I giovani delle colline. Finalmente un reportage senza pregiudizi sui giovani coloni che rischiano la vita per continuare il sogno sionista. Si può dissentire, ma meritano rispetto.
Giulio Meotti
“Siamo tornati a casa”, proclama il cartello all’ingresso di Givat Assaf, un avamposto israeliano che prende il nome da un colono ebreo ucciso dai palestinesi. Il leader della comunità, Benny Gal, spiega così la loro presenza: “In questo punto preciso, 3.800 anni fa, la terra d’Israele fu promessa al popolo ebraico. Se ci portano via di qui, in pericolo sarà l’aeroporto internazionale Ben Gurion”.
Givat Assaf è uno dei capisaldi della “Hilltop Youth”, la gioventù delle colline, la seconda generazione di coloni che sta organizzando la resistenza all’evacuazione degli insediamenti giudicati illegali, i cosiddetti “outpost”, al centro delle trattative fra il primo ministro israeliano Netanyahu e l’amministrazione Obama.
Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all’inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli arabi. Le regole del processo di pace non sembrano scalfirli. I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli via a forza quando da Gerusalemme arriva l’ordine di evacuazione. Chi resta, vive palmo a palmo con la morte. Lo scorso aprile uno di questi giovani è stato ucciso a colpi di ascia. In caso di conflitto non conta la legge dello Stato, ma quella del Signore. È come la frontiera americana dell’epopea western.
Guai a pensare che sia un fenomeno di estrema destra, categoria priva di senso in Israele. Con Ariel Sharon primo ministro sono nati 44 avamposti. Altri 39, secondo i dati di Peace Now, furono edificati sotto Rabin, Peres e Barak, i protagonisti dei negoziati di Oslo. Gli esecutivi laburisti non hanno fatto quasi nulla per impedire che gli avamposti si moltiplicassero. Israele non li considera enclave ribelli, almeno a giudicare dalle cospicue forze di sicurezza messe a loro protezione. Alcuni hanno strade pavimentate, fermate degli autobus, sinagoghe, perfino campi sportivi. Si va dal semplice container piazzato in cima a una collina o qualche fila di baracche, sino a veri e propri insediamenti realizzati con prefabbricati tipo post terremoto. Per la preghiera del sabato serve un minyam, il quorum necessario di dieci uomini. Basta questo per fare un outpost. Così si trovano dieci famiglie di peruviani convertiti all’ebraismo in un avamposto appena fuori l’insediamento di Efrat, tra Betlemme e Hebron.
David Ha’ivri, originario di Long Island, è uno dei leader della gioventù delle colline e vive con moglie e figli a Kfar Tapuach. Il villaggio è celebre per il miele che vi si produce, ma soprattutto per essere citato nella Bibbia, nel capitolo 12 del libro di Giosuè. È una delle trenta città conquistate dagli ebrei al loro arrivo migliaia di anni fa. Oggi è uno degli insediamenti di punta della Cisgiordania, che i coloni chiamano con i nomi biblici di Giudea e Samaria. Della “Hilltop Youth” fanno parte giovani nati e cresciuti nelle colonie, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno nei grandi conglomerati per andare ad annidarsi in cima alle colline. Pregano in sinagoghe spesso fatte di terracotta. Si costruiscono la casa con le proprie mani, sono single o appena sposati, da pochissimo genitori. Si ritengono la nuova avanguardia dei coloni. Il loro motto è: “Costruiamo e il permesso arriverà”. Vivono a un tiro di schioppo dagli arabi. Si muovono a cavallo o con un asino. È una nuova generazione imbevuta di un nazionalismo mistico che si coniuga al pionierismo e all’ascetismo, rigetta il consumismo delle grandi città sulla costa e vive di ideologia e ardore. Le donne indossano il mitpahat, l’equivalente ebraico, meno avvolgente e più delicato, del chador islamico. Gli uomini hanno capigliature al vento, lunghi riccioli laterali e camicie a quadri.
“Sono giovani che incarnano l’ideologia della Torah e l’autosacrificio”, ci spiega Ha’ivri. “La salvezza di Israele e del popolo ebraico non può venire da politicanti che pensano che la battaglia per la terra sia un gioco tattico. Dieci anni fa abbiamo iniziato a creare avamposti. Sono giovanissime coppie che hanno deciso di essere pionieri come i genitori, credono nel sionismo, sono idealisti, pronti a lasciare ogni esistenza confortevole nelle grandi città o nelle grandi colonie. Vogliono essere autosufficienti, con tutti i limiti che questo comporta”.
Shani Simkovitz dirige la Gush Etzion Foundation. È americana e ha cinque figli. “Questa è terra contesa, da patteggiare, non terra occupata”, spiega. “Più di tremila anni fa i nostri padri ci hanno dato una terra, che non è Roma, non è New York, ma questa: la terra ebraica. Ci hanno mandato qui a costruire, a coltivare, a vivere, ci hanno sostenuto sempre, soprattutto Rabin, Peres e gli altri laburisti. Fino a oggi. I miei figli sono nati qui, ma non c’è più terra legale su cui costruire, il governo da tempo non concede più permessi per una casa, per questo nascono gli outpost. Gli avamposti sono estensioni delle comunità esistenti. Ma lo stesso avviene a Gerusalemme, dove migliaia di israeliani abitano al di là della Linea Verde”.
