Sono nato in una piccola Comunità nella quale non vi era più una scuola ebraica. Io ne sentivo un immenso bisogno, così, nella prima metà degli anni ’70, ancora ragazzino e dopo aver trascorso 8 anni in una scuola statale, lasciai la mia casa e i miei genitori e mi trasferii a Roma. Fu per me molto difficile vivere da solo, senza nulla a soli 14 anni in una città grande e sconosciuta, ma avevo ancor più paura di perdere un giorno la mia identità ebraica e sentivo il bisogno di un bet hasèfer ha-yehudì e di un Collegio Rabbinico. Ancora oggi, dopo 50 anni, ringrazio il Signore per la mia scelta. Non vi sarà mai nel mio cuore una cosa più importante di una scuola ebraica.
La prima scuola ebraica nacque in terra di Israele circa 2000 anni fa grazie ad un’idea del Maestro Shim’òn Ben Shàtakh, attuata poi dal Cohèn Yehoshùa Ben Gamlà. Il Talmùd (Babà Batrà 21a) afferma: “Un tempo solo chi aveva un padre che impartiva la Torà poteva imparare e chi non aveva un padre capace di insegnare non poteva imparare la Torà. Yehoshua ben Gamlà allora ordinò che in ogni provincia e in ogni città si dovessero costruire delle scuole per permettere ai bambini fin dall’età di sei anni di imparare e crescere ebraicamente”. Il Talmùd allora sottolinea: Se non vi fosse stato Yehoshùa Ben Gamlà, la Torah sarebbe stata dimenticata dal popolo ebraico”.
Nulla in una Comunità è importante come una scuola ebraica nella quale i principi della nostra tradizione siano considerati fondamentali e vissuti da alunni di ogni età assieme ai loro insegnanti.
Rav Mordekhài Elihau, un tempo Rabbino Capo di Israele, mi raccontò che invitato all’inaugurazione di uno splendido bet hakenèset a Rechovòt, chiamò lo shammàsh per chiedergli di accendere altre luci perché il tempio era pressoché al buio. L’uomo rimase stupito. Il luogo aveva centinaia di lampade accese e la luce era fortissima. Rav Elihau rispose: “Eppure non ci vedo. Dev’essere per il fatto che non ci sono bambini e mi manca la luce”. Solo dopo l’arrivo dei bambini portati dai genitori il Rav iniziò il suo intervento.
Non è certo facile il rapporto con i ragazzi. Nella prima metà del ’900 Rav Shemuèl David Sobel, alunno di Rav Kook, pur essendo un ottimo docente, decise di smettere di insegnare ai bambini e ai ragazzi e di dedicarsi solo agli adulti. Quando gli fu chiesto il motivo della scelta rispose: “Ho capito di non essere un buon Maestro di bambini quando la sera tornavo a casa e non avevo dolori allo stomaco”. Un insegnante che non si sente talmente coinvolto nel presente e nel futuro dei propri alunni, che non ride con loro e non piange con loro, che non si dispera per i loro insuccessi che sono soprattutto i suoi e non si arrabbia con se stesso, non con gli alunni, fino al mal di stomaco per le cose che si potrebbero fare e non si riescono a fare, deve cambiar mestiere.
Rav Sobel imparò l’autocritica da un insegnamento di Rabbì Ishmaèl, grande maestro di giovani e adulti, che, rapito da bambino dai soldati dell’imperatore, visse parte della sua vita in una prigione di Roma. Rabbì Ishmaèl insegnava che ogni Maestro deve porsi continuamente in discussione, che non si deve mai incolpare per primo l’alunno di incapacità ma guardarsi nell’anima e considerare la propria. “Se non si trasmette all’altro” diceva “forse è perché non viviamo ciò che vogliamo trasmettere. Forse non ne siamo capaci. Forse, ma almeno si parta da questo dubbio”.
Penso che ogni insegnante dovrebbe tenere sempre a mente le parole che il rabbino Ariè Leb (1695 – 1785) scrisse nell’introduzione del suo libro Shaagàt Ariè: “Sono ormai molto anziano e so che non avrò più tempo per scrivere altre opere. Ho scritto per trasmettere il sapere ma sono certo che qualche passo l’ho composto affinché si notasse il livello della mia scienza. Lo so, dovrei cancellare queste pagine composte per orgoglio personale e lo farei con piacere, se solo sapessi in quale punto del libro esse si trovano. Ma sono comunque tranquillo. Saranno i lettori a cancellarle dal cuore e a dimenticarle, perché, come dicono i Maestri, solo gli insegnamenti che escono dal cuore rimangono nel cuore. Il resto cade nell’oblio, e nulla esce dal cuore se non viene vissuto in prima persona”.
