Zara dove presta servizio presso il Tribunale Straordinario della Dalmazia (il suo nome figura nell’elenco dei ricercati dalla Jugoslavia per crimini di guerra compilato dagli Anglo-americani) – il 5 gennaio del 1944 è nominato Questore di Verona. Sono i giorni del processo di Verona, città sotto la giurisdizione della Repubblica Sociale Italiana, che vede alla sbarra – Galeazzo Ciano, Giovanni Marinelli, Emilio De Bono, Carlo Pareschi, Luciano Gottardi e Tullio Cianetti – membri del Consiglio del Fascismo che nella seduta del 25 luglio 1943 avevano sfiduciato Benito Mussolini dalla carica di Presidente del Consiglio. Pietro Caruso è l’uomo giusto per garantire un buon servizio di ordine pubblico. Sarà un successo che permetterà al poliziotto fascista, per espressa volontà del Duce, di essere nominato Questore di Roma. Lo aspetta un importante lavoro, c’è da riorganizzare la Questura visto che non tutti i funzionari in quei giorni in servizio si mostrano “disponibili” a collaborare con i tedeschi.
Pietro Caruso assume le funzioni di questore. Appena giunto a Roma sceglie un lussuoso appartamento all’Hotel Plaza e la più bella automobile disponibile, con la quale si reca a rendere omaggio al Generale Kurt Maeltzer, comandante tedesco della piazza di Roma. Al suo fianco è subito attivo il famigerato segretario Roberto Occhetto, un tempo anche lui membro della milizia portuaria prima di prestare servizio nel controspionaggio dell’esercito. A Roma si respira un’atmosfera di terrore con le bande capitanate da Koch e Bernasconi che imperversano. Dopo l’8 settembre, l’ufficiale dei granatieri Pietro Koch aveva ottenuto dal capo della Polizia Tamburini incarichi speciali, così come Giuseppe Bernasconi, regolarmente arruolato alle “SS” italiane e poi diventato capo della federazione repubblichina. Due uomini feroci protagonisti di ogni atto criminale contro antifascisti ed ebrei: omicidi, rapine, sequestri di persona, furti, consumati quotidianamente, e torture e sevizie praticate in via Principe Amedeo n.2 e in via Romagna n.30. Zara Algardi nel suo “Il processo Caruso” scriverà: «La nomina di Caruso a questore di Roma consentiva ai due famigerati individui sunnominati una maggiore boria ed una sempre maggiore libertà di azione, perché il Caruso la pensava come loro ed avrebbe, quindi, legalizzato i loro atti criminali. Ma non si ferma qui l’attività criminosa del Caruso». In un riservato memoriale della Pubblica Sicurezza, datato 11 agosto 1944, si legge: «Le squadre speciali create dal Caruso in Questura erano essenzialmente tre: 1° La squadra diretta dal Dr. Perrone Umberto che si occupava di perseguitare antifascisti, antinazisti ed ebrei, di sequestrare valori e beni occultati dai legittimi proprietari, nella maggior parte di razza ebraica, per farli sfuggire alla confisca ordinata dalle leggi razziali o alla cupidigia di nazifascisti, di reprimere la borsa nera; 2° La squadra diretta dal Vice Commissario Dr. Senatore Francesco, che si occupava unicamente della requisizione di autoveicoli destinati al “Commissariato trasporti dell’Urbe; 3° La squadra diretta dal Vice Commissario aggiunto Dr. Cappa Gennaro, che si occupava solo del rastrellamento di uomini da avviare al servizio obbligatorio del lavoro. Per poter operare, naturalmente, erano indispensabili dei delatori, chiamati pure col nome meno infamante, confidenti». Alle retate Caruso partecipa personalmente per dimostrare ai camerati tedeschi la sua intenzione di collaborare attivamente con loro per non tradire la fiducia in lui riposta ed è per questo che crea delle squadre speciali composte da uomini assolutamente fidati. «Pietro Caruso fu il signore assoluto di Roma», scrive ancora Salvatore Cappelli, «
pesò per mesi sulle nostre notti, si insinuò in centinaia di migliaia di famiglie, corruppe i portieri, puntò i mitra contro i vecchi Commissari disgustati; spedì in Germania, instancabile, treni sempre più numerosi di condannati alla deportazione. Non cercò l’innocenza, né la trasse a salvamento. Passò come una bufera dantesca, sostando ai crocevia con i suoi “paini” razziatori; scalò i rifugi, infranse le porte dei conventi, vagliò attentamente il gregge affidatogli e separò la pecora rognosa da quella sana, uccidendole entrambe; districando ebrei, comunisti, antifascisti, ex fascisti dal nodo comune, ma tutti egualmente inviando al carnefice. Un ilare notaro da campo boario che annotava i morti dopo aver bevuto champagne con le tristi ballerinette della periferia, soddisfatto di “eseguire gli ordini”, sicuro di aver bene operato per la patria. Neonati ebrei venivano consegnati ai direttori delle case di pena; ragazzi quattordicenni provavano sul loro capo il peso del taglione; vecchi seviziati; donne torturate alla presenza dei loro uomini. Via Romagna colpiva con i pugni stretti, sulla nuca, sulle reni, sulle costole. Su tutti e tutto, Pietro Caruso, sereno, che divideva il bottino parlando ai giovani e restii funzionari di polizia un linguaggio paterno».
