Riccardo Di Segni
I testi: Torà e Talmud
Ilana Bahbout, Dario Gentili, Tamara Tagliacozzo, eds., Il messianismo ebraico (Firenze: Giuntina, 2009), 9-16
Questo libro affronta le molteplici facce di una grande questione a proposito della quale mi è stata affidata una sorta di introduzione alle fonti bibliche e rabbiniche. In questo contesto posso dare solo qualche informazione. Soltanto parlare del messianismo nella Bibbia impegnerebbe un intero corso annuale; si racconta che al Collegio Rabbinico il Professor Umberto Cassuto dedicò un corso monografico completo a una sola frase messianica della Genesi, quella che dice «finché verrà Shiloh».[1]
Per iniziare, bisogna spiegare cosa significa la parola Messia. Messianismo è un termine «tecnico» e le profezie messianiche nella Bibbia molto spesso non usano questa parola; successivamente, nella storia ebraica e nella storia di altre fedi, il messianismo diventa un concetto generale che si riferisce alla liberazione finale. Tuttavia, c’è anche un messianismo politico riferito nel linguaggio comune a ideali e progetti politici, come quelli per esempio del socialismo. Il termine ha origine in un contesto meramente rituale e bisogna seguire l’ordine del racconto biblico, che dal punto di vista della fede ebraica va preso come è, e come tale rispettato in linea di massima; ma secondo la critica biblica l’ordine del racconto non è quello cronologico della scrittura. C’è l’episodio di Giacobbe che fugge dalla sua terra;[2] lungo la strada si ferma a dormire, prende delle pietre per giaciglio, ha il sogno della scala,[3] al risveglio considera il posto dove sta come sacro, prende la pietra che gli è servita per dormire, la erige come stele e ci versa sopra dell’olio.[4] Il versare l’olio è un atto rituale che qui incontriamo per la prima volta, ma che si ripeterà nella Bibbia molte altre volte. Ungersi con l’olio era il procedimento che si seguiva per profumarsi, sia con il solo olio d’oliva, che usando l’olio d’oliva come veicolo di profumi.
Oggi, nei profumi abbiamo come veicolo e solvente principale l’alcool etilico; nell’antichità e fino a due o tre secoli fa, l’ingrediente principale del profumo era l’olio, per cui «ungersi» nel linguaggio comune significava anche «profumarsi». Dunque, c’era un uso profano dell’olio, per farsi belli, e c’era un uso rituale dell’olio, che veniva impiegato – oli speciali in composizioni particolari – per dare sacralità agli oggetti e alle persone, per trasformarli da profani in sacri. L’esempio che troviamo per la prima volta nella Bibbia con Giacobbe è il primo caso di trasformazione di un oggetto dalla profanità alla sacralità; troveremo questo gesto sistematizzato nell’inaugurazione del santuario in Esodo,[5] quando gli oggetti che vengono adibiti all’uso sacro vengono anch’essi cosparsi, unti con l’olio. Questo non riguarda solo gli oggetti, ma anche le persone, che quando sono designate, nominate, incaricate di particolari funzioni sono unte con l’olio. Queste persone appartengono nella Bibbia essenzialmente a tre categorie. La prima è quella dei sacerdoti. I sacerdoti presso gli ebrei sono i membri della famiglia di Aronne,[6] fratello di Mosè; il sacerdozio è ereditario: chi è figlio di sacerdote a sua volta è sacerdote, se il sacerdote padre si è unito con una donna a lui consentita. Pertanto, se la trasmissione di una funzione è ereditaria, non c’è bisogno di rinnovare l’unzione di padre in figlio; se invece la nomina a una carica non è ereditaria, in questo caso bisogna procedere a una nuova unzione. Una carica speciale del sacerdozio è quella di Gran Sacerdote, che deve essere nominato per questa funzione: nasce sacerdote, ma deve essere «unto». Con questa stessa cerimonia sono designati i re d’Israele. Nel caso di un cambio di dinastia, bisogna ungere con un olio speciale il nuovo re. Anche i profeti vengono destinati a una funzione speciale. Abbiamo, quindi, tre categorie: i sacerdoti, i re, i profeti, che sono tutti chiamati nella Bibbia mashìach. L’atto dell’ungere è il verbo mashach e colui che viene unto è mashìach, che per traslato può significare sacerdote e re, e talvolta anche profeta. Dunque, Mashìach diventa nel corso dell’evoluzione linguistica sinonimo di queste categorie e, a un certo punto, indicare particolari. Qualsiasi re, anche non ebreo, può essere chiamato mashìach e difatti, nel Deutero Isaia (la seconda parte di Isaia, che si pensa non sia stata scritta da Isaia ma da un autore successivo, vissuto ai tempi del ritorno dall’esilio babilonese), il re persiano Ciro (Koresh) è chiamato mashìach: «così dice il Signore al suo unto»,[7] come se Dio l’avesse nominato. Pertanto, mashìach non è necessariamente un re d’Israele, ma anche un re al di fuori dell’ambito di Israele. Parlare di mashìach nella Bibbia significa riferirsi genericamente a varie categorie che sono state incaricate di funzioni speciali. Questo per quanto riguarda lo sviluppo tecnico del nome.
