Nel corso della Seconda guerra mondiale, il giovanissimo Edmond riesce a fuggire da un campo di sterminio e a raggiungere alcuni partigiani ebrei che tentano di resistere all’esercito tedesco nascondendosi nella foresta ucraina. Il loro scopo non è solo quello di sopravvivere, ma è anche, e soprattutto, quello di salvare il proprio popolo e raggiungere “la vetta”, il luogo geografico e spirituale della loro realizzazione. E’ il nuovo romanzo di Aharon Appelfeld in uscita per Guanda. Ne anticipiamo alcune pagine.
Aharon Appelfeld
“I prossimi giorni saranno critici. L’Armata Rossa sta arrivando da noi. La questione è “se riusciremo a resistere un mese” Kamil non usa la parola “sacrificio”. Alcune volte l’ha respinta con forza: “Noi non cerchiamo la morte ma la vita” I suoi genitori erano stati fra i primi a essere portati via dal ghetto. Non ne parla al passato, dice: “Mamma è puntigliosa … ”
Stanotte usciremo per un’incursione. Le provviste si stanno esaurendo. Ora siamo centosettantatré anime. Se non ci procuriamo subito dei viveri gli scampati moriranno di fame. Hermann Cohen ha portato in cucina semola e farina in dosi razionate. Da quando gli scampati sono arrivati da noi, e da quando ha visto la figlia di sua sorella, non è più quello di prima. Fuma una sigaretta dopo l’altra. Una o due volte al giorno entra nella tenda in cui giace sua nipote e la guarda. Quell’uomo così solido, che ne ha viste di tutti i colori ed era un fantastico consigliere su questioni logistiche, ora sembra crollato. Kamil gli ha detto abbracciandolo: “Abbiamo fatto un lungo tratto di strada e ne faremo ancora. I prossimi giorni saranno critici. L’Armata Rossa sta arrivando da noi. La questione è se riusciremo a resistere un mese. Senza di te, e lo dico assumendomene la piena responsabilità, non ce la faremo”. Hermann Cohen non ha reagito neanche a questo complimento. Si è coperto il volto con le mani.
Prima che partissimo per l’incursione Kamil ci ha detto così: “Quest’oggi, miei cari, il nostro destino è nelle vostre mani. Il nostro campo, che grazie a Dio è cresciuto incommensurabilmente, è ferito e dolorante, e se non la nutriremo questa gente morirà. La base ha bisogno di provviste. Di tende e bidoni da usare come stufe. Dobbiamo salvare i corpi tormentati affinché le anime possano farvi ritorno. Una volta eravamo pochi, ma oggi, grazie a Dio, siamo molti. Voi siete i messi di una buona azione, fedeli al Signore su questa terra”.
Quando parla Kamil non ci si sente più soli al mondo, ma circondati di amici fedeli, e cresce il desiderio di fare di più . Kamil non usa la parola “sacrificio”. Alcune volte l’ha respinta con forza: “Noi non cerchiamo la morte ma la vita. La nostra comunità è un insieme meraviglioso”.
Kamil non ha rivendicazioni verso il Signore che non fa regnare la giustizia nel mondo, ma verso gli uomini che non sono degni della qualifica di esseri umani.
“I pensieri, anche quelli sublimi, non servono, bisogna concentrarsi sull’azione” dice Felix. Questo rigore, che in lui è naturale, per me è difficile. Da quando gli scampati sono arrivati da noi una parte della mia essenza è sparita. E a loro non mi sono ancora avvicinato.
Durante il giorno sono responsabile della bollitura dell’acqua e aiuto Salo, Maxi e Karl a lavare i corpi smunti degli scampati. Bisogna ammettere che si prova ribrezzo per quegli scheletri umani. Sembrano spettri spaventosi. Le mani si sforzano di fare il loro dovere, ma il cuore, come a farlo apposta, si rifiuta di immedesimarsi. Da loro emanano disperazione e morte e dentro di sé uno non trova la forza di dire che sono fratelli e sorelle e che bisogna gioire di loro.
La figura gigantesca di Danzig strappa quegli scampati all’angoscia, che levano gli occhi verso di lui come fosse un dio salvatore. Ma il più efficace per la loro resurrezione è, incredibile a dirsi, Victor, che non ha ribrezzo dell’urina e delle feci e ci insegna che cos’è l’amore per il prossimo.