«Era stato riferito da qualche delatore che nella basilica extraterritoriale di S. Paolo avevano trovato asilo degli ufficiali e dei giovani che non avevano voluto obbedire agli ordini di dei capi della nuova repubblica, e Caruso, che forse non ricordava i principi del diritto internazionale, ordina una sorpresa nella Basilica predetta per catturare coloro che ivi si erano rifugiati. Mancavano uomini di fiducia ed egli si rivolse perciò al Dr. Koch, al cui fianco pose il Vice Commissario aggiunto Dr. Cannavale, innanzi generalizzato, ed il Vice Commissario Dr. Fini Leonardo, il quale ultimo , per aver sollevato, durante l’operazione, delle obiezioni sulla legalità di essa, si vide trasferito in un ufficio sezionale e minacciato di sanzioni più gravi. L’operazione fu condotta al termine con la complicità di Don Epaminonda Idelfonso Troia, un diavolo in veste da prete, che, dopo aver celebrato la messa al mattino, per tutto il resto della giornata e fino al mattino successivo, cercava notizie per Koch, nella cui banda probabilmente proficuamente lavorava, sfruttando perfino quelle notizie che gli venivano affidate nel segreto della confessione. Coloro che vennero trovati nella Basilica, alcuni perfino in abito talare, furono dichiarati in arresto, percossi, ingiuriati e beffati (il Caruso ne fece fotografare alcuni in abito talare e ne fece pubblicare le fotografie sui quotidiani dell’epoca) e poi, nonostante le proteste del Vaticano, che si era affrettato ad inviare sul posto l’ing. Galeazzi, tradotti ammanettati, dagli scherani di Koch e di Caruso che pur non aveva nessuna veste per farlo, nei carceri di Regina Coeli, e di là, dopo qualche giorno nel nord dell’Italia».
«Dalla relazione redatta l’11 maggio dal famigerato Dott. Pietro Koch comandante delle squadre di torturatori, dal sedicente Questore Caruso, rilevasi che un giovane il giorno dell’attentato si trovava all’angolo di via Rasella e, all’apparire della colonna tedesca, avrebbe fatto un cenno convenzionale ad uno sconosciuto vestito da spazzino, conosciuto col nome di Paolo. Costui, con la sigaretta avrebbe acceso la miccia per la esplosione delle bombe su un carrettino porta-immondizie. Un altro individuo, contemporaneamente da un posto sopra elevato, avrebbe esploso colpito alcuni colpi d’arma da fuoco, onde dare l’impressione che le bombe occorse per l’attentato alla colonna erano partite dall’alto. Immediatamente vi fu reazione da parte dei soldati tedeschi, militi della G.N.R. e da un gruppo di fascisti capitanati dall’allora questore Caruso, dal tenente Koch e da altri suoi fidi collaboratori. Tedeschi e fascisti procedettero ad arresti in massa, prelevando dai fabbricati da cui si riteneva fossero partiti i colpi d’arma da fuoco, vecchie, donne e bambini, che, a mezzo di automezzi, furono trasportati al Ministero dell’Interno. La stessa sera le “SS” richiesero i precedenti penali e politici di tutti coloro che erano stati arrestati da loro nel pomeriggio, e per ciascuno i funzionari e gli agenti addetti dissero che precedenti non ce ne erano, sebbene alla richiesta dei precedenti presenziassero ufficiali delle “SS” tedesche. La sera del 23 marzo il Questore Caruso ebbe dal Comando tedesco la richiesta di consegnare 100 nominativi di persone arrestate: il Caruso ridusse la richiesta a soli 50 e, prima di aderire, volle recarsi da Buffarini Guidi per farsene autorizzare. La mattina del successivo 24 tenne nel suo gabinetto una breve e segreta riunione con i suoi più fidi e diretti collaboratori, comandati dalle varie squadre speciali, Koch, Tela, Bernasconi, Occhetto e qualche altro non conosciuto, con i quali preparò la nota dei 