“Davide e il suo male oscuro Muore come Primo Levi sotto ponte Garibaldi”. Aveva 82 anni ed era uno degli ultimi superstiti romani di Auschwitz
Paolo Brogi
Tacere. Oppure dirlo. C’è una famiglia distrutta dal dolore. Un dolore enorme, perché è morto un uomo che aveva subito nel corso della sua vita quella cosa irriferibile che si chiama Auschwitz. Rispettiamo quella famiglia, quella di Davide Di Veroli, che l’altro giorno è stata segnata a lutto così atrocemente. E con la famiglia l’intera Comunità Ebraica romana. Ma la morte di Davide Di Veroli, 82 anni, un sopravvissuto all’orrore che nel maggio di 61 anni dopo conservava sul suo corpo ferite non rimarginabili, è un grido di dolore che ci riguarda tutti. È successo di nuovo, come con Primo Levi. Stavolta sotto ponte Garibaldi. Qualcosa di terribile che si deve sapere.
Davide Di Veroli è morto. Avrebbe compiuto 82 anni l’11 giugno. Poco tempo fa aveva perso la moglie Velia e il fratello Leo, deportato come lui ad Auschwitz. Fino all’altro giorno, quando è morto a ponte Garibaldi, non lontano dal suo Tempio Maggiore, la Sinagoga, era uno dei pochi superstiti in vita dell’Olocausto. Faceva parte in rigoroso silenzio di quel piccolo e coraggioso pugno di vecchi volti, pochi, sempre di meno, che portano al collo nelle cerimonie che ricordano la Shoah e gli anni più bui del secolo passato, quel fazzoletto a strisce bianche e blu che li distingue in modo netto da tutto il resto. Una ventina di uomini e donne, ormai, rimasti tra quelli che hanno visto il vero orrore. Non si può dimenticarlo mai. Ma Davide non ha retto a tutto quel dolore che portava dentro di sé. Era già successo a Primo Levi, era successo a Stella Marcheria, è successo ad altri. E ogni volta è ancor più terribile.
Ad Auschwitz, appena diciannovenne, Davide Di Veroli si era visto tatuare sul braccio il numero A.5366. E lì aveva poi visto giorno per giorno la fine di uomini, donne e bambini. L’aveva visto vedendo recapitare nella sua baracca di lavoro forzato al «Kanada Kommando», ciò che i poveri martiri lasciavano sulla rampa di accesso alle camere a gas, gli ultimi beni posseduti, quel poco o pochissimo che restava loro dopo infinite perquisizioni e razzie. Finiva lì, davanti ai deportati che come lui erano stati addetti al lavoro di recupero beni in quella baracca dal nome inventato per ricordare la presunta ricchezza di un paese lontano e libero, il Canada, un nome che poi gli stessi aguzzini avevano adottato, finiva lì tutto ciò che rappresentava gli ultimi istanti di vita di milioni di persone destinate allo sterminio. E in quegli ultimi oggetti strappati di dosso a chi andava a morire era come vedere l’ultimo scempio. Perché tra le cose che più l’avevano riempito di orrore c’era anche la successiva, sistematica opera di spoliazione e di arricchimento personale di quegli aguzzini in divisa.
Il 12 dicembre del 1943 Davide Di Veroli era stato arrestato dai nazifascisti e rinchiuso in carcere a Firenze. Era sfuggito al rastrellamento del 16 ottobre al Ghetto dove era cresciuto e aveva cercato di mettersi in salvo abbandonando Roma. Braccato da quei figuri che oggi qualcuno ha tentato perfino di riabilitare, nazisti e repubblichini in combutta, era stato catturato a Firenze e dopo una breve detenzione in carcere era stato trasferito nel campo di smistamento di Fossoli, nel modenese, da cui partivano poi i convogli per i lager tedeschi. Davide Di Veroli era finito ad Auschwitz. Non sapeva allora che lì c’era anche il fratello «Leo», Leone Di Veroli, che avrebbe riabbracciato solo dopo la liberazione avvenuta per lui a Dachau il 29 aprile 1945. Ad Auschwitz aveva conosciuto una delle poche donne tornate poi a Roma, Ida Marcheria, sorella di Stella, allora quindicenne.
E Ida Marcheria, insieme a pochi altri sopravvissuti della Shoah, era martedì ad ascoltare la preghiera di Rav Riccardo Di Segni durante il funerale di Davide Di Veroli a Primaporta. Un giorno duro, difficile, doloroso. Il vecchio Mario Limentani, uno dei reduci dai campi di sterminio presenti, si è sentito male. Parole alte, quelle del Rabbino capo: «Non possiamo giudicare il dramma che questo uomo aveva dentro di sé. Queste sono ferite che non si rimarginano. Gli ebrei che vengono considerati oggi guerrieri supponenti ecco cosa sono. È talmente forte questa tragedia di ciò che è stato che noi la portiamo per sempre dentro…».
La portava dentro. Davide Di Veroli non aveva mai parlato in pubblico di Auschwitz. E con i pochi con cui ne aveva parlato in privato aveva ripetuto: «Nessuno, allora, mi ha aiutato …». Poi aveva accettato di rilasciare un’intervista a Marcello Pezzetti, direttore del Cdec, il Centro di documentazione ebraica. Non aveva voluto però essere ripreso. Un mese fa aveva poi chiesto a Pezzetti di poter vedere l’intervista del fratello Leo, scomparso. Ad Auschwitz un gruppo di rabbini che partecipavano a una visita, raggiunti dalla notizia della sua morte, ha intonato l’altro giorno il kaddish, la preghiera dei defunti, per lui.
Il Corriere della Sera, 25/05/2006