Riflessioni sull’incontro fra Yosef e Yaakov e il digiuno del 10 di Tevet (dalla derashà tenuta al Tempio Italiano di Gerusalemme, Shabbat Wayiggash 5774)
Nel Sefer Bereshit si descrive l’incontro fra Yosef e Yaakov, dopo 22 anni di separazione, in questi termini: “Giuseppe attaccò la carrozza e si recò incontro a suo padre Israele in Gòshen, e appena gli si presentò, gli si gettò al collo e sul suo collo pianse a lungo” (cap. 46:29; trad. di Rav A.S. Toaff). Questo verso, apparentemente semplice, nasconde diverse domande: Chi si getta al collo di chi? Chi piange? Che vuol dire la parola ‘od? (nella traduzione qui riportata è stata resa con “a lungo”, ma normalmente è tradotta con “ancora, di nuovo”). E soprattutto, perché solo uno dei due piange? Se guardiamo l’incontro fra Yosef e Binyamin, di poco precedente (cap. 45:14), vediamo che entrambi si gettano l’uno sul collo dell’altro e piangono. Lo stesso accade quando si incontrano Yaakov ed Esaw (cap. 33:4). Il fatto che qui pianga solo uno dei due solleva quindi una legittima domanda. Come è facile immaginarsi, quando un verso è ambiguo, ci sono diverse interpretazioni.
Rambàn (Rabbi Moshè ben Nachman) spiega che chi piange è Yaakov: è tipico infatti delle persone anziane e dei genitori commuoversi alla vista dei figli. La parola ‘od vuole qui indicare che Yaakov pianse “ancora”, ossia “di nuovo”, come aveva già fatto in passato (vedi cap. 37:34-35).
Rashì interpreta il versetto in modo opposto: fu Yosef a piangere. E ‘od qui vuol dire “molto, a lungo”. Ma perché Yaakov non pianse incontrando il figlio prediletto e ritenuto perduto fino a quel momento? Rashì dà una spiegazione sorprendente, basandosi sul Midrash Aggadà: Yaakov non pianse perché era intento a recitare lo Shema’ Israel. È noto che quando si recita lo Shema’ (e in particolare il primo versetto), si deve avere la massima concentrazione (kawwanà): non solo non si può parlare, ma neanche fare alcun cenno.
È interessante notare che nella parashà successiva, Wayichì, quando i figli si avvicinarono a Yaakov sul letto di morte (cap. 49:1-2), il midrash dice che essi recitarono il primo verso dello Shema’. In quel caso le parole “Ascolta Israele” vanno intese come “Ascolta (nostro padre) Israele [il nome aggiuntivo che Yaakov ricevette dopo la lotta con l’angelo (vedi Bereshit 32:29 e 35:9)]. Il midrash continua dicendo che, alle parole dei figli, Yaakov avrebbe risposto “Barukh Shem Kevod Malkhutò le’olam wa’ed”, da cui l’uso di aggiungere sottovoce questa frase, che non fa parte dello Shema’, nella recitazione quotidiana (vedi Bereshit Rabbà 98:3 e Ba’al Haturim ad loc.).
Ma torniamo all’incontro fra Yosef e Yaakov: perché Yaakov recitava lo Shema’? Una risposta ce la fornisce Rav Benny Lau, nel suo libro Etnachtà, che raccoglie gli articoli sulle parashot della settimana apparsi su Haaretz. Rav Lau parte dal racconto della morte di Rabbi Akivà, quando fu catturato dai Romani e messo a morte perché insegnava la Torà pubblicamente. Così racconta il Talmud (Berakhot 61b):
“Quando condussero a morte Rabbì Akivà, era il momento di recitare lo Shema’. Gli squartarono la carne con pettini d ferro, ma egli accettò su di sé il giogo del Regno celeste. Gli dissero gli allievi: Nostro maestro, fino a tal punto? Rispose loro: Per tutti i giorni della mia vita mi sono dispiaciuto di non poter adempiere quanto è scritto ‘(e amerai il Signore tuo D-o) con tutta la tua anima’. Mi dicevo: Quando potrò compiere questo precetto? Ora che mi capita l’opportunità, non lo metterò in pratica? E prolungò la parola Echad fino a che la sua anima si dipartì. Uscì una voce celeste che disse: Beato Rabbì Akivà, perché la tua anima è uscita con la parola Echad”.