50 detenuti da consegnare sollecitamente al Comando Tedesco per la fucilazione. Nell’elenco furono inclusi tutti i nomi degli esponenti e gregari del partito d’azione e gli altri arrestati dalle squadre speciali e dai fascisti. L’elenco sottoscritto dal Caruso venne inviato all’Ufficio Matricola delle Carceri dal Dott. Alianello, il quale giunse sul posto con mezz’ora di ritardo provocando l’inconveniente che i tedeschi recatisi a ritirare gli uomini loro assegnati dal Caruso non avendo trovati quelli, prelevarono un gruppo di 10 pregiudicati comuni che dovevano essere, invece, rimessi in libertà. Per tanto nell’elenco firmato dal Caruso vennero sostituiti 10 nomi di ebrei con quelli arbitrariamente prelevati dai tedeschi. Su tali circostanze non possono sorgere dubbi perché il questore Caruso sottoposto ad interrogatorio nelle locali carceri, ha sostanzialmente confermato quanto innanzi è detto. Il Comando Tedesco prelevò dal sesto braccio di via Tasso complessivamente altre 270 persone fermate dalle “SS”, che ammanettate ed a mezzo di autocarri coperti vennero condotti in zona che non fu fatta conoscere a nessuno e che solo in seguito si è saputo essere le Fosse Ardeatine. Come rilevasi da una relazione esistente nel fascicolo sopra indicato, tutti i fermati sarebbero stati trascinati, ammanettati in una galleria, che militari tedeschi fecero poi saltare con una mina».
Il Questore Morazzini
Il 3 giugno gli alleati sono alle porte di Roma. Non vi è più da attendere e presi accordi con il vice capo della Polizia Cerruti, Pietro Caruso decide che sarebbe fuggito al mattino del giorno dopo. Gli avvenimenti però precipitano. Viene svegliato alle 3 di notte, ha il tempo di vestirsi di corsa, caricare pesanti valigie sulla sua Alfa Romeo e scappare. La meta è il nord Italia, con lui una colonna di auto e un autopullman carichi di uomini a lui fidati, che avevano condiviso nella Roma occupata crimini di ogni tipo. Aerei alleati che sorvolano la zona intercettano i fuggitivi e cominciano a sparare dall’alto. Caruso nelle brusche manovre necessarie a sfuggire un aereo a bassa quota che lo mitraglia perde contatto con la colonna e devia per una via secondaria intorno al Lago di Bracciano. Tornato sulla strada principale ancora un caccia-bombardiere sulle sue tracce. Nuovo mitragliamento, azzarda una manovra per scansare una macchina tedesca che sbandava, ma finisce la sua corsa contro un albero. Riporta varie ferite e la frattura di una gamba. Con lui un funzionario di P.S. e due militi. Un’ambulanza tedesca di passaggio li carica accompagnandoli all’ospedale di Viterbo. Diagnosi frattura e lussazione del femore sinistro. Pietro Caruso pur essendo in possesso di un passaporto falso – Pietro Caputo, funzionario dell’Italcable – sentendosi sicuro dà le sue vere generalità prima di essere condotto con urgenza in sala operatoria. L’operazione dura quaranta minuti. Il riconoscimento di un avvocato romano gli sarà fatale. Trasferito all’Ospedale di Bagnoregio viene arrestato dalla polizia alleata e tradotto a Roma presso il carcere di Regina Coeli dove incontra il suo braccio destro Roberto Occhetto. Dal libro di Zara Algardi, “Il processo Caruso”, Gianni Darsena Editore in Roma, l’elenco di cosa gli viene sequestrato all’Ospedale di Bagnoregio:
Dopo un’istruttoria durata oltre tre mesi, Caruso e Occhetto vengono consegnati all’Alta Corte di Giustizia per la punizione dei crimini del fascismo che inaugura una serie di processi passati alla storia politica e giudiziaria italiana. In uno degli interrogatori Caruso dichiara: «vorrei che fosse tenuto presente che agli ordini tedeschi non si poteva non obbedire».