Diversa è la storia dell’idea, perché l’idea messianica rappresenta la speranza di tempi migliori rispetto a tante questioni; è un contenitore molto ampio in cui convergono cose differenti, anche molto differenti. In situazioni di crisi e di sofferenza emergono speranze di tempi migliori. Le situazioni di crisi e di sofferenza sono tante e ognuna ha il suo quadro di soluzioni e di speranze particolari. Il prototipo della sofferenza da cui si esce è quello della schiavitù egiziana,[8] pertanto tutto il vocabolario di redenzione ebraica nasce là, con i famosi quattro termini che indicano la liberazione e la redenzione.[9] Quando si parla di redenzione-liberazione nell’ebraismo il concetto è prima di tutto politico-sociale; per capire questi concetti, chi proviene da un ambiente, da un’educazione, da una cultura cristiana si deve per un momento spogliare di tutte le immagini della sua cultura perché queste sono uno sviluppo molto particolare e speciale di un’idea che nell’ebraismo originariamente è non solo differente, ma molto più articolata; quindi, quando si parla di redenzione, di salvezza, ciò ha un significato prima di tutto politico-sociale, il cui prototipo è quello della schiavitù egiziana.
Un problema che assume poi una connotazione messianica è quello della sottomissione del popolo ebraico a potenze straniere. Nel momento in cui gli ebrei sono sottomessi ad altri popoli, chiedono l’indipendenza, coltivano l’idea di redenzione politica: non vogliono l’invasore. Tante situazioni del genere sono già configurate nel libro dei Giudici, dove questo motivo è ripetuto: il popolo pecca, viene punito con un’oppressione straniera, il popolo si pente di ciò che ha fatto, il Signore manda un liberatore, un «giudice», che li libera e poi per un certo periodo il Paese vive in pace. Un ulteriore modello messianico è quello della giustizia, soprattutto della giu stizia sociale: in una situazione, anche d’indipendenza, in cui lo Stato è ingiusto, è governato da re e da un intero apparato che esercita la violenza, nasce l’esigenza di cambiare radicalmente la struttura della società e s’immagina un re, pieno di saggezza, che eserciterà la giustizia. Anche questa è un’idea messianica: è lo Stato che deve essere completamente riformato a partire da questa prospettiva di giustizia, l’idea di giustizia sociale regolata da un’autorità ispirata. Altro tema fondamentale è quello dell’esilio: il popolo ebraico viene disperso a causa delle sue colpe; frammentato, va in giro per il mondo e l’idea messianica è quella della raccolta delle dispersioni, la raccolta delle diaspore. Già alla fine del libro del Deuteronomio,[10] è detto: «quand’anche la vostra dispersione fosse agli estremi del cielo, di là vi raccoglierà Dio, di là vi farà venire». Queste idee sono tutte originarie del testo biblico.
Un ulteriore problema riguarda i rapporti con i popoli del mondo, sia a proposito dell’idolatria che della violenza. Per quanto riguarda l’idolatria, l’idea messianica risolve la situazione critica in cui le genti s’inchinano e adorano falsi dei e il momento che si attende è quello in cui tutti i popoli conosceranno l’idea di un Dio unico. Per quanto riguarda la violenza universale, l’idea messianica consiste nell’attesa di un mondo in cui non ci saranno più guerre, in cui un uomo non alzerà la spada contro l’altro. Il messianismo comprende anche questo.