I Maestri paragonano una scuola ad una Menorà, nella quale i tre lumi di destra e i tre lumi di sinistra volgono tutti verso un lume centrale. Nel libro “I valori dell’educazione” di Asher Molko, i lumi laterali potrebbero simboleggiare i diversi tipi di alunni. In ogni scuola si deve dare l’opportunità ad ogni studente che lo desidera di avere una propria personale conoscenza delle materie ebraiche.
Nella scuola di Roma da anni i ragazzi fin dalle elementari possono scegliere di seguire un progetto “Toranì” e di studiare Torà con un orario raddoppiato. Gli alunni che partecipano a tale progetto sono molti. Anche alla scuola Media e al Liceo i ragazzi hanno la possibilità di approfondire le proprie conoscenze seguendo un progetto denominato “Maskìl”. Ma ciò che è fondamentale è che ogni tipo di alunno, ogni lume della Menorà presente in una scuola, si unisca ai compagni di ogni classe e che vi sia sempre una reciproca collaborazione perché solo l’unione è la base per il futuro e l’eternità di Israele. Non è un caso che il lume centrale della Menorà non si doveva spegnere mai.
Concludo con una storia e con una lettera. La storia accadde molto tempo fa, a metà del 1700. Rabbì Chayìm da Wolozin narra un episodio della sua vita che credo sia illuminante. Questo grande Maestro quando ancora gli ebrei lituani per studiare riempivano piccole aule di sinagoghe spesso prive di libri e di sostentamento, ebbe l’idea di costruire la prima grande scuola rabbinica in Europa nella quale i giovani e meno giovani avrebbero potuto apprendere, dormire e mangiare senza attendere l’aiuto del benefattore di turno. Il progetto era ambizioso ma per essere attuato aveva bisogno dell’approvazione del rabbino Eliau da Vilna. Reb Chaiìm si recò dal suo anziano Maestro che gli negò, però, il proprio consenso. Passò un anno poi Rabbì Chayìm tornò dal Gaòn. Per favore, disse con dolore, gli alunni hanno bisogno di studiare, di crescere. Dammi il permesso di costruire una scuola. Il Gaòn lo guardò e gli chiese: “Che aspetti? Vai e fallo. Sei già in ritardo di un anno”. Rabbì Chayìm si stupì. “Un anno fa me lo vietasti e ora mi dici di correre?”. Rispose il Gaòn: “Un anno fa eri pieno di entusiasmo. Sappi che quando si parla di alunni bisogna avere soprattutto paura di sbagliare e non entusiasmo. Ricorda che quando si pensa ad un progetto per una Comunità di allievi l’esaltazione deve lasciar spazio alla paura di fallire o peggio di allontanare”. Rabbì Chayìm dovette attendere parecchio per perdere l’iniziale entusiasmo e per cominciare i lavori di costruzione della sua scuola. “Quando pose il primo mattone della nuova scuola – scrisse il figlio – mio padre piangeva così tanto che le lacrime avrebbero potuto sostituire l’acqua per fare la malta”. Oggi nel mondo le scuole rabbiniche si contano a centinaia.
E ora concludo con una piccola lettera. Ringrazio mia moglie per avermela fatta conoscere. È una lettera che ogni anno un Preside di un liceo americano mandava agli insegnanti, una lettera sempre uguale eppure sempre attuale.
Caro professore: Sono un sopravvissuto di un campo di sterminio. I miei occhi hanno visto cose che nessun essere umano dovrebbe mai vedere. Camere a gas costruite da ingegneri istruiti. Bambini uccisi con veleni da medici ben formati. Lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.
Questo deve essere il sogno di una scuola ebraica. Rendere i nostri alunni umani e con un gran cuore. Mi piace come finisce questa lettera: “rendere i nostri figli più umani”. Non i nostri allievi ma: “i nostri figli”. Un morè che non sente i propri alunni un po’ come dei figli non si metterà mai in discussione, non cercherà di migliorare, di trasmettere ciò che veramente ha e di cercare ciò che è nascosto negli altri. Ringrazio i genitori e soprattutto i “nostri figli” per avermi fatto tornare in questi anni spesso a casa con il mal di stomaco e per questo contento di essere un morè.
https://www.shalom.it/roma-ebraica/il-mal-di-stomaco-del-more-felice/