A differenza delle chiese ma luoghi di preghiera pubblica e di studio indispensabili alla vita della comunità
Anna Foa
In occasione della giornata europea della cultura ebraica, che si terrà domenica 5 settembre, le sinagoghe di tutte le comunità italiane saranno aperte al pubblico. In quest’occasione, sarà anche riaperta, dopo essere stata chiusa per restauri, la sinagoga ottocentesca di Sabbioneta, dipendente dalla comunità di Mantova. Le sinagoghe sono numerosissime sul territorio italiano: sinagoghe normalmente usate nel culto; sinagoghe di comunità quasi scomparse, di fatto trasformate in musei; antiche sinagoghe riportate alla luce. E dato che la giornata di quest’anno è dedicata ai rapporti tra l’ebraismo e l’arte, vorremmo fermare la nostra attenzione non solo sulle sinagoghe e sulla loro storia, ma anche sull’architettura sinagogale. La sinagoga non è, per l’ebraismo, uno spazio sacro, e questa è forse la più grande delle differenze esistenti tra una sinagoga e una chiesa. Essa è un luogo di preghiera pubblica e di studio, e nel passato anche un luogo di riunione comunitaria.
È il luogo della tradizione, il luogo primario della vita di una comunità, ma è anche il frutto della storia e dei rapporti con l’esterno. Anche in Italia, paese in cui gli ebrei hanno avuto una storia intensa ma una presenza numericamente limitata, non esiste un solo modello di architettura sinagogale e le sinagoghe che vi si trovano appartengono a periodi diversi e a stili diversi, che riflettono anche diversità di rituale e di derivazione geografica: dalla sinagoga calabrese di Bova Marina, del iv-v secolo, molto simile alle antiche sinagoghe palestinesi, a quelle dei ghetti, molto diversificate e con influenze spagnole e tedesche, a quelle tanto simili a cattedrali dell’età dell’Emancipazione.
La differenza maggiore è tra le sinagoghe bifocali, cioè con due centri, uno la tevah, il pulpito cioè da cui si legge il testo sacro, l’altro l’hekal con l’aron, cioè l’armadio dove sono custoditi i rotoli della Bibbia, tipicamente italiane anche se simili a quelle spagnole, e quelle monofocali in cui latevah si colloca al centro, di probabile derivazione ashkenazita (tedesca).
Si tratta di differenze interne all’ebraismo, che derivano da rituali diversi e dalle diverse origini delle comunità che le hanno costruite. Più sensibile l’influsso del mondo non ebraico sulla struttura esterna degli edifici. In generale, a partire dal v secolo, cioè dalle leggi dell’impero romano-cristiano, gli edifici sinagogali non dovettero apparire troppo visibili, mentre una serie di divieti ostacolava la costruzione di nuove sinagoghe e il restauro di quelle esistenti. Alla fine del vi secolo, quando soprattutto nell’Oriente bizantino molte sinagoghe venivano distrutte o trasformate in chiese, Papa Gregorio Magno ne salvaguardò il diritto all’esistenza in Occidente, a meno che non fossero già state consacrate a chiese. Ma in quel caso, bisognava rimborsare agli ebrei il prezzo dell’edificio e restituir loro gli arredi sacri. Il che non impedì che più tardi molte siano state le sinagoghe trasformate con la forza in chiese, nell’Italia meridionale sotto gli Angioini, o in Spagna, alla fine del xiv secolo. Più tardi, nel XVI secolo, la Chiesa vietò la presenza, in ogni ghetto, di più di una sinagoga. Nel ghetto di Roma cinque sinagoghe di diverso rito furono così accorpate in un unico edificio, le Cinque Scole.
Un elemento accomuna, almeno a partire dall’età dei ghetti, l’architettura sinagogale, qualunque ne fosse lo stile, ed è quello di non essere opera di architetti ebrei: le norme giuridiche proibivano infatti agli ebrei, insieme agli altri divieti, anche l’esercizio dell’arte dell’architettura. Erano sovente architetti tra i più noti ed esperti, e i committenti, cioè le comunità, seguivano attentamente la realizzazione dei progetti, per adeguarli alle esigenze del culto.
Anche dopo l’ottenimento dell’uguaglianza, le conseguenze del divieto di esercitare l’arte dell’architettura si fecero sentire a lungo, tanto è vero che non era ebreo nessuno degli architetti che progettarono, alla fine del xix secolo, le sinagoghe dell’emancipazione, quelle cioè di Firenze, Roma, Torino, per nominare solo le più importanti. Fatto che rende ancora più emozionante leggere in un’iscrizione posta in una sinagoga di Trani, poi divenuta chiesa, che essa era stata costruita nell’anno 5007 (1247) “opera di un piacevole intenditore appartenente a questa congregazione”.
Dopo l’Emancipazione, le sinagoghe acquistarono la visibilità negata loro per secoli. I ghetti furono demoliti, e con loro molte sinagoghe. A Roma, nella demolizione del ghetto attuata a fine Ottocento, anche l’edificio delle Cinque Scole, già danneggiato da un incendio, fu demolito e il nuovo Tempio, alto e solenne, ideato dagli architetti Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, anch’essi non ebrei, si inaugurò solennemente nel 1904 alla presenza delle autorità dello Stato italiano, a indicare simbolicamente la raggiunta uguaglianza.
L’Osservatore Romano – 31 agosto 2010