Pietro Caruso sarà processato per questo capo d’accusa:
del reato previsto e punito dall’art. 5 del D.L.L. 27.7.1944, n.159, in relazione con gli art. 51 del C.P.M.G. e 61 n. 9 del C.P.C., per avere in Roma, posteriormente all’8 settembre 1943 e fino al 4 giugno 1944, valendosi delle funzioni di questore, da lui assunte alle dipendenze dell’illegale governo fascista repubblicano, prestato aiuto, assistenza e collaborazione al tedesco invasore:
Consegnando, il 24 marzo 1944, al comando militare tedesco n.50 detenuti politici e comuni, affinché fossero, come furono, sottoposti ad esecuzione sommaria dal comando stesso quale atto di rappresaglia indiscriminata conseguente all’attentato di Via Rasella;
attuando reiterate razzie ed arresti arbitrari di liberi cittadini, poi consegnati ai tedeschi per il servizio del lavoro;
violando la extra territorialità della Basilica di S. Paolo, al fine di trarre in arresto ufficiali e altri cittadini, e li vi si erano rifugiati per esimersi dall’adempimento di obblighi ad essi imposti dai tedeschi e dal governo fascista repubblicano;
autorizzando il brigadiere della milizia portuaria Occhetto Roberto ed altri militi portuari a frequentare un corso di sabotaggio istituito a Schewening dalle autorità tedesche.
E condannato:
Per quanto concerne la misura della pena si osserva, nei riguardi del Caruso, che la molteplicità e la gravità dei fatti da lui commessi, il suo comportamento fazioso e crudele, l’assoluta mancanza, in lui, di ogni amore di Patria e di ogni senso di umanità, rendono doverosa, nei suoi confronti, l’applicazione di tutto il rigore della legge, onde deve essere a lui inflitta la pena stabilita dall’art. 51 del codice penale militare di guerra, la morte cioè fucilazione nella schiena (art. 25 C.P.M. di pace).
LA VICENDA
Gli ebrei a Roma occupata dai nazisti
LA VERGOGNA DELLE LEGGI RAZZIALI
Di Amedeo Osti Guerrazzi (Storico. Collabora con la Fondazione Museo della Shoah).
La Comunità ebraica romana è la più antica e numerosa d’Italia. Arrivati nel 200 Avanti Cristo, gli ebrei si considerano, giustamente, “più romani dei romani”. Le loro vicissitudini sono strettamente intrecciate con la storia della città. Liberata dalle odiose “interdizioni israelitiche” dallo Stato liberale nel 1870, la Comunità aveva conosciuto un notevole successo economico e sociale. Uscite finalmente dal Ghetto, la maggioranza delle famiglie aveva continuato però il tradizionale impiego nel commercio, espandendosi nei quartieri del centro, ad esempio “colonizzando” via del Tritone e via Nazionale. Alcuni avevano trovato lavoro nell’amministrazione statale, nelle professioni e nelle forze armate. Perfettamente integrati nella società, gli ebrei avevano dato un contributo notevole all’espansione economica, culturale e sociale della Capitale del Regno.
Le leggi razziali erano quindi arrivate nel 1938 come un colpo inaspettato, mettendo in crisi migliaia di persone, che si trovarono improvvisamente cacciate dagli impieghi statali, dal partito fascista e dalle professioni. La Comunità si era nuovamente chiusa in se stessa, trovando aiuto e sollievo nella solidarietà tra correligionari.
La caduta del fascismo, il 25 luglio 1943 aveva suscitato, per tutti gli italiani, l’illusione della fine della guerra e della dittatura a cui si era aggiunta, per gli ebrei, la speranza di una prossima cancellazione delle odiose leggi contro di loro. L’illusione si rivelò ben presto infondata. L’arrivo delle truppe tedesche, il 9 settembre 1943, riportò la paura e l’incertezza. Tuttavia gli ebrei romani, tranne i pochi che ebbero la lungimiranza di scappare in tempo, non capirono il pericolo a cui erano esposti. Il regime fascista aveva perseguitato e messo in ginocchio la Comunità, aveva arrestato e mandato in campo di concentramento centinaia di loro, ma non aveva mai messo in pericolo le loro vite.
