Ancora su Partigia di Sergio Luzzatto. Il “segreto brutto” di Primo Levi e le pieghe della storia italiana
Paolo L. Bernardini
Ci vollero quasi quarant’anni perché quel che era una guerra civile vera e propria venisse chiamata con il proprio nome. Lo fece uno storico di sinistra, Claudio Pavone, classe 1920, ex partigiano, in un volume del 1991, “Una guerra civile”. Prima, non era bello dirlo, ma che fosse una guerra civile non ci voleva molto per comprenderlo. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’Italia – quel che rimaneva, doverosamente e confusamente bipartita o tripartita – visse una guerra civile, le cui funeste appendici continuarono poi a lungo. Si sentiva parlare, bisbigliare quasi, di atrocità commesse dai partigiani ai danni dei fascisti dopo il 25 aprile, del “triangolo rosso” si parlava sottovoce e senza chiare cognizioni, non era una cosa erotica, ma certo era una cosa sporca, di cui se possibile non fare menzione, nei salotti buoni della buona borghesia “progressista e di sinistra”. Sinistra. Ne sentivamo parlare a scuola, ma sommessamente. I partigiani erano i buoni, anzi il Bene. Come è possibile che si siano macchiati di abomini quali stragi, torture, esecuzioni sommarie, macelli sistematici ed occasionali per diversi mesi (o anni?) dopo il fatidico 25 aprile? Sono nato e vissuto in una strada, via Rimassa, che porta il nome di un giovanissimo antifascista ucciso pochi giorni prima del 25 aprile, a vent’anni o forse meno. Ma poi è arrivato un altro libro, tardino, nel 2003 (!), “Il sangue dei vinti”, di Giampaolo Pansa, anche lui, classe 1935, filo-partigiano da sempre, per giunta. A quei libri ne seguirono altri, forse troppi altri, ma la strada era spianata. Il “triangolo rosso” esisteva eccome ma quanti altri acquitrini colore del sangue, nell’Italia… “libera”.
Con Pansa, con la “vulgata revisionista” (locuzione luzzattiana), con se stesso e con la propria giovinezza (la nostra, siamo coetanei e non solo coetanei, anche compagni di scuola e docenti della medesima materia), fa i conti in un libro molto bello e avvincente Sergio Luzzatto. Non stupisce che lo abbiano stroncato senza leggerlo i vari Gad Lerner &CO, gli ultimi difensori della vulgata resistenziale. Ma soprattutto Luzzatto fa i conti con Primo Levi, in “Partigia. Una storia della Resistenza”, appena uscito per Mondadori, e che consiglio vivamente, non solo a chi voglia sapere qualcosa di più sulla resistenza piemontese e valdostana agli esordi, ma a chi voglia entrare nelle pieghe anche oscure dell’animo umano, in quella “zona grigia” di cui parlava proprio Primo Levi, sapendo bene che anche lui nascondeva un segreto.
Neanche tanto nascosto, alla fine, se icasticamente ne parla (e dunque non ne tace) nell’autobiografia, “Il sistema periodico”. La brutta storia di due ragazzini partigiani, forse un po’ anarchici e picari, ma non banditi o criminali come Jules Bonnot, per intenderci, resi troppo arzilli dall’aria di montagna, di libertà, e dai fucili. La bruttissima storia della loro uccisione, “more sovietico”, una raffica di mitra alle spalle senza preavviso, per evitare l’angoscia dei preliminari d’ogni esecuzione insomma (che modello di pietas!), da parte della loro stessa banda, incluso Levi Primo, perché i due si stavano comportando male nei paesi a valle, e forse mettevano a rischio l’operare di questa banda debole, male addestrata, esordiente nel mondo (neonato) del partigianato, di breve vita, tre mesi appena, fino al rastrellamento del 13 dicembre 1943, che pose fine alle loro gesta e fece partire Levi per Auschwitz, con due compagne di cui una solo fece ritorno, scrivendo anche le proprie memorie.
Sergio Luzzatto conosce il mestiere. Ama Levi come quasi ognuno della generazione nostra, sotto choc alla notizia del suo suicidio, nell’aprile 1987, che colse Luzzatto studente di dottorato a Parigi e me studente di laurea allora alle prese con l’ultimo esame, teoria generale del diritto, a Genova. In qualche modo, questo libro ci porta in una storia straziante di buoni puniti e cattivi che la fanno franca, di collaborazionisti, spie, misteri, in cui entra pure l’oro di Dongo, finanche la misteriosa “capa della Gestapo” von Hodenberg, e una miriadi di personaggi aostani, torinesi, ebrei, della val d’Ayas, di Casale, del Piemonte tutto. Maestro nel seguire tracce forti o labilissime (a piedi, negli archivi, su internet) Luzzatto fa luce su moventi e personaggi, su intrecci e depistaggi, in una tragedia in tanti episodi, il primo in val d’Aosta, gli altri nell’Italia “libera” dal 1945 in poi. Segugio vero, gli duole solo di aver perso la pista del cacciatore di uomini saloino e genovese Cagni alias Redi, “nomen omen”, pessimo figuro, delatore, spia al soldo del fascio, di Salò e poi degli americani, che riesce a far perdere le proprie tracce, forse, a 95 anni, è ancora vivo, dopo averne fatto letteralmente di cotte e di crude. Probabilmente staziona in qualche girone infernale, ma alla fine poco importa.