Victor si sente vicino a quei sofferenti e fa di tutto per alleviare il loro dolore. Ha subito un grande cambiamento. Il contadino ucraino che è in lui trapela ancora e può darsi che in un campo di mais non ci sia alcuna differenza fra lui e i suoi compagni di tribù , ma qui, fra noi, alcuni suoi gesti fanno venire in mente un monaco che ha annullato il suo egoismo ed è dedito all’umanità, qualunque essa sia.
Kamil ogni tanto gli chiede del suo villaggio e dei paesi intorno, e di quell’ucraino e della sua compagna ammazzati, mentre la figlia è stata portata via. Victor cerca di ricordarsi, ma non gli viene in mente niente di più di quello che ha già raccontato.
Una volta sentii Kamil che gemeva:
“Pavel, Pavel, dove sei sparito?” Rividi subito Pavel, alto e agile, un combattente dai gesti precisi e pieni di un’eleganza discreta.
Facciamo un’incursione al giorno e portiamo alla base provviste, utensili, vestiti, tessuti e pelli di pecora. Nel bottino finiscono a volte una camicia da città o oggetti usati solo dagli ebrei. Durante un’incursione abbiamo trovato un paio di candelieri con sopra inciso “Sabato santo”.
Per svariate ragioni non è possibile fare un’incursione in una casa dove siamo già stati. Ci spingiamo dunque sino alle dimore isolate sul costone del monte, o a quelle nascoste nei pendii.
Kamil aveva in programma di scendere ogni settimana in pianura e far deragliare i treni che portano gli ebrei ai campi. Al momento non possiamo farlo. Continuiamo con le pattuglie e gli agguati. Si annida in noi l’oscuro presentimento che d’ora in poi ci occuperemo solo di saccheggi e ruberie e i contadini alla fin fine si alleeranno, si metteranno con i tedeschi e ci stringeranno d’assedio. La loro ostilità non è da meno di quella dei tedeschi e hanno armi in abbondanza.
Il mio amico Emil si è ripreso, si regge in piedi e va al gabinetto, ma ha ancora lo sguardo fiacco e stordito. Non chiede dei miei genitori, ma mi ha raccontato dei suoi, ciechi, che passavano il tempo a intrecciare ceste e a tessere tappeti e faticavano a tirare avanti. Emil li aiutava sin da quando era bambino. Dopo la maggiorità religiosa, quando aveva cominciato a dare lezioni private, la povertà era stata scongiurata.
I suoi genitori erano stati fra i primi a essere portati via dal ghetto. Quando Emil parla dei suoi genitori si capisce che è legato a loro con tutte le fibre dell’anima. Non ne parla al passato, dice:
“Mamma è puntigliosa. Ogni tappeto che esce dalle sue mani è perfetto, senza il minimo difetto. Papà ama parlare mentre tesse. Perciò sbaglia e il prezzo della sua merce è molto inferiore”.
Sin da quando era bambino osserva i genitori e qualcosa della loro cecità ha attecchito in lui. Persino adesso.
Che strano, sia noi sia quelli che sono arrivati da poco non parliamo molto delle famiglie che abbiamo lasciato. Siamo indaffarati con le incombenze quotidiane, ascoltiamo la radio, ma non ci illudiamo che presto la vita tornerà a essere quella di prima.
Nel frattempo le tende si sono piuttosto affollate. Salo e Maxi non hanno abbastanza medicine per alleviare il dolore di chi soffre. Il medico prigioniero brontola e accusa i suoi carcerieri di averlo portato via da casa e allontanato dai suoi pazienti. Felix lo ha minacciato più volte che se continua così lo uccideranno anche senza processo in tribunale.
“Non m’importa, non ho paura” dice lui senza guardare Felix negli occhi. Si fatica a capire una tale sfrontatezza, a meno di pensare che per lui occuparsi di ebrei sia una cosa umiliante. Meglio morire piuttosto che essere prigioniero degli ebrei e dover curare i loro malati.
Secondo Victor non bisogna disperare. A quindici chilometri di distanza c’è una farmacia, che fra l’altro apparteneva a un ebreo. E’ ancora aperta e bisogna correre ad assalirla, guai a indugiare. Kamil ha aperto la mappa e indicato il punto preciso.
L’ufficiale tedesco continua ad avere la febbre. Non abbiamo medicine ma gli abbiamo aggiunto una coperta. Urla tutta la notte, continua a giurare che è stato fedele alla patria e al suo comandante, insulta la fidanzata mettendo in dubbio la sua fedeltà. Chiede ai genitori di darle una lezione. A quelle allucinazioni si aggiungono anche altre vicende, di donne e di onore. Tutto fra grida e ordini.
