“Disse il Santo Benedetto: In questo mondo, per la cattiva inclinazione, le Mie creature si sono divise e frazionate in settanta lingue, ma nel Mondo a Venire tutte si uniranno per invocare il Mio Nome e per servirmi, come è detto: ‘Perché allora darò in cambio ai popoli un linguaggio puro, affinché tutti possano invocare il Nome di H. e servirLo con unanime consenso’” (Tzefanyah 3,9; Midrash Tanchumà, P. Noach, 19). È questa una delle numerose fonti che ci dipingono l’epoca messianica, un’età che sarà segnata dalla pace durevole, dalla felicità e dalla gioia universali. La domanda che questi testi suscitano è: quale sarà il ruolo del popolo ebraico una volta che avrà in un certo senso esaurito la propria missione millenaria? Ci sarà ancora posto per esso? Esisteranno ancora la Torah e le Mitzwot?
Maimonide conclude il suo Mishneh Torah riprendendo quanto già afferma Shemuel nel Talmud: “Non si pensi che ai tempi del Mashiach muti alcunché di come va il mondo… I Maestri hanno affermato che l’unica differenza fra il mondo attuale e l’età messianica consisterà solo nella soppressione dell’asservimento di Israel ai regni (stranieri: shi’bbud malkhuyyot)” (Hil. Melakhim 12, 1-2). Insomma, l’oppressione che infligge a Israel un mondo ostile finirà ed egli sarà restaurato nella posizione eminente assegnatagli dal buon D. :ben altro che annullamento!
In un altro passo Maimonide, parlando dell’età messianica, aggiunge che “i cinque libri della Torah e le Halakhot della Torah Orale non si annulleranno mai” (Hil. Meghillah, 2,18) a differenza dei testi profetici, in polemica con il cristianesimo che riserva proprio a questi ultimi la preminenza e la sopravvivenza. L’invocazione unanime del Nome Divino di cui parla il Profeta Tzefanyah si realizzerà dunque nel fatto che tutte le nazioni accetteranno la nostra Torah senza omissioni. Del resto, immaginare che un sistema di pensiero possa predicare la propria dissoluzione, sia pure al servizio dell’ideale più nobile come la pacificazione universale, sarebbe un’assurdità logica, prima ancora che teologica. È stolto pensare che l’ebraismo lavori per autodistruggersi. Il messianismo non ci priverà della nostra identità. Israele e la Sua Torah rimarranno nella loro integrità.
Ma a metà Ottocento c’era chi contestava apertamente questo assunto. “Il talmudismo fu per lui una fase necessaria bensì, ma passeggera del giudaismo. Questa forma deve essere abbandonata ora che le leggi non fanno distinzione fra ebreo e cattolico e protestante. Egli non sogna un Messia che richiami i raminghi alla Palestina; all’opposto la rovina della nazionalità (ebraica) è per lui la più alta prova della missione cosmopolita dei figli d’Israele”. Queste parole uscirono dalla penna di Isacco Artom, il grande statista astigiano (fu segretario di Cavour oltre che ambasciatore dei Savoia in varie capitali europee) i cui scritti sono ora oggetto di un accurato studio condotto da Liana Elda Funaro e pubblicato questa estate fra i “Quaderni dell’Archivio Ebraico Terracini” di Torino (“La Scuola del Silenzio: per un profilo di Isacco Artom”, Belforte, Livorno, 2021) con prefazione di Alberto Cavaglion, grazie a una benemerita iniziativa della famiglia Luzzati-Bassani originaria di Asti.
Nello scritto citato, riportato a p. 88 del volume, Artom riferisce l’insegnamento di Ludwig Philippson, un rabbino riformato tedesco del suo tempo la cui opera era stata introdotta in Italia dal Rabb. Lelio Della Torre ed ebbe una certa notorietà nel nostro paese per oltre un secolo. “Lo svolgimento dell’idea religiosa nel giudaismo, nel cristianesimo e nell’islamismo” di Philippson (Lipsia, 1847) vide infatti la luce in versione italiana a cura della Rassegna Mensile d’Israel nel 1957 in una “Collana di opere ebraiche e sionistiche” (sic!) con la prefazione nientemeno che di Dante Lattes!
Non mi resta a questo punto che ringraziare quanti sono stati coinvolti nella recentissima impresa editoriale. Il merito principale della ricerca sul carteggio di Artom consiste, dal mio punto di vista, nel mettere finalmente in luce un importante retroterra ideologico dell’ebraismo italiano contemporaneo. Dal libro della Funaro emerge che lo statista piemontese godette di carisma anche fra i suoi correligionari. Richiamandosi a Philippson, Artom auspicava e pronosticava per il popolo ebraico un avvenire in cui esso si sarebbe interamente spogliato di ogni nazionalismo e pedantismo religioso, per ritornare a un vago mosaismo che lo avrebbe distinto dal resto della società solo per la mancata accettazione dei dogmi cristiani.
Il declino apparentemente irreversibile delle nostre Comunità è oggi sotto gli occhi di tutti: una “dissoluzione finale”! Per molte di esse la parola futuro è un taboo. La percentuale di matrimoni misti fra gli ebrei italiani è talmente elevata da non poter essere giustificata solo con la trascuratezza e il disinteresse dei più verso ogni vissuto ebraico. Talvolta si ha la sensazione di qualcosa di voluto, di trovarci di fronte al frutto di un programma deliberato. Mi sono sempre domandato a quali fonti potesse ispirarsi. Ora le ho trovate.
C’è un solo punto degli scritti di Artom sul quale mi sento coinvolto. Quando l’illustre correligionario piemontese taccia l’ebraismo rabbinico di immobilismo. Siamo davvero sicuri che chi ha la responsabilità di mantenere accesa la fiammella della nostra tradizione sia sempre al riparo da un’accusa del genere? Mi auguro che il XXI secolo, segnato dalla riscoperta dell’identità, imprima anche al nostro piccolo mondo i segnali di una svolta: “tutti i popoli della terra vedranno che hai il Nome Divino impresso su di te e ti rispetteranno” (Devarim 28,10).
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