Ciò è radicato nella realtà quotidiana, è storia. Pensare che le diaspore vengano raccolte è un ideale politico, come anche pensare a un mondo giusto; in questo senso non si va oltre la storia, ma si va oltre la storia in altre prospettive. Per esempio, quando s’immagina un mondo in cui non solo metaforicamente ma anche realmente gli animali non divoreranno altri animali, il lupo dimorerà con l’agnello.[11] Questa è una delle prospettive possibili. Un’altra prospettiva, che emerge in varie profezie messianiche, accanto a quella materiale della raccolta delle diaspore, è quella del superamento della morte. Nel capitolo 38 di Ezechiele, c’è la visione delle ossa che riacquistano vita, che si ricompongono, dove non è chiaro se si tratti di una grande metafora di un corpo che si considera morto e che torna in vita, del corpo politico d’Israele che deve recuperare la sua vita, o se, invece, si tratti anche o soprattutto o soltanto dell’idea dei morti che risorgono.
Tutte queste idee sono disseminate nella Bibbia, non sono organizzate coerentemente in una disciplina organica, fanno parte di un grande deposito, da cui il singolo autore, il singolo profeta, la singola profezia estrae dei concetti e li sviluppa. Molto spesso questi concetti sono concentrati intorno a un’immagine regale: un re ispirato che porterà a compimento il progetto. Si tratta sempre – ecco una precisazione metodologica fondamentale – di ideali e speranze di cui si nutre il popolo ebraico in momenti duri della sua storia. L’Ebraismo mantiene e promuove queste idee, ma al limite potrebbe farne a meno. È una speranza: speriamo che succeda così. Ma l’ebraismo può esistere anche senza il messianismo. A differenza del Cristianesimo: la parola Christòs è la traduzione di «messia», che – come abbiamo visto prima – corrisponde esattamente al concetto di «unto». Il Cristianesimo è religione messianica, la speranza realizzata ne è il fondamento: il Cristianesimo senza messianismo non esiste, perché è tale per definizione. Si tratta di un approccio fondamentale a una questione che, nell’ebraismo, è completamente differente.
Per fare un esempio di profezia messianica nella Bibbia, soffermiamoci su Isaia, 2, 1-4, che ha un parallelo in un’altra profezia molto simile, in un profeta di due secoli posteriore, Michà, in Michea 4, 1-5. La profezia di Isaia è: «Visione che ebbe Isaia figlio di Amoz su Yehudà e Gerusalemme. Avverrà in un giorno lontano – in un momento lontano, quanto lontano non lo sappiamo, se si fa un’analisi filologica stretta potrebbe significare nello spazio di sessant’anni, ma può significare anche alla fine della storia – il monte della casa del Signore sarà posto in cima ai monti, sarà più sollevato delle colline e tutti i popoli affluiranno a lui. Molti popoli andranno e diranno: “Andate! Saliamo al monte del Signore, la casa del Dio di Giacobbe, c’insegni le sue strade, percorreremo i suoi sentieri perché da Sion uscirà la Torà – l’insegnamento – e la Parola di Dio da Gerusalemme”. Giudicherà tra le nazioni, ammonirà molti popoli. Spezzeranno le spade per farne degli strumenti agricoli, le loro lance per farne delle falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non studieranno più la guerra».[12] Questa è una profezia fondamentale che ha segnato la storia dell’umanità; è anche incisa sul muro del palazzo dell’ONU, a New York. È una profezia strana, intanto perché non parla di Messia: per arrivare al Messia bisogna leggere il capitolo 11 di Isaia; qui non si parla di Messia, si parla di un’epoca in cui tutto sarà completamente stravolto. Non è uno stravolgimento politically correct, in cui ognuno proseguirà per la sua strada. No, non c’è niente del genere. C’è assoluto monoteismo, tutti quanti conoscono la giustizia dell’ideale Dio unico, Gerusalemme è il centro di questa idea e Gerusalemme esercita la funzione di giudice tra le nazioni. In conseguenza di ciò non ci sarà più bisogno di fare la guerra, e questo è un modo molto sui generis di affrontare il tema messianico, che serve per introdurre un altro concetto importante.
