Breve storia dei Lubavitcher, i più eretici tra gli ebrei ortodossi
La comunità ebraica in tutto il mondo è alle prese da alcuni anni con un fenomeno singolare: il Messia è arrivato a Brooklyn e ha ricostruito il “tempio” al numero 770 di Eastern Parkway; poi nel 1994, dopo due anni di paralisi, è morto e i seguaci ne attendono ora la resurrezione in modo che possa completare la redenzione. Potrebbe sembrare una stranezza o uno scherzo, ma non è così: i cosiddetti “messianisti”, coloro che riconoscono il “Rebbe”, cioè Menahem Mendel Schneersohn, come “Melek Moshiach”, il Messia per eccellenza, costituiscono la maggioranza del gruppo hassidico Lubavitcher (chiamato anche Chabad).
David Berger, un rabbino americano ortodosso ma vicino ai gruppi “liberal”, aveva pubblicato un paio d’anni fa un libro (“The Rebbe, the Messiah, and the scandal of Orthodox indifference”, Littman Library. 195 pp., $ 29,50) dove chiede la scomunica di tutti gli ebrei Lubavitcher che riconoscono Menahem Mendel Schneersohn come Messia e la loro condanna per “avodah zarah”, cioè idolatria, la più grave colpa che un ebreo possa commettere e che nella Bibbia merita la lapidazione.
Confessando la sua “vergogna” per questa richiesta di scomunica, Rabbi Berger scrive: “Io, un sostenitore della tolleranza, che invoco l’intolleranza; un credente nel non escludere nessuno che predica l’esclusione; un sostenitore dell’unità che fomenta la divisione!”. Secondo Berger, la scomunica è però necessaria perché la fede in questo Messia mette a rischio la sopravvivenza della fede ebraica e il futuro dell’ebraismo in tutto il mondo.
Così, inaspettatamente, in pieno Ventunesimo secolo, mentre la venuta del Messia è vista dalla maggioranza degli ebrei come una metafora politica o culturale, e per gran parte dei cristiani la seconda venuta di Gesù è sempre più “demitologizzata” come semplice simbolo, è scoppiata una discussione, a volte feroce, tra messianisti e anti-messianisti, fatta a colpi di citazioni di passi del Talmud e dello Zohar.
Per capire l’importanza di questo fenomeno, in gran parte sfuggito al pubblico italiano, basti pensare che i Lubavitcher sono il gruppo hassidico più dinamico oggi nel mondo e che negli ultimi cinquant’anni maggiormente si è dedicato per aiutare le comunità ebraiche perseguitate o in difficoltà e per mantenere e risvegliare la fede negli ebrei di tutto il mondo. La morte del “Rebbe” nel 1994, già riconosciuto come messia mentre era ancora in vita, non ha affievolito questa spinta missionaria, ma l’ha anzi rafforzata. In Inghilterra, in Olanda e a Sydney, in Australia, il cinquanta per cento del rabbinato è Chabad; a Montreal il capo della corte rabbinica è Chabad; in Italia, a Milano e Venezia, c’è una forte presenza Chabad, che a Roma controlla la più importante macelleria rituale; forte anche la presenza in Francia, mentre in Germania vi sono centri Chabad in tutte le principali città e sono tra gli elementi più importanti del ritorno degli ebrei in Germania. Nei territori di quella che era l’Unione Sovietica la presenza Lubavitcher è così forte che il termine Chabad sta diventando sinonimo di ebraismo.
Durante la tirannia stalinista e la persecuzione degli ebrei in Russia anche dopo la morte di Stalin, i Lubavitcher furono quelli che più si adoperarono, molte volte eroicamente e subendo gravi persecuzioni, per la sopravvivenza dell’ebraismo in Russia, costruendo yeshiva, sinagoghe clandestine, con bagni rituali sotterranei e organizzando poi l’emigrazione o la fuga di molti ebrei russi. Fortissima infine l’influenza negli Stati Uniti e in Israele.
In questo modo i Lubavitcher hanno trasformato il movimento dei hassidim, che dopo l’olocausto rischiava di diventare una reliquia del passato, in una delle componenti più influenti dell’ebraismo ortodosso.