Io sono sempre stanco. Dormo in piedi, camminando a ogni occasione. Il mio sonno non è tranquillo, ma per fortuna le visioni se ne vanno quando apro gli occhi. Ieri ho visto chiaramente Anastasia, che è rimasta in me, solo che il suo corpo slanciato era coperto di una pelliccia marrone.
Volevo avvicinarmi e accarezzarla, ma capivo subito che mi avrebbe morso. In effetti si girava scoprendo i denti pieni e belli. “Anastasia” chiamavo, “non mi riconosci?” Lei mi rivolgeva uno sguardo animalesco. Non sapevo se fosse una minaccia o una offerta di intimità. Le domandavo di nuovo: “Non mi riconosci?” All’udire nuovamente la mia domanda lei sorrideva. No, mi sbagliavo. Mi fissava di nuovo con uno sguardo colmo di risentimento, come a dire: “Che ci fai qui? Tutti i segnali dicevano che te n’eri andato e non saresti tornato”.
Al mio risveglio mi ricordavo benissimo il sogno. Avevo l’impressione che le truppe fossero uscite per un’azione e che io, siccome dormivo, me ne fossi scordato. Ormai non li avrei più raggiunti. Sono andato in cucina e ho visto che i combattenti erano distesi sul giaciglio di ramoscelli, a bere tè e a fumare, e mi sono sentito sollevato.
Penuria di provviste. Malgrado le poche informazioni raccolte sulla misteriosa farmacia si era deciso di assaltarla. Kamil era tutto infervorato, e dopo aver pronunciato la parola d’ordine “Medico dei malati” ci rammentò che le nostre missioni notturne servivano a salvare vite, nel vero senso della parola. “Al momento non siamo in grado di scendere in pianura a far deragliare i treni. Ma se riusciamo a prendere delle medicine, faremo del bene ai dolenti”. Nevicava e il gelo faceva bruciare il viso. La limpida voce di Kamil riecheggiò nelle nostre orecchie ancora per un bel tratto di strada. Eravamo nel campo visivo della nostra pattuglia, che ci accompagnava, e se per caso fossimo caduti in un’imboscata ci avrebbe soccorso.
Non potevamo fare a meno di ripeterci, e sempre con un senso di colpa, che era più facile partire per un’operazione con Felix che con Kamil. Il suo silenzio, il suo passo regolare, le sue giuste direttive: con Felix al comando si aveva la certezza che l’operazione sarebbe andata esattamente come previsto, che saremmo tornati alla base senza esaltazione né entusiasmi soverchi, ma felici di quel che avevamo fatto.
Il tragitto fu più breve di quanto non immaginassimo. Ci fermammo a circa duecento metri da un edificio buio di modeste dimensioni che recava sulla facciata un’insegna con la scritta “Farmacia”. Il nome del proprietario era stato cancellato, ma con un certo sforzo si riusciva ancora a leggere “Aharon Samuelevitch”. Tutt’intorno regnava la quiete delle case circondate dalla neve alta.
Un attimo prima dell’attacco pare di saltare dentro dell’acqua scura. Il corpo trema, ma le mani si riempiono di energia e in un istante superano la paura.
Forzammo la porta sul retro senza fare alcun rumore. Penetrammo nell’oscurità e subito cominciammo a riempire i sacchi che avevamo portato con noi. Lo facemmo con metodo, uno scaffale dopo l’altro. Metà del plotone era rimasto fuori a fare la guardia. Dopo una mezz’oretta tutte le medicine erano ormai distribuite dentro sette sacchi. Uscimmo chiudendo la porta.
Felix era felice. Ma lui, diversamente da Kamil, non fa mostra della propria soddisfazione. I sacchi erano pieni, ma non pesanti. Emanavano odore di medicinali.
Quando mamma era a letto malata, papà correva da un medico all’altro, da una farmacia all’altra, e se riusciva a comprare una medicina correva a casa a perdifiato.
Mancava il denaro. All’inizio papà aveva venduto il suo orologio d’oro, poi i gioielli di mamma. Ai medici non importava, loro esigevano tutta la parcella. E anche i farmacisti non facevano sconti. Eravamo sempre stati una famiglia benestante e in un batter d’occhio eravamo finiti in rovina. Le mani di papà tremavano sul tavolo.
