Yehuda Yifrach – Makòr Rishòn 3.4.2020
La critica che colpisce la società charedì non è senza fondamento, ma gli attacchi tradiscono una mancanza di comprensione del suo timore nell’obbedire allo stato e della sua vita isolata dai mass media generali.
Rabbì Ya’akòv Halevì ben Moshè Moelin (1350-1427), il Maharìl, è stato il leader spirituale dell’ebraismo ashkenazita ai tempi della peste nera. I suoi testi sono stati accettati per generazioni come la fonte principale per le usanze ashkenazite, pur essendo stati scritti in un periodo terribile della storia degli ebrei di quel territorio. L’epidemia della peste – che fu definita la “morte nera” o la “pestilenza nera” a causa delle macchie nere sui corpi delle vittime – raggiunse il picco negli anni 1347-1351. Era scoppiata in Cina prima della globalizzazione, e si era diffusa nel mondo nel giro di qualche anno grazie a merci e viaggiatori. L’isteria del pubblico e la ricerca di un capro espiatorio si concentrarono, come previsto, sugli ebrei. Questi vennero accusati di avvelenare i pozzi, vennero massacrati in massa e molti di loro scapparono dall’europa occidentale verso quella orientale, dove venivano loro assicurati almeno i diritti fondamentali.
Il Maharìl fu testimone di pogrom terribili che erano scoppiati come conseguenza dell’accusa fatta agli ebrei di essere i responsabili dell’epidemia e una gran parte delle risposte nei “Responsa halakhici del Maharìl” vennero dedicate a quesiti halakhici che venivano posti in conseguenza delle stragi: lo status degli orfani, vedove e mogli “agunòt”, il lavaggio rituale dei corpi degli assassinati, i diritti legali nei casi di successione delle famiglie delle vittime e altro. In uno dei responsa (il Maharìl) si dimostra facilitante riguardo il consumo di carne scannata con coltelli non controllati da esperti, con la giustificazione che una delle conseguenze delle persecuzioni era che queste figure erano diventate più rare, e non sempre si trovava a chi chiedere. Respinge l’opinione più rigorosa con una spiegazione dolorosa: “Chi scrive è vissuto prima delle persecuzioni e come è noto esistevano persone brillanti nel paese, mentre adesso, in questa generazione orfana, non abbiamo che persone che non sanno distinguere la destra dalla sinistra”.
È vietato fare paragoni, giusto. Mi viene la febbre solo a pensare a chi “riconosce dei processi (storici)” come Yair Golan (che ha sostenuto di vedere in Israele situazioni simili a quelle della Germania degli anni ‘30 NdT). E tuttavia ho la sensazione che dopo il fallimento della campagna “Basta che non sia Bibi” e il dissolvimento del partito Blu-Bianco, si stia delineando qui uno sforzo per incanalare la veemenza dell’odio e l’energia negativa verso gli “ebrei”, d’ora in poi il settore charedì. La settimana scorsa abbiamo visto un manifesto dei medici per le dimissioni del ministro della salute Litzman (charedì NdT), l’attenzione ossessiva verso gruppuscoli marginali charedì che si sono raggruppati in minian (quorum rituale per la preghiera NdT) contrariamente agli avvertimenti ed un numero infinito di altre espressioni di odio anti-charedì sui social.
Conduttori televisivi che vivono con 1,7 figli e cane in una villa, appartamenti a due piani o attici, si scagliano contro famiglie con 9 figli compressi in quadrilocali senza balcone in ambienti urbani ad alta densità abitativa come Jebalia (campo profughi palestinese NdT). Persone che non capiscono che fretta ci sia a sposarsi se basta solo “andare ad abitare da lei”, si riempiono di rabbia e ira verso coppie che si fanno bastare anche una catapecchia in rovina a Yerushalayim. Drogati di media collegati online per ogni notifica push e aggiornamento hanno difficoltà a capire una popolazione senza wifi che ottiene le sue informazioni dalle omelie dei rabbini, linee di neias (notizie in yiddish NdT) e macchine con gli altoparlanti per le strade.
È vero, la situazione è complessa. Le critiche che il settore charedì sta subendo non sono del tutto infondate. I giorni dell’epidemia rivelano infinite mancanze strutturali nel comportamento di questo pubblico, e il problema “inizia dalla testa”. Non poteva esistere dimostrazione migliore del video che mostrava rav Chayim Kaniewsky che firma un secondo pronunciamento halakhico, nel quale annulla la decisione precedente di mantenere attive le aule di studio e le accademie rabbiniche. Stiamo parlando di un ebreo quasi sordo di 92 anni, e questa visione spezza il cuore. Sul suo leggio sono state poste quattro domande chiuse, elaborate con precisione per ottenere un risultato specifico, e le risposte potevano essere solo: “Sì, no, permesso, vietato”. Il rispettabile rabbino vive totalmente isolato dalla vita reale, che dipende dalle informazioni selettive che provengono da portaborse con interessi ramificati e complessi, e i suoi pronunciamenti di Halakhà, capaci di influenzare, direttamente o indirettamente, centinaia di migliaia di persone – sono totalmente privi di uno straccio di motivazione. Possiamo solo provare a immaginare che cosa potrebbe succedere se la Corte suprema pubblicasse un verdetto del genere.