L’hassidismo si presenta agli albori del Settecento come una rinascita religiosa sulle linee della cabala di Isaac Luria, che ripropone l’attesa del messia come centro della fede ebraica e anche come una reazione alle idee di assimilazione prospettate da Spinoza. I Lubavitcher nacquero verso la fine del millesettecento a opera del Rabbi Shneur Zalman di Liadi, discepolo del grande Dov Baer, diretto successore del Baal Shem Tov, fondatore dell’hassidismo. Il gruppo di Rabbi Shneur Zalman di Liadi prese il nome di Chabad, una sigla formata dalle iniziali di Choqma, Binah e Da’at, (sapienza, intelligenza e conoscenza in ebraico, tre delle emanazioni divine secondo la cabala) e che dà il tono intellettuale che subito distinse questa corrente del movimento hassidim.
Successivamente essi vennero designati anche con il nome di Lubavitcher, dalla città bielorussa di Lubavitch, che divenne il centro del gruppo.
Fin dall’inizio Rabbi Zalman, e poi i suoi successori alla guida dei Lubavitcher, ebbero un fortissimo senso della missione e promossero istituzioni scolastiche per educare i giovani alla fede. Zalman venne perseguitato dai mitnagedim, i rabbini opponenti dei hassidim, e venne da loro denunciato alla polizia zarista, finendo in carcere nel 1798. Durante l’invasione di Napoleone in Russia, Zalman, contrariamente a molti altri gruppi hassidici, ritenne che un’eventuale vittoria di Napoleone sarebbe stata disastrosa per il giudaismo e appoggiò l’armata russa, accompagnando nella fuga l’esercito russo sconfitto.
Alla fine dell’Ottocento, con Isaac Josef Schneersohn, il sesto Rebbe, il gruppo dei Lubavitcher venne investito dalla bufera che colpì la comunità ebraica in tutto il mondo: l’illusione di risolvere la questione ebraica attraverso l’assimilazione alla società borghese liberale europea, e poi il sionismo, la rivoluzione russa, le due guerre mondiali e la tragedia dell’olocausto.
Questi grandi sconvolgimenti senza precedenti vennero interpretati dai Lubavitcher, secondo l’insegnamento della cabala, come “i travagli del parto” che preparano l’apparizione del Messia. Nel 1944 Issac Josef, dopo una serie di viaggi avventurosi per evitare di essere imprigionato dai nazisti, decise di trasferirsi a Brooklyn. La discesa del Rebbe in America, l’“emisfero inferiore” non toccato dalla Torah, regno della secolarizzazione, simile all’heideggeriana “notte del mondo”, venne visto dai messianisti come uno dei grandi segni che precedono la manifestazione del Messia. Secondo la tradizione, infatti, il Messia discenderà nel mondo delle tenebre, l’Egitto cabalistico, per riscattare i figli perduti di Israele. Ecco il senso della coraggiosa yeridah (discesa) di Issac Josef nel “mondo del peccato” per promuovere dal di dentro una rinascita dell’ebraismo ortodosso proprio là dove la comunità ebraica è più minacciata dall’assimilazione.
Menahem Mendel Schneersohn venne allevato dal suocero Isaac Josef come futuro rebbe e istruito sugli scritti Chabad esoterici e non pubblicati. Alla morte di Issac Josef, nel 1950, divenne settimo Rebbe Lubavitcher. Profondo studioso del Talmud e della cabala, aveva però studiato anche filosofia e ingegneria alla Sorbona di Parigi. Univa così nella sua persona la conoscenza della tradizione a quella della scienza e della filosofia moderna. Con lui, situato nel quartier generale di Brooklyn, al centro dell’emisfero delle tenebre, la rete di istituzioni scolastiche e la spinta missionaria dei Lubavitch si estende in pochi anni a tutto il mondo, anche questo un segno messianico: si calcola che attualmente vi siano oltre duemilaseicento istituzioni Chabad nel mondo, mentre circa tremilasettecento famiglie, rispondendo all’invito del Rebbe, sono emigrate come missionari in diverse nazioni.