Io non avevo partecipato a quel dolore. Ero tutto preso della mia strana felicità e mi rifiutavo di condividere la disperata battaglia dei miei genitori.
Ora vidi improvvisamente mio padre come non l’avevo mai visto: seduto a tavola, la mano premuta contro la bocca, tutt’a un tratto alza la testa, mi guarda e domanda senza parole: “Edmond, che male ti abbiamo fatto che ti sei allontanato da noi? Non ti chiediamo di aiutarci, la tua felicità ci è assai preziosa. Ma se ti volti per un attimo e chiedi come sta mamma, fai una gran buona azione. E’ molto malata, sta per essere operata, una buona parola le darà forza”.
Sento lo sguardo di papà in tutte le parti del mio corpo, ma non ho la forza di fare quello che mi chiede. Lo sfuggo e corro fuori per incontrare Anastasia, che mi conquista subito con i suoi occhioni. Solo in seguito, sotto l’albero con le fronde curve sino a terra, vedo nitidamente lo sguardo di papà e la passione ardente che c’è in me si spegne, e mi prende freddo alle dita dei piedi.
Anche Isidore mi ha detto che ora non è più sicuro di aver fatto bene a scappare abbandonando i suoi genitori. La dizione di Isidore è talmente precisa da far male. Le sue preghiere provocano negli altri una grande emozione, ma evidentemente non fanno effetto su di lui. Mi ha già detto: “Le preghiere non sono mie ma di mio nonno”. Io non volevo subissarlo di domande. Uno potrebbe ferire anche con una domanda prudente.
Qualche tempo fa un combattente ha alzato la voce, sembrava un grido spezzato, perché qualcuno gli aveva fatto una domanda inopportuna.
Persino Karl, robusto e taciturno com’è, ha sgridato uno che ingenuamente gli aveva chiesto quanto tempo era stato nel ghetto. Ormai sappiamo che è meglio tacere. [. . .]
Intanto in cielo si sentono dei forti tuoni. Dapprima sembravano annunciare una tempesta di neve, ma alcuni veterani della Prima guerra mondiale hanno capito subito che si tratta di cannonate.
Con il passare delle ore abbiamo avuto la certezza che è proprio l’artiglieria che risuona all’orizzonte. Kamil resta indifferente a quei segni inequivocabili. Ripete che l’attacco è imminente e che bisogna prepararsi. Felix è d’accordo con lui.
Non c’è logica, ripetono i suoi detrattori. L’Armata Rossa avanza all’attacco, l’esercito tedesco è troppo impegnato a ritirarsi per pensare che voglia continuare a far fuori gli ebrei.
“Ti sbagli, mio caro” dice Kamil rivolgendosi a un veterano, “per Hitler uccidere gli ebrei è un atto di fede. Ha giurato di annientarci. E’ vero che questo contraddice la logica militare, ma che possiamo farci se la guerra contro gli ebrei proviene dalle profondità della loro tenebra, se le sue motivazioni sono incomprensibili?”
Kamil migliora in eloquenza via via che aumentano i suoi oppositori. Come ho detto, è bravo nella guerra dei pochi contro molti, e anche quando si tratta di guerra delle idee, la sua retorica è ineccepibile.
E’ chiaro come il sole che l’Armata Rossa li ha colpiti e si sta avvicinando. Felix ha fatto un calcolo: sono a circa trecento chilometri da noi. Questi conti non riducono la vigilanza: alcune squadre si esercitano e altre pattugliano. Anche le incursioni vanno avanti quotidianamente. E Victor continua a ripetere: “L’uccisione degli ebrei per loro è in cima alla lista. Il loro odio non conosce freni, guai a cercare una logica nelle loro azioni”.
La neve è già alta un metro. Scendere e salire dalla vetta è una fatica improba. Persino i combattenti tornano sfiniti da ogni incursione. Ma che possiamo farci? Le incursioni sono necessarie. Dobbiamo nutrire decine di persone.
Nel frattempo io ho avuto un permesso notturno e sono caduto all’istante in un sonno profondo. Nel sogno stavo andando a casa. Il timore e l’emozione mi rallentavano il passo. Notavo subito che nel sobborgo era tutto come prima. I due pioppi davanti a casa erano lì. Le foglie argentate che amavo guardare e di cui mi piaceva ascoltare il fruscio erano cadute mentre ero lontano. Dai comignoli delle case dei vicini ucraini usciva il fumo. Conoscevo bene quella pace. Al mio ritorno da scuola mi fermavo ad assaporarla. Noi eravamo diversi dagli altri vicini, nel nostro cortile non c’erano vacche o polli. Il nostro cortile aveva un tappeto erboso e delle aiuole di fiori. Nel pomeriggio ci sedevamo in veranda o in cortile. Era un’ora di grazia, tranquilla, le luci che calavano dalle acacie si confondevano nell’ombra.