Fino alla deportazione del 16 ottobre 1943, gli ebrei romani non ebbero la percezione del pericolo incombente. Un po’ per ignoranza della politica di sterminio nazista, un po’ per la fiducia nella protezione del Papa, e infine perché in Italia “certe cose non possono succedere”, furono pochi quelli che si prepararono alla fuga. Molti, infine, erano semplicemente troppo poveri e troppo isolati dal resto della società per procurarsi un rifugio.
Con i nazisti, tutto stava per cambiare, e in peggio.
Quando, a fine settembre, il comandante della polizia tedesca Herbert Kappler, richiese alla Comunità 50 chili d’oro (pena la deportazione di 200 capifamiglia), gli ebrei obbedirono, sentendosi poi al sicuro perché “i tedeschi sono persone di parola”. Fu un terribile errore.
L’alba del 16 ottobre 1943 fu la fine di ogni illusione. Un reparto speciale di polizia, comandato dal fanatico capitano delle SS Theodor Dannecker, si sparpagliò per tutta la città arrestando circa 1250 persone, non risparmiando vecchi, donne incinte, malati e bambini. Molti riuscirono a mettersi in fuga, vagando poi per la città o trovando rifugio presso amici e conoscenti cattolici, ma gli sventurati caduti nella rete nazista furono portati al Collegio militare (su via della Lungara) e qui lasciati per due giorni. Dopo una “scrematura”, e il rilascio dei coniugi e figli di cattolici, 1022 persone furono portate alla stazione Tiburtina. Il viaggio, in condizioni infernali su carri bestiame stracolmi di gente, senza acqua, cibo e servizi igienici, cominciò la mattina del 18 ottobre, per concludersi il 23 ad Auschwitz Birkenau. All’arrivo, la maggior parte delle vittime fu inviata alle camere a gas. Alla fine della guerra, soltanto 16 persone di quel trasporto tornarono a casa. Tra essi 15 uomini, una donna e nessun bambino.
I mesi successivi furono caratterizzati dal terrore e dalla fame. Alcuni riuscirono a trovare un rifugio precario nei paesi fuori Roma, ad esempio a Olevano Romano. Altri si nascosero nelle campagne. Migliaia trovarono un nascondiglio in conventi e case religiose, dove i nazisti non misero piede. Molti altri, ancora, dovettero semplicemente tornare nelle loro case, non avendo trovato alcuna alternativa. I pochi che avevano ancora del denaro, riuscirono a pagare cibo e alloggio con i loro risparmi, molti invece dovettero continuare a combattere per guadagnarsi il pane. Ci fu chi continuò il tradizionale lavoro di “urtista”, cioè di venditore di cartoline e ricordi per turisti, mestiere pericolosissimo dato che gli unici visitatori della Capitale erano proprio i soldati tedeschi. Altri ricominciarono la vendita ambulante di piccoli oggetti (andavano molto i portafogli e gli elastici), altri ancora tentarono la vendita alla borsa nera di cibo.
Attorno agli ebrei era però stesa una fittissima rete di polizie, di delatori, di traditori. La questura romana, agli ordini di Pietro Caruso, diede un contributo importante alla “caccia all’ebreo”, arrestando e consegnando ai nazisti centinaia di vittime. In più, il comando della polizia tedesca, insediato a via Tasso, poteva contare su alcune squadre di collaborazionisti specializzati proprio nella ricerca e arresto degli ebrei. Non ci furono soltanto deportazioni. Quando il 24 marzo i nazisti uccisero 335 italiani nella strage delle Fosse Ardeatine, per 77 delle vittime furono scelte tra gli ebrei, alcune arrestate nei giorni precedenti e in attesa del viaggio per Auschwitz, altre fermate quel giorno, proprio dalle squadre di collaborazionisti.
La fine dell’incubo arrivò soltanto il 4 giugno 1944, con l’arrivo degli Americani. Un incubo che era costato la vita ad oltre 1700 persone, colpevoli soltanto di essere ebree.