Il crollo improvviso e “miracoloso” dell’Unione Sovietica – visto come la vittoria su Gog e Magog – è interpretato come un altro segno messianico che si compie con Menahem Mendel. Subito dopo comincia il ritorno in Israele di milioni di ebrei russi, favorito e sostenuto dai Lubavitcher. Infine la sua morte, nel 1994, preceduta da una lunga e dolorosa sofferenza, e la mancanza di eredi dopo una successione ininterrotta di oltre duecento anni, sono gli ultimi segni che lo confermarono come Messia. Oggi il “Rebbe” è chiamato spesso “boreinu”, cioè “nostro creatore”, oppure “Dio rivestito di un corpo fisico” o anche “l’essenza divina sussistente in un corpo”. Formulazioni vicine alla terminologia della “Lettera agli Ebrei” di san Paolo, che definisce Gesù “l’impronta dell’essenza divina” . Poiché il Rebbe è “elokus bilevush gashmi” (Dio in forma fisica), anche questa una formulazione molto vicina al concetto d’incarnazione, i messianisti pregano in direzione della foto del Rebbe che adorna numerose istituzioni Lubavitcher. In quasi tutte le liturgie sinagogali dei Lubavitcher si prega rivolgendosi al “Rebbe” come messia: “Vive il nostro Signore ed il nostro maestro ed il nostro Rabbi, Re Messia nei secoli dei secoli, Amen”. E si conclude cantando, in attesa della sua resurrezione: “Ed egli ci redimerà”.
Come è possibile che uno dei gruppi ebraici più fedeli alla tradizione sia approdato improvvisamente a formulazioni che sembrano vicine al cristianesimo? Per capirlo bisogna fare un passo indietro: una delle conseguenze più importanti verificatasi dopo la venuta di Gesù fu la messa ‘sottotraccia’ delle tradizioni messianiche.
Aryeh Kaplan, un rabbino americano studioso della cabala, spiega (“Jewish Meditation”, Random House) che per evitare il pericolo che le dottrine messianiche attraessero nuovamente gli ebrei, esse “vennero nascoste alle masse e fatte parte di un insegnamento segreto. Dopo la distruzione del secondo tempio la dirigenza giudaica [della grande assemblea] prese una decisione molto difficile […] la disciplina del “carro di Ezechiele” (cioè le dottrine sulla venuta del messia) doveva essere ridotta a dottrina segreta […], insegnata solo a singoli studenti e che abbiano dato prova di saggezza”. Il Talmud prescrive infatti che questa dottrina debba essere insegnata bisbigliando, e solo a studenti che abbiano almeno quarant’anni di età e che abbiano dimostrato certe qualità morali e, perfino, fisiognomiche.
La polemica con i messianisti ha invece costretto il rabbino David Berger a discutere proprio quelle fonti sul Messia della tradizione ebraica esoterica o segreta, spesso solo manoscritte o stampate in ebraico medievale non vocalizzato, e quindi di difficile accesso anche agli studiosi. “Una della mie riserve nello scrivere questo libro – scrive Berger in “The Rebbe, the Messiah, and the scandal of Orthodox indifference” – nasceva dalla riluttanza di far conoscere […] certe fonti rabbiniche che i Messianisti citano per sostenere la loro dottrina: temevo che alcuni lettori, non ben ancorati alla millenaria tradizione del giudaismo, potessero perdere l’ancora e concludere che la fede nella Seconda Venuta del Rebbe (cioè in un Messia morto e risorto) sia […] una opzione accettabile nel giudaismo. Per questo ho nascosto la mia risposta [a queste fonti] in una nota a piè di pagina, molto breve, quasi criptica…”.
Le tradizioni sulla venuta del Messia sono come un mare sotterraneo che solamente i grandi studiosi del Talmud e della Cabala conoscono: grazie a questa discussione improvvisamente si è aperta una finestra attraverso cui possiamo gettare uno sguardo.
Al centro del dibattito vi sono due testi e i loro commenti lungo i secoli: Zaccaria 12 (“ed essi guarderanno a colui che hanno trafitto”) e Isaia 53, il famoso passo sul “servo sofferente”: “Disprezzato e rifiutato dagli uomini, uomo dei dolori […] è stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità; il castigo per cui abbiamo la pace è caduto su di lui, e per le sue lividure noi siamo stati guariti. Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via […] Maltrattato e umiliato, non aperse bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca […] chi riflettè che era strappato dalla terra dei viventi e colpito per le trasgressioni del mio popolo? […] Offrendo la sua vita in sacrificio per il peccato, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni…”.
Questo passo, che sembra descrivere la missione di Gesù Cristo, la sua passione, e la sua conclusione gloriosa, nel Nuovo Testamento è il passo messianico più importante e viene citato sette volte esplicitamente e almeno altrettante volte implicitamente. La sorpresa è che anche per i Lubavitcher è proprio quello usato per accreditare la messianicità del Rebbe (il termine “trafitto” in ebraico può infatti essere tradotto anche con “colpito da malattia”). Secondo l’apologetica giudaica tradizionale invece, questo passo non avrebbe alcun riferimento al Messia ma si riferirebbe alle sofferenze del popolo ebreo. Riprendendo gli argomenti tradizionali della polemica, Berger scrive: “Il fatto che alcuni rabbini del Talmud abbiano interpretato il capitolo 53 di Isaia messianicamente è di interesse per lo storico ma non significa affatto che gli ebrei debbano adottare questa interpretazione…”.
