Joelle Sara Habib
Lo spiega rav Gad Eldad che ha svolto il servizio militare in un’unità speciale dell’esercito israeliano “Il militare ha un ruolo fondamentale nella cultura israeliana. Averlo fatto significa non solo aver contribuito alla difesa dello Stato, ma anche conoscere la realtà e la società israeliana, che, molto diversa da quella romana, molto frammentata, vede differenti gruppi condurre ognuno la propria vita, in diversi quartieri, diverse scuole”, dichiara rav Gad Eldad, che nell’esercito ha servito nei combattenti, passando gran parte del tempo al confine. “I laici non hanno tante possibilità di incontrare religiosi e viceversa, e i rapporti, laddove ci sono, sono prettamente lavorativi. Il vivere tutti insieme durante la zavà, affrontare insieme missioni e difficoltà, costituisce un’esperienza molto forte, funziona come strumento per far conoscere tutti i gruppi tra loro e farli interagire”.
“Certo, non sono infrequenti i problemi”, ammette. “Spesso i non-osservanti non conoscono i criteri, non riescono a capire il confine tra ciò che è permesso o meno secondo l’halachà, possono crearsi malintesi e incomprensioni, ma più va avanti il tempo, più si forma il gruppo e si risolve” dice, ricordando le difficoltà nello spiegare ai compagni come di Shabbat fosse permesso rispondere al walkie talkie solo in determinate circostanze, ma anche menzionando l’emozionante Shabbat prima di un’importante missione: quasi tutto il reggimento si recò a pregare, e lui e gli altri ragazzi di yeshivà si occuparono di rendere l’atmosfera più accogliente per quelli che di solito non frequentavano.
Che in Israele le relazioni tra l’esercito e la parte religiosa della popolazione non siano delle più rosee non è certo un mistero tuttavia, guardando più nel dettaglio, ci si accorge di come la situazione sia molto più particolareggiata di ciò che ci si aspetta. Si arruolano regolarmente gli appartenenti alla corrente Datì Leumì (‘religiosi sionisti’) ed i cosiddetti ‘Chardalim’ (Haredì Leumì), senza dimenticare che la scelta è innanzitutto frutto delle convinzioni del singolo individuo. “Così si rischia che ognuno faccia come gli pare, i pensieri personali devono essere messi da parte”, puntualizza però Eldad, portando a modello una sua conversazione con un commilitone ateo che, definendo il suo Dio la sua coscienza, a cui si dichiarava comunque pronto ad andare contro per il bene dello Stato, esprimeva il suo disappunto verso i credenti che non attuavano lo stesso parallelo.
“La religione non dovrebbe, in linea di massima, costituire un ostacolo per eseguire le missioni necessarie”, ci informa infatti il Rav. Tuttavia, sebbene secondo la legge tutto il mondo militare deve attenersi ad alcune regole per rispettare le esigenze dei religiosi (come ad esempio fornire solo cibo kasher), a volte essere osservanti può rivelarsi difficoltoso. “Nelle basi centrali solitamente la kasherut è rispettata” spiega, “ma in una piccola base formata da 10 persone nessuno viene a controllare, tutto dipende dalle specifiche persone e dai rapporti interni. Non ci si può lamentare se le stoviglie di latte e carne vengono mischiate, e a volte ci si può trovare a non poter mangiare cibi cucinati, anche per due settimane”.
Molto però è cambiato negli ultimi anni, e grandi passi sono stati fatti per permettere agli ortodossi di servire in luoghi “più simili al loro ambiente”, favorevoli alle loro convinzioni religiose, dove “tutti i lori bisogni sono accontentati”. Ad esempio, è stato fondato nel 1999 il battaglione Netzah Yehuda גדוד נצח יהודה (noto anche come Nahal Haredi נחל החרדי ), parte della Brigata Kfir che opera all’interno di un quadro strettamente osservante dell’halachà, dove i più alti standard alimentari vengono garantiti, seguendo il motto del battaglione tratto da Devarim 23:15 “Vehaya Machanecha Kadosh”, “E sarà il tuo accampamento [militare] santo”. Il battaglione, uno dei pochi formati su base volontaria e non di leva e quindi dipendente da un meccanismo di reclutamento, funziona come ogni unità di combattimento nella Zavà e l’addestramento è quello di fanteria: cinque mesi di training di base, seguiti da altri sei di formazione avanzata. Avviato dopo circa 18 mesi di discussioni tra un gruppo di educatori haredì guidati dal rabbino Yitzhak Bar Chaim e l’IDF, il battaglione era costituito in origine solo 30 soldati.
Nel 2009 crebbe a oltre 1.000 soldati, raggiungendo lo status di pienamente funzionante e comprende, ad oggi, due compagnie complete in addestramento: una in procinto di cominciare il servizio attivo, e due unità da combattimento: Palchod (ricognizione/Prima Compagnia) e Mesaiat (Rifleman Company). Inoltre, una terza unità, Mivtzayit, è stata creata nell’ottobre del 2009, per rispondere al gran numero di soldati delle più recenti leve. Area di azione principale del battaglione è Jenin, e regolarmente i soldati escono in missioni nella West Bank registrando un alto tasso di successo. Analogo progetto è l’unità informatica volontaria completamente haredì creata all’interno delle forze aeree israeliane, che, insieme al Netzah Yehuda, è spesso visto come modello per l’eventuale inserimento massiccio qualora le leggi relative all’esenzione dall’arruolamento divenissero più stringenti.
“Si tratta di proposte interessanti”, spiega rav Eldad, che trova positivo l’aver “coinvolto gli haredim creando un’alternativa, aprendo un’opzione, una breccia, piuttosto che con un atto di forza”. Dopotutto, sottolinea, anche loro “ne sentono l’esigenza, soprattutto per quanto riguarda l’ambito lavorativo”.
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