Giorgio Israel
Nel suo ultimo libro ripropone la ‘teoria della sostituzione’, affermando la fine storica dell’ebraismo
Dovrebbe essere evidente che un ebreo può essere di sinistra o di destra. Dovrebbe essere altrettanto evidente che l’ebraismo e il popolo ebraico non sono né di destra né di sinistra. Eppure si riaffaccia la tendenza, nel seno dell’ebraismo italiano, a stabilire che i cromosomi o il Dna degli ebrei e dell’ebraismo sarebbero di sinistra.
È forse per questo impulso a schierarsi politicamente, per giunta su basi genetiche, che si affaccia anche la propensione a valutare i cattolici e il dialogo ebraico-cristiano secondo che l’interlocutore sia ritenuto e (magari superficialmente) classificato di destra o di sinistra. Colpisce al riguardo l’occhiuta diffidenza con cui alcuni ambienti guardano all’attuale pontefice (comunemente considerato “di destra”), levando subito alti lai al minimo accenno di qualche mossa che possa sembrare discutibile, e addirittura gridando alla crisi del dialogo ebraico-cristiano, mentre non si è ancora udita una parola in merito alle tesi del recente libro del Cardinale Carlo Maria Martini (emblema del progressismo cattolico), Le tenebre e la luce, di cui La Repubblica ha anticipato, senza commenti, i passi più sensibili per l’ebraismo.
Dovrebbe essere superfluo ricordare che la “Nostra Aetate” si limitava a dire degli ebrei che sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Giovanni Paolo II fece un deciso passo avanti affermando che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». L’attuale Papa Benedetto XVI è andato ancora più in là asserendo che «i doni di Dio sono irrevocabili». Non sembra che sia stata sufficientemente valutata l’importanza storica di una simile affermazione che mette in soffitta la “teologia della sostituzione”, ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita al popolo cristiano ed alla Chiesa. Il recente libro del Papa (Gesù di Nazaret) prosegue su tale via, perseguendo l’obbiettivo indicato nel discorso alla Sinagoga di Colonia, ovvero di «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze». Il libro ha come uno dei nodi centrali il confronto con il libro del rabbino Jacob Neusner, A Rabbi talks with Jesus. In un dialogo profondo e rispettoso si adducono argomenti in sostegno della tesi cristiana proprio attraverso l’analisi del discorso con cui Neusner sostiene l’inaccettabilità per un ebreo delle tesi del Discorso della montagna. Senza entrare nel merito, quel che conta è che l’analisi assume come dato che l’ebraismo non è un orpello del passato, morto e senza funzione, e che la via di un cristiano verso la propria fede non può che partire dal dialogo con un ebraismo vivo.
Guardiamo invece a come il Cardinale Martini affronta il tema del processo a Gesù. Martini sostiene che il Vangelo di Giovanni presenta questo processo come una “farsa” e una “caricatura” al fine di mettere in luce «il crollo di un’istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove. Sarebbe stato questo l’atto giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce proprio lo scopo fondamentale». Dare per scontato proprio quel che non lo è – e cioè che il Sinedrio fosse un’istituzione che «era sorta in vista» di questa «occasione provvidenziale» e che l’avrebbe persa – permette a Martini, con un salto logico sconcertante, di dedurre la fine storica dell’ebraismo. Non si tratta soltanto della «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». Si tratta della decadenza dell’intera tradizione ebraica che, in quanto non più “autentica”, va quindi radicalmente superata: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche». E quale sia l’esito di questo superamento è quasi superfluo dirlo: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza».
A questo punto, Martini sottolinea quale sia la sua concezione del dialogo interreligioso: non considerare le religioni come «monoliti immutabili», bensì «fermentarci e vivificarci a vicenda» partendo dall’assunto che anche le tradizioni possono decadere. Pertanto, al di là di un dialogo spesso formale «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso». E queste parole sono quelle espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Come se ancora non fosse chiaro. Non mi sono mai scandalizzato che alcune religioni e religiosi vogliano convertire gli altri alla propria fede. È legittimo proporre il valore del proprio percorso. Purché non lo si faccia con la violenza, che non è soltanto quella fisica, ma anche quella consistente nell’affermare il disvalore del percorso religioso altrui. Nel caso dei rapporti ebraico-cristiani – resi delicati da un passato tanto dolente – affermare questo disvalore significa né più né meno sostenere che il dono di Dio è stato revocato. Pertanto, il cardinale Martini ha riproposto – e in termini molto brutali, insistendo su aggettivi spiacevoli – la teologia della sostituzione, facendo un passo persino indietro alla “Nostra Aetate”. Chi voglia dialogare con lui (e con chi la pensa come lui) sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione “radicale” alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai “degradato”, “decaduto” e “non autentico” dell’ebraismo.
È probabile che una simile tesi sia frutto della volontà del Cardinale Martini di contrapporsi punto per punto alle tesi del Papa; e quindi che la sua sia una replica proprio all’impostazione del libro Gesù di Nazaret. È comunque assai deprimente che questa contrapposizione si giochi sulla pelle degli ebrei e del dialogo ebraico-cristiano cui Martini, pur di fare il controcanto a Benedetto XVI, assesta un colpo brutale. Non si può non notare che si sono sollevate polemiche a non finire, spesso capziose, sulla reintroduzione della Messa in latino e sulla formula di auspicio di conversione degli ebrei – non della formula concernenti i “perfidi giudei” che è definitivamente abolita – che potrebbe essere letta il venerdì santo, e che comunque apparteneva alla versione dovuta al Papa “progressista” Giovanni XXIII, contro cui nessuno direbbe una parola. Sorvoliamo su altre polemiche ancor più capziose. È strano che nessuno si sia ancora levato a sottolineare la gravità di queste affermazioni del Cardinale Martini che, oltre a riesumare un linguaggio che si sperava definitivamente abbandonato proprio sul tema delicato del “processo a Gesù” – cerca di riesumare quella “teologia della sostituzione” che è la pietra tombale di ogni possibile dialogo ebraico-cristiano. Staremo a vedere. È da augurarsi che nessuno pensi di usare due pesi e due misure per ragioni di Dna.
Da Shalom
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