Nella Bibbia ci sono tante profezie tipica mente messianiche, ma ci sono numerose situazioni che apparentemente non hanno niente a che fare con il Messia, e che in realtà ne sono la premessa. Faccio degli esempi. Nel Capitolo 11 della Genesi è raccontata la storia della Torre di Babele: i popoli confluiscono tutti in un unico posto, costruiscono una torre, Dio vede questa torre come una situazione rischiosa e, quindi, confonde la lingua delle nazioni, che da quel momento si disperdono. La storia non è così isolata; per capire quella storia e per capire Isaia, bisogna mettere Isaia, 2 insieme alla Torre di Babele e, allora, si vede che c’è una linea, centrifuga all’inizio che diventa centripeta dopo. Le due cose non sono isolate. La storia della Torre di Babele è il presupposto della profezia messianica di Isaia, così come dopo ci sarà la profezia di Tzefanyà (Sofonia),[13] che dirà che i popoli parleranno un’unica lingua: è lo sviluppo di una catena fatta di tanti anelli e alcuni anelli, che non sembrano messianici, lo sono alla luce degli sviluppi successivi.
E ancora, per esempio, nel capitolo 11 di Isaia, si parla del famoso «lupo che dimora con l’agnello»; per capire questo capitolo, bisogna avere in mente il confronto tra l’inizio del libro della Genesi, capitolo 1, e il capitolo 9, da cui si apprende – non è detto esplicitamente, ma tra le righe, c’è bisogno di esegesi per capirlo – che l’umanità all’inizio era vegetariana e soltanto dopo il diluvio cominciò a mangiare carne, a usare violenza sulla natura. Il confronto di questa storia con la profezia di Isaia, 11 mostra che con l’epoca messianica il cerchio si chiude: l’umanità all’inizio non era violenta, neanche il mondo animale lo era; lo sono diventati a un certo punto, ma con l’epoca messianica si tornerà alle origini e la violenza scomparirà un’altra volta. Il racconto che è all’inizio ha senso insieme al racconto che segue. C’è poi un’altra serie di storie. Il libro della Genesi è profondamente messianico, non solo per il riferimento a Shiloh, che citavo all’inizio, ma per una quantità di altre tracce: per esempio, è fondamentale nel discorso messianico il riferimento alla casa di David. Il Messia discende da David, e David viene dalla tribù di Giuda, uno dei figli di Giacobbe. Le storie dei patriarchi vanno lette anche in chiave messianica; vi sono allusioni disseminate nel testo che preparano la strada a una linea teorica che poi si conclude. Il patriarca Giacobbe ha due mogli, una amata e l’altra no. Dalla moglie amata, Rachele, nascono Beniamin e Yosef. Yosef è il primogenito e diventerà viceré in Egitto. Da Beniamin deriverà una linea regale, quella di Saul, la prima linea regale, che poi perderà il regno. Invece, dall’altra moglie Lea nasceranno un primo figlio, Reuven, che si comporterà male, Levi, che darà origine a un’esperienza regale – quella di Mosè – e poi al sacerdozio, e finalmente Yehudà, colui che alla fine arriva al potere. La scena di Yehudà che litiga con Yosef alla corte del Faraone è una raffigurazione di evento messianico, e questa lettura non è un’esercitazione esegetica, è piuttosto la traccia sotterranea che percorre il racconto.