Un altro leader delle colline vive in un agglomerato di roulotte abbarbicate sul monte Artis, chiamato Pisgat Yaakov, che significa la collina di Giacobbe. Un luogo isolato d’inverno, tanto lì nevica. Tra queste trenta famiglie c’è Yishai Fleischer, il fondatore di Kumah, un’organizzazione che promuove alyah, cioè immigrazione di ebrei in Israele, e conduce un programma radiofonico di grande successo. “Abbiamo una vita idilliaca e naturalistica, è una regione bellissima, in mezzo alle montagne”, ci dice Yishai. “I nostri padri hanno camminato qui tremila anni fa, siamo un po’ come i nuovi hippy. Lavoriamo la terra. C’è molta musica, religione, è una vita felice. Preghiamo, meditiamo, conduciamo un’esistenza spirituale. Siamo il popolo aborigeno. Ero a New York, da studente credevo nel sionismo e decisi che questo era il posto dove avrei dovuto vivere. Abbiamo quello che ci serve. Ci sentiamo pionieri, siamo dei veri sionisti. Molti miei amici sono religiosissimi e lavorano nel settore high tech. I nostri figli crescono con valori autentici”. È una vita, ammette Yishai, molto pericolosa. “Giro armato, odio le pistole, non significa che debba usarle, ma devo proteggere la mia famiglia. Il nostro villaggio è citato più volte nella Bibbia, per questo attrae molte persone. Lei vive a Roma, una città sacra per il suo popolo, il mio è nato e cresciuto in Israele. Qui senti di essere parte della terra e del cielo. Siamo cresciuti sapendo che il prossimo passo sarebbe stato il nostro”.
Yishai sa bene che i coloni non sono amati dagli israeliani che vivono sulla costa. “Siamo isolati nell’opinione pubblica, ma lavoriamo ogni giorno per migliorare. Oggi il nazionalismo non è “cool”, non è politicamente corretto. Non mi aspetto di conquistare i cuori delle persone che non vivono qui. È semplice: questa è la nostra terra. Secondo le norme internazionali, secondo la Bibbia, secondo la storia. Viviamo in tempi eccitanti in cui il popolo ebraico torna a casa. Quando ci svegliamo la mattina non pensiamo alla pace, ma a condurre una vita felice, dignitosa e piena di amore. Dobbiamo essere vigili, ci sono persone qui che vogliono ucciderci in quanto ebrei. Hanno la stessa ideologia dei nazisti. Gli europei non si sono interessati alla sorte degli ebrei sessant’anni fa, e allora stiano lontani da noi oggi. Sappiamo perché siamo qui, abbiamo una missione che portiamo avanti tutti i giorni. Il nostro posto è qui”.
David Ha’ivri descrive così i giovani delle colline: “Molti sono contadini o pastori, ci sono studenti, tutti pionieri che vivono in zone desertiche, vuote, senza abitanti, non ci sono palestinesi cui venga sottratto alcunché, i coloni piantano alberi, coltivano la terra, portano acqua, cibo, elettricità. Nei grandi insediamenti la sicurezza è ben organizzata, ma in queste comunità di poche famiglie il peso della sicurezza è enorme. La seconda generazione è molto più attaccata alla terra della prima, sono nati qui, il loro sangue viene da qui. Sono persino più religiosi dei padri”.
Molti di questi avamposti sono stati creati negli anni proprio lì dove i palestinesi avevano ammazzato un colono. Come Itay Zar, che oggi vive in un outpost intitolato al fratello ucciso. Venti famiglie, una dozzina di scatole di metallo, quaranta bambini e un maneggio per cavalli. “Non siamo venuti qui per divertirci. C’era il deserto, oggi la terra fiorisce”. Il leader spirituale dell’outpost, Ariel Lipo, dice che il loro compito è costruire “piccoli paradisi”.
Maoz Esther, sette baracche di lamiera e cinque famiglie, non lontano da Ramallah, è il primo avamposto preso di mira da Netanyahu da quando è salito al potere. È già stato rimosso tre volte. E per tre volte ricostruito. L’ultima pochi giorni fa. Il leader della comunità, Avraham Sandack, è arrivato su questa altura direttamente da una delle colonie smantellate a Gaza da Ariel Sharon. Studia per diventare rabbino e intanto fa le pulizie in una sinagoga. “Il nostro spirito è lo stesso dei nostri padri”, ci dice Avraham. “Due anni fa era la festa di Hanukkah, siamo partiti da un insediamento vicino e abbiamo costruito una casa di pietra. Una mamma con tre figlie piccole si è trasferita da sola per due mesi sulla collina. Non avevano elettricità né acqua. Ma sapevano di appartenere alla terra d’Israele. Nella Bibbia si parla di questa terra per la profezia del regno di Dio. Ci dà forza per andare avanti. Ieri abbiamo iniziato a ricostruire quello che l’esercito ha distrutto. Qui riusciamo a essere equi con la nostra anima. Qui c’è qualcosa di metafisico. Dio non è in cielo o da qualche parte. Dio è parte di noi, è in tutta la nostra vita”.
Il Foglio