FRAMMENTI
«Tra il 9 settembre 1943 e il 2 maggio 1945, date di inizio e fine dell’occupazione tedesca, furono deportati (o uccisi) dall’Italia poco meno di 7.000 ebrei, su una popolazione di circa 45.000, una percentuale paragonabile a quella degli altri paesi dell’Europa occidentale, anche se l’Italia centro-settentrionale fu occupata per molto meno tempo. (…). In Italia prima dell’armistizio le notizie sulla Shoah circolavano, erano dettagliate ed erano diffuse. Non vi era quindi nessun “terribile segreto” e chi collaborava con i nazisti sapeva perfettamente il destino delle vittime ebree. Nell’estate del 1943, in conclusione, lo sterminio degli ebrei poteva essere più che un sospetto, anche se non una certezza, per buona parte del governo italiano».
Amedeo Osti Guerrazzi, storico. Dal libro Gli specialisti dell’odio. Delazioni, arresti, deportazioni di ebrei italiani. Casa Editrice Giuntina, 2020.
LE CARTE
CRIMINI CONTRO GLI EBREI
La firma di Caruso in calce alle liste di deportazione della Questura
Silvia Haia Antonucci (Archivista responsabile presso l’Archivio storico della Comunità Ebraica di Roma) e Claudio Procaccia (Direttore del Dipartimento per i Beni e le Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma), nella prefazione del loro libro “Dopo il 16 ottobre. Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni 1943-1944”, a proposito della partecipazione degli italiani alle persecuzioni razziste scrivono: «il ruolo della Questura di Roma presenta non poche ambiguità; al di là della inquietante figura di Pietro Caruso, la collaborazione con i tedeschi ci fu e fu un fenomeno di grave compromissione con i crimini nazisti». Pubblichiamo alcuni documenti che certificano le responsabilità della Questura durante l’occupazione nazista.
DIPLOMATIC PAPERS
GLI ITALIANI E LA RAZZA
Le corrispondenze dell’Ambasciatore Usa in Italia
Il diplomatico William Phillips, dal 4 novembre 1936 al 6 ottobre 1941 ricoprì la carica di Ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Italia. Pubblichiamo due lettere inviate da Roma all’allora Segretario di Stato Cordell Hull sotto la presidenza Roosevelt. Le lettere sono conservate negli archivi dell’Office of Historian* nella sezione “Persecution of Jews in Italy”.
865.4016/31: Telegram
L’Ambasciatore in Italia (Phillips) al Segretario di Stato
Roma, 15 luglio 1938-18.00 – [Ricevuto il 15 luglio alle 14.35].
Tutti i giornali italiani ieri sera e oggi danno risalto a un rapporto preparato da studenti universitari italiani sotto gli auspici del Ministero della Cultura Popolare che espone l’atteggiamento fascista nei confronti del problema della razza. Le loro 10 conclusioni, la cui importanza non viene trascurata dalla stampa, possono essere riassunte come segue: (1) Esistono diverse razze umane; (2) Esiste una differenza tra le razze grandi e quelle minori; (3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico; (4) La popolazione italiana è di origine ariana e la sua civiltà è ariana; (5) La composizione razziale dell’Italia non è cambiata negli ultimi mille anni; (6) Esiste una razza italiana pura; (7) È tempo che l’Italia si pronunci a favore di una politica “razzista”; (8) Bisogna distinguere tra le razze mediterranee europee (occidentali) da un lato e gli orientali e gli africani dall’altro; (9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana; (10) Le caratteristiche fisiche e psicologiche europee della razza italiana non devono essere alterate in alcun modo.
Si può notare che questo rappresenta il primo pronunciamento ufficiale o semiufficiale su una questione razziale e può essere considerato un possibile punto di partenza di diritto positivo.
Phillips
865.4016/37: Telegram
L’Ambasciatore in Italia (Phillips) al Segretario di Stato
Roma, 29 luglio 1938, pomeriggio – [Ricevuta il 29 luglio alle 9.15].