Un altro esempio sarà particolarmente interessante per chi ha conoscenze cristiane. Nel primo capitolo di Matteo,[14] c’è la genealogia di Gesù, che si dimostra discendere da Adamo attraverso David per 42 generazioni (14 x 3). In questa genealogia, tutta maschile, in perfetto stile biblico, compaiono quattro donne: Tamar, Rachav, Ruth e Batsceba (Betsabea, che non è nominata, ma è chiamata la «madre di Salomone»). Questi quattro personaggi femminili hanno, tra i vari aspetti comuni condivisi, una storia controversa dal punto di vista sessuale. Tamar si traveste da prostituta per farsi mettere incinta dal suocero Yehuda. Rachav è la donna di Gerico che faceva di professione la prostituta. Ruth, l’antenata di David, discende dal popolo di Moab, che è il prodotto di un incesto, ed è protagonista di una strana scena notturna nell’aia con Boaz, suscettibile di varie interpretazioni. Batsceba è presa da David con un adulterio. Queste quattro storie disperse nella Bibbia hanno senso insieme: l’idea che la discendenza messianica passa attraverso comportamenti sessuali fuori dalla regola. Il testo biblico non lo dice esplicitamente – va ricavato – sarà poi la tradizione successiva a dirlo e non sarà una stranezza dell’esegesi ebraica, ma un’esegesi perfettamente condivisa da quella cristiana, come appunto documenta il primo capitolo di Matteo, che aggiunge alla lista delle antenate messianiche anche il nome di Rachav, che la Bibbia ebraica e i midrashim non collegano al Messia.
Qualche accenno a come la tradizione rabbinica sviluppa questi concetti. Nella tradizione post-biblica le fonti che si occupano del problema messianico sono numerose e non ci sono soltanto le fonti rabbiniche, basti pensare a Filone d’Alessandria, Giuseppe Flavio, gli apocrifi dell’Antico Testamento, gli Pseudo-epigrafi. Si tratta di una quantità rilevante di fonti, il cui contatto con quelle rabbiniche è evidente per allusioni, che non dicono la stessa cosa. Le fonti rabbiniche ricoprono un ampio arco di tempo, per cui è possibile riconoscere tutta una serie di evoluzioni, di ramificazioni e di problematiche.
Alcuni dei problemi che affrontano i rabbini sono legati essenzialmente a mutate condizioni politiche, per cui la tradizione rabbinica si coagula praticamente da subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (da parte di Tito nel 70 e.v.) con la perdita dell’unità politica; dunque, i temi che vengono alla ribalta nelle attese messianiche dell’epoca sono fondamentalmente politici, ma anche i temi spirituali non sono messi da parte; c’è di tutto e raccontato in maniera particolare. Nelle fonti rabbiniche abbiamo delle informazioni sparse, ma anche dei brani concentrati, e uno dei testi che ha la concentrazione di informazioni più grande e più stimolante è il trattato di Sanhedrin del Talmud Babilonese, capitolo XI. In questo capitolo si discute come e quando il Messia si manifesterà. Quali saranno i segni che lo annunciano; per esempio, c’è un insegnamento[15] in cui si dice che nella settimana – che può significare anche, e più probabilmente, settenario – in cui il figlio di David viene, nel primo anno si avvererà il verso di Amos 4, 7, che dice «farò piovere su una città e non su un’altra città», nel secondo anno «le frecce della fame vengono lanciate», nel terzo anno «c’è la grande carestia e muoiono uomini, donne e bambini, pii e uomini d’azione e la Torà viene dimenticata da quelli che la studiano», il quarto anno «ci sarà la sazietà, ma non ci sarà sazietà», il quinto anno «ci sarà grande sazietà, per cui si mangerà e si berrà e si sarà tutti allegri e la Torà tornerà a quelli che la studiano», il sesto anno «ci saranno delle voci», il settimo anno «ci saranno delle guerre», all’uscita del settimo anno «arriverà il figlio di David».
Questo è un piccolo esempio di quanto sia complessa l’ideologia, perché ognuno di questi temi, di queste voci, delle cose che vengono evocate è in realtà un’evocazione di altri sistemi, di altre allusioni, per cui ciò che emerge in una sola frase «apocalittica» è soltanto la facciata di un problema molto più articolato. Sempre in questa linea, in un’altra tradizione, «nella generazione in cui il figlio di David arriverà, i ragazzi svergogneranno gli anziani, gli anziani si dovranno alzare di fronte ai ragazzi, la figlia si ribellerà alla madre, la nuora alla suocera, la faccia della generazione sarà come il volto di un cane, il figlio si vergognerà del padre; nella generazione in cui il figlio di David arriverà la sfrontatezza si moltiplicherà, ciò che è prezioso sarà ridotto senza significato, la vite darà il suo frutto ma il vino sarà caro e tutto il regno – quello del potere politico – diventerà eretico» (questa è una possibile allusione all’accettazione da parte del potere romano della religione cristiana). Sempre in questo brano del Talmud c’è l’idea dei settemila anni: il mondo dura seimila anni e poi si riposerà nel settimo millennio.