Mi fermavo davanti a casa. Il cancello del cortile era chiuso ma non a chiave. Lo aprivo e non proseguivo oltre: il prato era grigio ai bordi, le acacie erano spoglie, la cuccia di Niki vuota, segno che lui se ne stava in salotto. Sentivo che mi aspettava una grande sorpresa, ma non sapevo di che genere.
Molti mesi erano passati da quando avevamo frettolosamente abbandonato casa. Temevo di entrare e chissà perché indugiavo. In cortile, comunque, non era cambiato nulla. Chissà se Nadia stava badando alla casa … Era probabile di sì. Era molto devota a mamma. Durante la sua malattia le dava da mangiare, e diversamente da altre domestiche era rimasta a servizio anche quando era stato proibito di lavorare per gli ebrei.
Mi avvicinavo e bussavo. Nessun rumore, nessuna risposta. Bussavo di nuovo e senza rendermene conto aprivo la porta. L’ingresso era come sempre. Sull’attaccapanni erano appesi i cappotti di papà, di mamma e anche il mio berretto accanto a quello di papà: segno che la casa non era stata abbandonata e forse papà e mamma erano tornati e stavano riposando.
Avanzavo con prudenza. In salotto, comunque, qualcosa era cambiato. Invece dei disegni del famoso pittore Rosenberg c’erano appese tre icone. Questa sorpresa chissà perché non mi spaventava. Le altre cose invece erano al loro posto, anche il grammofono. In camera dei miei genitori era appesa un’icona ma il letto, il copriletto e i cuscini erano al loro posto. In camera mia non c’erano icone, tutto era al suo posto, la cartella ai piedi della scrivania.
“Mamma” chiamavo, e la voce si fermava un secondo prima di spezzarsi. Tornavo in salotto e mi sedevo sulla mia amata poltrona. E’ tutto a posto, mi ripetevo. Ma dentro di me sapevo che il silenzio non era quello che avevamo lasciato noi.
La verità saltava subito fuori: sulla soglia che collegava il salotto alla cucina c’era Nadia. Mi sembrava più giovane e indossava il grembiule di mamma.
“Nadia” mi sfuggiva di bocca. “Chi sei?” domandava facendo un passo indietro. “Edmond” dicevo sottovoce. “Non mi riconosci?” Strizzava gli occhi, mi guardava, si avvicinava e fissandomi alla fine diceva: “Sei tu, e tuttavia non sei tu”. “Non sono altri che Edmond” dicevo stupito di quelle mie parole. “Avevano detto che gli ebrei non sarebbero mai più tornati” diceva Nadia con la sua solita voce. “Chi l’ha detto?” “Tutti”. “E tu ci hai creduto?” dicevo alzandomi in piedi. “Sinora non è tornato neanche un ebreo”.
“E non mi permetteresti di entrare in casa?”
“No” diceva in tono piatto, “adesso è casa mia. Ho lavorato qui per più di vent’anni e sono l’erede legale. Il comune ha riconosciuto i miei diritti”.
“E io?”
“Tu appartieni a un altro posto, il tuo posto qui è sparito. Voglio ricordarti una cosa: durante il periodo del ghetto eri preso da Anastasia. Non hai trovato neanche un quarto d’ora per stare accanto a tua madre malata e condividere le sue sofferenze”.
“Anche ai miei genitori non permetterai di entrare?” “Come fai a sapere che torneranno?” “Lo suppongo”. “Tu comunque non hai alcun diritto qui. Un figlio che si è estraniato dalla madre malata non ha diritto a ereditarne la casa. E’ ovvio. Come se non bastasse, tutti i beni degli ebrei appartengono ora al comune. Consiglio a te e ai tuoi genitori, se torneranno, di non insistere. Il destino è questo: c’è chi vive e chi muore”.
“Io sono vivo” dicevo puntando il fucile.
“Non spararmi” diceva Nadia con una voce roca e stridente che mi ha svegliato.
(Il Foglio, 14 gennaio 2017 – trad. Elena Loewenthal)