Nella conversazione che ho avuto ieri con Ciano egli ha ammesso che c’è stato un cambiamento nell’atteggiamento del Governo nei confronti degli ebrei dall’ultima volta che abbiamo discusso l’argomento, vedi il mio dispaccio n. 450 del 25 giugno 1937. Egli ha detto che il Governo ha deciso di prendere misure per preservare la purezza della civiltà italiana in tutto l’Impero. Il cambiamento traeva origine dalla necessità di tenere separate le razze italiana e nera in Etiopia, al fine di evitare la mescolanza di razze che aveva avuto risultati così negativi nelle colonie portoghesi e francesi. Si tratta, disse, di un cambiamento della visione dell’impero, che include anche la razza ebraica, che si era peraltro sempre considerata essa stessa separata. Osservai che mi sembrava curioso che ora fosse necessario discriminare una piccola popolazione che aveva vissuto qui per più di 2.000 anni senza aumentare di molto il proprio numero. Ciano rispose che mentre gli ebrei italiani erano solo 40-50 mila, ora c’era un’infiltrazione illegale e clandestina di ebrei dalla Romania, dall’Austria e da altre parti d’Europa che il governo italiano non poteva impedire con i mezzi ordinari. Egli ha affermato che se non si fosse posto rimedio a questa situazione, l’Italia si ritroverebbe entro 5 anni ad ospitare almeno mezzo milione di ebrei stranieri. Di conseguenza, il Governo italiano è deciso a scoraggiare questa immigrazione facendo capire agli ebrei che l’Italia non li vuole. In risposta alla mia domanda su quali misure il Governo italiano avesse in mente di adottare nei confronti degli ebrei già presenti in Italia, Ciano disse che non ci sarebbe stata alcuna “persecuzione”. A questi ebrei doveva essere permesso di risiedere pacificamente in Italia e le loro proprietà sarebbero state rispettate. Tuttavia, d’ora in poi non avrebbero potuto avere alcuna “influenza politica o sociale” nella vita italiana, e con questo intendeva dire che non sarebbe stata permessa la circolazione di giornali ebraici, non sarebbe stata stampata letteratura ebraica e sarebbero stati proibiti i teatri ebraici. Chiesi a Ciano di non dimenticare che l’infelice sentimento in America contro la Germania era in gran parte il risultato delle persecuzioni tedesche ed espressi con forza la speranza che qui non si facesse nulla per dare l’impressione che gli ebrei italiani fossero in realtà perseguitati. Ciano sottolineò ancora una volta che il cambiamento razziale in atto era “un movimento dell’impero” e non era diretto specificamente contro gli ebrei, ma era volto a preservare la purezza della razza italiana.
Phillips
(*) L’Office of Historian si avvale di storici professionisti esperti nella storia della politica estera degli Stati Uniti e del Dipartimento di Stato, che possiedono un’esperienza di ricerca senza pari nei documenti governativi classificati e non classificati. Gli storici dell’Office lavorano a stretto contatto con altri uffici storici del governo federale, con la comunità storica accademica e con specialisti di tutto il mondo. L’Office è diretto dallo Storico del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ed è responsabile, per legge, della preparazione e della pubblicazione della storia documentale ufficiale della politica estera degli Stati Uniti nella sezione Foreign Relations of the United States. Inoltre prepara studi storici di supporto alle politiche dei principali dipartimenti e altre agenzie. Questi studi forniscono informazioni di base essenziali, valutano come e perché le politiche si sono evolute, identificano i precedenti e traggono insegnamenti. I funzionari del Dipartimento si affidano alla memoria istituzionale, alla saggezza collettiva e all’esperienza personale per prendere decisioni; un’analisi storica rigorosa può affinare, focalizzare e informare le loro scelte. La Foreign Relations of the United States (FRUS) rappresenta la documentazione storica ufficiale delle principali decisioni di politica estera degli Stati Uniti. Iniziata nel 1861, comprende oggi più di 480 volumi singoli che contengono documenti provenienti dalle biblioteche presidenziali, dai Departments of State and Defense, National Security Council, Central Intelligence Agency, Agency for International Development e da altre agenzie per gli affari esteri, nonché documenti privati di persone coinvolte nell’attuazione della politica estera degli Stati Uniti.
SEGNALAZIONI
Libro: Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, di Renzo De Felice, Einaudi, Torino, 1961.
Libro: Il libro della memoria, di Liliana Picciotti Fargion, Mursia, Milano 1991.
Libro: Il Processo Caruso, di Zara Algardi, Darsena, Roma, 1944.
Film: L’oro di Roma. Diretto da Carlo Lizzani, con Irag Anvar, Gérard Blain, Paola Borboni, Andrea Checchi, Anna Maria Ferrero. Italia, Francia, 1961.
Luogo: Mausoleo Fosse Ardeatine. È situato presso le cave in cui il 24 marzo 1944 si compì l’eccidio di 335 uomini per rappresaglia contro l’attacco di via Rasella. Indirizzo: Via Ardeatina, 174 – Roma. Telefono: +39 06 5136742