Ci sono poi le date sull’arrivo del Messia. Un insegnamento prevede che il Messia dovrebbe arrivare nell’anno 531 dell’era volgare oppure cinquant’anni prima, nel 481 (stranamente questa data, non se ne sono accorti al momento, corrisponde a quella della caduta dell’Impero romano d’Occidente). Tuttavia, sempre in questo brano è detto: «Siano maledette le ossa di coloro che si mettono a contare la fine»; per «fine» s’intende la data, perché nel momento in cui arriva questa data, se non viene il Messia, la disillusione che ne deriva è drammatica. Questi brani introducono fenomeni che si sono ripetuti ossessivamente nella storia ebraica: la periodica comparsa di persone che hanno detto «secondo i miei conti, secondo quel verso, secondo quella circostanza, il Messia arriverà in quel momento»; molta gente lo ha atteso, poi il Messia non è venuto.
Nel Talmud c’è già la critica di quelli che illudono la gente ed è anche detto che bisogna attendere e avere speranza e non perdere la speranza nell’attesa. In queste pagine compare una discussione fondamentale e interessante per chi studia filosofia, in cui si scontrano due visioni su cos’è che promuove la storia. Rav, «il maestro», – all’inizio del terzo secolo – dice: «Tutti i termini prefissati sono finiti e la cosa dipende soltanto dal pentimento e dalle buone azioni».[16] Perché arrivi il Messia bisogna pentirsi e comportarsi bene e Lui arriverà. Shmuel, il suo contrapposto, dice: «Basta che chi sta in lutto stia nel suo lutto». Il lutto ritualmente, nell’ebraismo, comprende tempi prefissati,[17] bisogna stare fermi determinati giorni e con certi rigori; infatti, il «lutto» significa tempi precisi: quando è finito il periodo è finito il lutto. Che cosa dice Rav? Se vuoi che il Messia arrivi, devi pentirti. Cosa dice Shmuel? C’è un tempo prefissato, quando finirà quel tempo il Messia verrà, a prescindere dal comportamento. Il Talmud dice che la divisione tra questi due maestri si rifà a una divergenza più antica ancora, che è quella tra Rabbi Eliezer e Rabbi Yehoshua. Rabbi Eliezer è un famoso rigorista elitario, che venne scomunicato perché rifiutava di accettare la regola della maggioranza. Rabbi Eliezer dice: «Se Israele si pente viene redento, altrimenti non viene redento». La chiave della redenzione è la modificazione del comportamento. Invece, Rabbi Yehoshua dice: «Se non si pentono non vengono redenti, ma il Signore mette sopra loro un re che ha dei decreti più duri di quelli di Aman – Aman è il ministro persiano che tentò di eliminare il popolo ebraico – e quindi gli ebrei sono costretti a pentirsi». Secondo Rabbi Yehoshua c’è bisogno di pentimento, ma se la gente non arriva da sola al pentimento è il Signore che penserà a predisporre questo processo storico, li farà maltrattare da un re malvagio, loro si pentiranno e a questo punto, volenti o nolenti, arriverà il Messia.
È interessante evidenziare che, nel Talmud, a questo punto i due Maestri si scatenano in un esercizio esegetico, in cui ciascuno porta a sostegno della propria tesi il verso che sostiene la necessità del pentimento. Ciascuno può pescare abbondantemente nella letteratura biblica, perché c’è di tutto, in un senso o nell’altro. Quello che è interessante è che, almeno in questa fonte, Rabbi Yehoshua, colui che dice che i tempi sono prefissati, porta come prova finale il capitolo 12 di Daniele, che contiene una profezia in cui ci sono tempi precisi per l’arrivo del Messia, molto misterioso da interpretare. Di fronte a questa citazione di Daniele, Rabbi Eliezer tace. Non tace per dare ragione all’avversario, ma almeno non ha risposte su questo punto.
[1] Genesi 49, 10.