Rabbi Akivà recitò lo Shema’ non perché era in punto di morte (in effetti questa è la regola), o non solo per questo motivo. Rabbi Akivà recitò lo Shema’ perché era arrivato il momento di farlo, ossia erano appena spuntate le stelle (o sorta l’alba). E lo stesso vale per Yaakov. Non poteva piangere quando Yosef lo abbracciò perché era impegnato nell’osservare la mitzwà della lettura dello Shema’, che va recitato “quando ci si corica e quando ci si alza”, ossia al tempo della sera e della mattina. I commentatori di Rashì si dilungano a spiegare perché Yosef, in quel momento, non recitasse anche lui lo Shema’: una risposta è che Yosef era occupato nell’onorare il padre, e “chi è impegnato in una mitzwà è esente dal dover adempierne un’altra” (asuk be-mitzwà, patur mi-mitzwà; vedi Siftè Chakhamim e vedi anche il Targum di Yonatan ben Uzziel e il Perush Yonatan). Il punto è che lasciarsi andare ai sentimenti, alla commozione, era in quel momento secondario per Yaakov: più importante era l’osservanza della mitzwà.
Questo venerdì è il digiuno del 10 di Tevet, il giorno che ricorda la sciagura nazionale che colpì il popolo ebraico 2500 anni fa, con l’assedio di Yerushalaim, e che è stato designato dalla Rabbanut Harashit di Israele come il giorno del “Kaddish generale”, in memoria dei sei milioni di ebrei morti nella Shoà. In particolare, si dice il Kaddish per coloro la cui data di morte non è stata accertata (in molti casi, ossia per tutti quelli che furono assassinati all’arrivo nei campi con il gas, la data può essere verosimilmente trovata).
La leggenda racconta che i deportati condotti alle camere a gas recitavano lo Shema’ e cantavano l’Anì Maamin, il canto dalla struggente musica in cui si afferma la fiducia nella venuta del Mashiach. Non so se ci siano reali testimonianze di questo fatto, in particolare sul canto. È difficile crederlo. Nella maggior parte dei casi, gli ebrei che furono fatti salire a forza nei camion e poi nei treni piombati e poi condotti alle “docce”, pensavano di essere portati in campi di lavoro e in bagni di disinfestazione. Il racconto ha comunque il suo valore per la commozione che ci fa provare, e anche i sentimenti sono importanti per la trasmissione della memoria. Ci sono invece numerose testimonianze, reali, sul fatto che molti ebrei deportati, non assassinati all’arrivo ma rinchiusi nei campi di concentramento, continuarono a osservare alcune mitzwot, per quello che era possibile. Ad esempio accesero le candele di Chanukkà, anche se solo con uno stoppino e senza chanukkiot o candele. Alcuni riuscivano a mettersi i tefillin, nascosti in qualche modo, e a farli mettere ad altri. Per portare un esempio dalla nostra comunità, ci sono testimonianze sul fatto che Rav Nathan Cassuto (Hy”d) faceva il Kiddush di Shabbat con un pezzo di pane secco e che a Pesach riuscì, con un po’ di farina, a fare delle matzot (così è riportato nei pannelli del Memoriale al Binario 21 della Stazione centrale di Milano, e mi è stato confermato dal figlio, David Cassuto, che ha sentito queste testimonianze da persone che conobbero suo padre nei campi).
Che gli ebrei che entravano nelle camere a gas o già al loro interno, ormai consapevoli di quanto stava accadendo, recitassero lo Shema’ è possibile e forse probabile. Che lo recitassero nei campi di concentramento, almeno quelli fra loro un po’ osservanti, è sicuro. Recitare una preghiera sottovoce è qualcosa che neanche i nazisti (y”sh) avrebbero potuto impedire.
Chissà, forse Primo Levi, ponendo all’inizio di Se questo è un uomo la poesia Shemà, con alcune frasi riprese letteralmente da questo brano della Torà, fu influenzato dall’aver visto quegli ebrei, discendenti di Yaakov nosto padre e allievi di Rabbì Akivà nostro maestro, recitare mattina e sera, camminando per strada e stando nelle baracche, quelle parole che fin da bambini abbiamo imparate.