Eppure per gli ebrei ortodossi “i rabbini del Talmud” sono la più alta autorità; e inoltre, nel passo in questione, le sofferenze del “servo di Jahvè ” sono imputate proprio alle ”trasgressioni del mio popolo”. Ma Berger – e lo ripete quasi ad ogni pagina del suo libro – è assillato perché il Messianismo Lubavitcher scardina i due principali “dogmi” anticristiani stabiliti dalla apologetica ebraica anticristiana, avallando l’idea di un Messia morto e risorto e l’idea che la venuta del Messia non inauguri ipso facto i tempi messianici: “Se trattiamo i messianisti come buoni ebrei […] concediamo la vittoria al Cristianesimo nei punti cruciali di un dibattito millenario”. Perciò dedica ben tre capitoli del suo libro per attaccare i messianisti e per confutare le fonti da loro citate. Il risultato alla fine è che i dubbi aumentano e sembra dare ragione ai messianisti. David Singer, dell’American Jewish Commitee, commenta sulla rivista “First Things”: “Quanto più Berger cerca di confutare le fonti citate dai messianisti (a sostegno di un messia morto e risorto), tanto più è evidente che sta cercando di nasconderle”. Infatti la discussione sulle fonti dimostra che anche secondo il Talmud, Isaia 53 è proprio il passo messianico “par excellence”. Nel trattato Sahedrin 98, citando Isaia 53, il messia è colui che porta i peccati del popolo e che ritorna dalla morte (“il sapiente lebbroso”). Zaccaria 12 poi viene commentato nel trattato Talmudico Sukkah 52, dando luogo alla tradizione del Messia “figlio di Giuseppe”, che nella sua prima venuta verrà ucciso e che poi tornerà nella gloria come messia “figlio di Davide”.
I commenti talmudici a Isaia 53 e Zaccaria 12 hanno dato origine lungo i secoli ad una ramificazione enorme di testi paralleli e di commenti, cominciando dallo Zohar (il testo fondante per la Cabala), fino ai grandi commentatori: Rashi, Ramban, Ben Yehoyada, Abarbanel, Maharal, Maharash, Rav Saadia Gaon, Rabbi Yochanan, Sedei Chemed e altri ancora. Tutti sono concordi: il Messia risorgerà dalla morte, oppure verrà rapito in cielo dove trascorrerà un tempo prima di tornare nella gloria, oppure sarà trasportato nel “giardino del’Eden”: per tutti il Messia non sarà solo un Messia politico, ma sarà soprattutto il vincitore della morte, vera nemica dell’uomo. Unica eccezione tra i grandi della tradizione sembrerebbe Rambam, ossia Maimonide, discepolo dei filosofi arabi atei e sostenitore di una lettura razionalistica della scrittura e della fede ebraica, che tende a mettere in sordina la resurrezione dai morti e che riduce il Messia a un re terreno che porterà una pace politica.
Dalla lettura delle fonti della tradizione biblica, talmudica e cabalistica, emerge questo quadro: il Messia “figlio di Giuseppe” nascerà da un discendente di Davide; si manifesterà nella “Galilea dei gentili” e riporterà molti ebrei alla fede; si rivolgerà anche ai pagani che lo ascolteranno e lo seguiranno; dopo avere inaugurato la predicazione del regno verrà “trafitto” caricandosi i peccati del popolo; poi risorgerà dalla morte; infine ascenderà al cielo, e i tempi messianici verranno stabiliti definitivamente solo in un secondo momento, quando ritornerà nella gloria. Questo dibattito getta una luce nuova sui rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, dimostrando che molti aspetti di Gesù e del cristianesimo, che secondo alcuni erano frutto di contaminazioni ellenizzanti o comunque estranee alla tradizione ebraica, sono invece profondamente radicati nella tradizione di Israele. Ma soprattutto, in un’epoca di “pensiero debole” e in un mondo che vede nella omologazione o nell’assimilazione l’ideale supremo, i Lubavitcher sono testimoni viventi che la fede nel Messia – venuto o venturo – è il centro della fede giudeo-cristiana.
Giuseppe Gennarini
IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 22 GENNAIO 2005