Ma la critica non può escludere la solidarietà. E la solidarietà richiede tolleranza, qualità assente da ampi settori del dibattito pubblico israeliano. Tolleranza significa rispetto dell’identità dell’altro, anche se non sono d’accordo con lui, e disponibilità a uscire dal mio pianeta per provare a capirlo con una visita al suo pianeta. Capirlo da dentro – senza fantasie o speranze che lui sparisca.
Per la maggioranza della popolazione generale l’osservanza delle indicazioni del ministero della salute sono importanti non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello del rafforzamento della sua identità come popolazione che rispetta la legge. Questa identità gli sta molto a cuore perché la civiltà viene riconosciuta come superiore all’anarchia e agli uomini primitivi. I charedìm al contrario sono i “guardiani delle mura” e della legge divina. Questa è un’identità fondamentale che precede ogni altra identità, addirittura quella genitoriale – e per questo, in situazioni estreme, famiglie charedì possono prendersela col figlio che esce verso le “cattive abitudini”. E sicuramente questa identità precede le regole del ministero della salute.
Al contrario della popolazione generale, che a volte è perfino contenta di farsi mettere alla prova dalle restrizioni e ricordarsi così del muscolo atrofizzato chiamato “superamento delle difficoltà” , la vita dei charedìm è già oberata da leggi e obblighi che provengono dall’alto, e non rimane quasi spazio per le leggi umane. Loro non devono provare a sé stessi che sono capaci di resistere alle restrizioni.
Non è possibile isolare la coscienza charedì dal pesante vissuto storico che si porta dietro. La memoria ebraica europea è piena di pogrom, crociate ed epidemie. Generazioni di comunità hanno osservato con attenzione e a ogni costo precetti e usanze, anche quando questo comportava il suicidio, come nella Comunità di Francoforte sul Meno, durante i tumulti della peste nera.
Quando si presenta una disgrazia, l’istinto charedì urla: “Va’ e raduna tutti gli ebrei” (Libro di Ester NdT) nelle aule di studio e nelle sinagoghe. Esattamente il contrario di quello che viene a loro richiesto oggi. Questo etos ha forgiato un ebraismo superiore alla natura, capace di vincere la natura. Per questo anche il problema dell’immersione rituale mensile che ha investito il sionismo religioso, ha preoccupato molto meno i charedìm. Si fa e basta. È questa l’abnegazione di rabbì Akivà, che recita “Quando mai mi capiterà più l’osservanza di questo precetto (del sacrificio della vita NdT) per poterlo osservare”. Come i combattenti delle unità di elite che corrono incontro al fuoco avversario dopo infinite esercitazioni.
Il dialogo con lo Stato è per loro complesso. Concetti come “pericolo collettivo di vita” e un senso dello Stato capace di conferire peso alle decisioni critiche dei funzionari dello stato sono adatti alla visione sionista-religiosa. I charedìm temono invece l’obbedienza cieca all’autorità statale. Se oggi intrattengono un dialogo col ministero della salute, domani dovranno farlo col ministero della difesa che gli parlerà di arruolamento. Le istruzioni del ministero della salute negli Usa e le notizie da Brooklin sono molto più convincenti delle indicazioni che provengono da qui. E anche se la “Opinione della Torà” si può sottomettere ad esperti esterni, dove viene tracciato il confine? E che cosa ne rimarrà del precetto di “Ascoltare la voce dei Maestri”?
Dopo tutto questo saltano fuori oggi i primi segni di autocritica e di riflessione. Sempre più charedìm oggi capiscono che l’invalidità volontaria che si è inflitta la comunità charedì in interi settori della vita umana comporta prezzi molto pesanti. La pista di atterraggio dell’astronave immaginaria che risponde al nome di “società degli studiosi (di Torà Ndt)” è complessa e spinosa come nessun’altra. Solo i charedìm possono tracciarla e indirizzare quindi le loro comunità verso comportamenti di vita più bilanciati e integrati.
Quello di cui avrebbero bisogno da parte della società israeliana è solidarietà e riconoscimento culturale. Come abbiamo visto in altri campi, come servizio militare e impiego, quando il messaggio che loro ricevono è composto per lo più da odio, paura e polizia, i normali meccanismi di difesa e di chiusura a riccio si attivano con forza e provocano solo l’innalzamento di muri.
Traduzione di D. Piazza