[2] Genesi 28.
[3] L’episodio del sogno di Giacobbe è narrato in Genesi 28, 12-17: «Fece un sogno: vedeva una scala posata in terra, la cui cima arrivava al cielo e per essa gli angeli di Dio salivano e scen devano. Il Signore stava in cima ad essa e gli diceva: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e di Isacco, la terra sulla quale stai coricato la darò a te e alla tua discendenza”» (Genesi 28, 12-13). La complessità di questo episodio suggerisce alla tradizione molteplici interpretazioni, non soltanto per il linguaggio oscuro, ma anche per la grande portata simbolica che questa visione rappresenta. Un’interpretazione del sogno è riportata nel Midrash Tanhumà (Vajetzè, 2), in cui Giacobbe/Israele assiste all’ascesa e alla decadenza di popoli e imperi (Babilonia, Persia, Grecia) e, infine, assiste anche alla caduta dell’impero di Edòm (Roma) – questa interpretazione viene anche accettata da Maimonide. Un’altra interpretazione che può essere addotta è quella per cui la scala di Giacobbe rappresenta il legame tra il cielo e la terra, tra il mondo materiale e quello spirituale: infatti, la scala poggia sulla terra, ma il suo sostegno sta in cielo, cosicché tutte le nostre azioni dovranno tendere il più possibile al divino (cfr. Elia Kopciowski, Invito alla lettura della Torà, La Giuntina, Firenze 1998).
[4] Genesi 28, 18.
[5] Esodo 40, 1-33.
[6] Esodo 28-29; Esodo 40, 12-15; Numeri 3. Aronne è fratello di Mosè, discendente della tribù di Levi (terzogenito di Lia). Aronne sarà consacrato sacerdote per bocca di Mosè direttamente dal Signore: «Tu poi avvicina Aron tuo fratello insieme ai suoi figli di mezzo ai figli d’Israele, perché esercitino il sacerdozio in Mio onore, Aron, Nadav, Avihù, El’azar e Ithamar figli di Aron» (Esodo 28, 1). Inoltre, è scritto in Esodo 28, 43: «statuto perpetuo per lui e per la sua discendenza dopo di lui»; tutti i discendenti di Aronne, chiamati kohanìm, saranno pertanto consacrati alla carica di sacerdote. I kohanìm furono incaricati, dopo l’episodio del vitello d’oro, di compiere diversi servizi connessi a particolari sacrifici e rituali del Santuario.
[7] Isaia 45, 1.
[8] Esodo 6, 6-7.
[9] Ibidem: «Vi farò uscire dalle sofferenze dell’Egitto, vi salverò dal loro lavoro, vi libererò con braccio disteso e grandi atti di giustizia e vi prenderò come popolo».
[10] Deuteronomio 30, 4.
[11] Isaia 11, 6.
[12] Isaia 2, 1-4.
[13] Sofonia 3, 10.
[14] Matteo 1, 1-16.
[15] Sanhedrin 97a.
[16] Sanhedrin 97b.
[17] Il periodo del lutto, in ebraico avelut, si articola secondo tempi prefissati e stabiliti: Avelut è il primo periodo del lutto, dal decesso alla sepoltura; Shivah (in ebraico letteralmente «sette») è il secondo periodo che sta ad indicare propriamente i sette giorni di lutto a partire dalla sepoltura – in questa settimana viene sospesa qualsiasi mitzvà e attività, anche quella dello studio della Torà, è tuttavia permesso leggere il Libro di Giobbe, Lamentazioni, Geremia e il Trattato Semachot del Talmud (trattato che concerne le disposizioni sul lutto); il terzo periodo è quello di Sheloshim (in ebraico letteralmente «trenta»), che indica i trenta giorni a partire dalla sepoltura, dopo i quali la persona in lutto ritorna gradualmente alla vita normale, come infatti è scritto anche in Deuteronomio 34, 8: «I figli d’Israele piansero Mosè nelle pianure di Moav per trenta giorni, e terminarono i giorni del pianto per il lutto di Mosè» – questi trenta giorni comprendono anche il periodo di Shivah. L’ultimo periodo, Shneim asar chodesh, si conclude dopo dodici mesi a partire dalla sepoltura.