E’ un libro ricco di spunti, anche per un lettore dell’Indipendenza, che magari vorrebbe che i morti riposassero in pace e poco gli cala dunque di vicende che sembrano sempre più remote, ora che tutti i protagonisti di quegli anni sono morti o in limine e che i nostri studenti non hanno neppur ben chiaro cosa voglia dire “partigiano”, e figuriamoci poi “repubblichino”. Vicende brutte di un’Italia bruttissima durante la guerra civile e impresentabile dopo. Spunti però che nascono dal fatto che gran parte di quelle vicende si svolgono in una Valle d’Aosta da sempre terra di confine: e che dopo la liberazione si trova davanti (come la Sicilia di Finocchiaro Aprile, ad esempio, ma non solo) ad una possibilità di libertà, che però non si realizza. La Vallée è tripartita, annessionisti (che vogliono la Francia), indipendentisti, e autonomisti (interessante, coloro che la vogliono al 100% italiana son pochini). E allora un grande storico, ma anche politico, Federico Chabod, ottiene l’autonomia: ma a spese, purtroppo, dell’indipendenza. E tra i partigiani valdostani v’era anche Alessandro Passerin d’Entrèves, classe 1905, coadiutore di Chabod, sostenitore dell’autonomismo, grande liberale, ma non v’è dubbio, e uomo di cultura infinita: ma occorre ricordarlo, per l’ennesima volta, anche in questo caso “autonomia” è diversa e opposta a “indipendenza”.
Repetita iuvant (speriamo…). Ma la libertà, l’indipendenza, che avrebbero potuto ben aver luogo dopo la guerra civile per alcune regioni in Italia, non solo non si realizzano (qualche giorno per Alba, se mai), ma i prefetti e le province che partigiani di sinistra e liberali e tanti, tantissimi, volevano veder abolite, simbolo del Fascio, simbolo dello Stato centrale, vennero rinforzate, anziché cancellate.
Se dunque anche Levi non è esente da macchia – oh come è scandaloso dirlo, per le vestali di un culto morto – Luzzatto forse avrebbe dovuto mostrarsi meno manicheo, certamente i partigiani lottavano assai spesso in buona fede e per grandi ideali (che non si realizzarono), ma se uno di loro, tradizionalmente il più puro e grande, il reduce di Auschwitz, il Testimone e il Giusto per eccellenza, Primo Levi, si è anch’egli macchiato di (inutile ed evitabile e duplice) omicidio, allora non si dovrebbe guardare con maggior indulgenza ai “saloini” tutti, ed umanizzarli (attribuendo anche a loro qualche buona intenzione) come si è umanizzato Levi e i partigiani (aliquando dormitat bonus Homerus si dice e allora non dormì assai spesso anche la coscienza dei liberatori nazionali)??.
Invece no. L’un campo, quello partigiano, è “il campo dell’umanità e del diritto”, quello di Salò della “disumanità e dell’abuso”. Insomma si cerca di venirne fuori, ma alla fine Salò è sempre quella delle orge fecali di Pasolini, il Male Assoluto. E se qualcuno anche sul lago di Garda fosse stato perbene e in buona fede? Non era forse davvero difficile scegliere, dopo l’8 settembre? Evidentemente, si faticava a scegliere (bene). Tra i maestri di Luzzatto nel suo apprendistato alla Normale di Pisa vi era anche Roberto Vivarelli. Classe 1929. A Salò credette con lo spirito di un ragazzino, e fu sommerso dalle polemiche quando lo confessò in un libro del 2000, “La fine di una stagione”, pubblicato da Il Mulino. Nel libro il suo nome non compare (anche se forse non vi è alcuna necessità che compaia…)
Il passato non sembra morire mai perché si ostina nell’agonia quell’Italia nata male non nel 1945,ma nel 1861, e che ogni volta che la storia le presenta un’occasione di palingenesi, come il 25 aprile 1945, non sa sfruttarla perché il vizio alla nascita ne condiziona del tutto il destino. Per cui, lasciamo davvero che i morti requiescant in pace. Tutto quel mondo è tramontato insieme ai suoi protagonisti, i vecchietti che con pietà e spirito investigativo Luzzatto è andato a scovare nei loro paeselli valdostani o nella Torino borghese. Per tanti aspetti, questo libro mi ha ricordato uno di Enzo Biagi, “Il crepuscolo degli dei”, che lessi adolescente nel 1975, ma che venne pubblicato per la prima volta nel 1965. Biagi andò a cercare i nazisti e le famiglie dei nazisti vent’anni dopo il 1945, e ne vennero fuori ritratti, alla fine, di “ordinary people”, la storia e il tempo fanno rimarginare anche le peggiori ferite, e alla fine tutti vogliono dimenticare, salvo coloro che poi ai nazisti diedero giustamente la caccia, perché l’omicidio non cade mai in prescrizione, e meno che mai quello di massa.
La storiografia deve indurre alla riflessione, e smuovere le coscienze. In questo, Luzzatto sa davvero fare il proprio mestiere. Ma il ritratto che di tutta l’Italia vien fuori è così deprimente, che conferma solo, alla fine, quel che già si percepisce, senza saperlo nei dettagli. Gli attacchi poi che ha ricevuto, da storici di batteria che candidamente hanno anche detto di non aver letto il libro, dicono essi stessi tutto. La Resistenza non è mai finita, perché ogni giorno, giorno dopo giorno, ci tocca resistere al tragico e al grottesco, malamente miscelati. In questo senso, sì, davvero, siamo tutti partigiani. Dalla “parte” dell’individuo. Che così poca attenzione ebbe tra 1943 e 1945, ma non ne ebbe, qui, molta di più, né prima, né dopo.
http://www.lindipendenza.com/primo-levi-segreto-luzzato-bernardini/
Con Pansa, con la “vulgata revisionista” (locuzione luzzattiana), con se stesso e con la propria giovinezza (la nostra, siamo coetanei e non solo coetanei, anche compagni di scuola e docenti della medesima materia), fa i conti in un libro molto bello e avvincente Sergio Luzzatto. Non stupisce che lo abbiano stroncato senza leggerlo i vari Gad Lerner &CO, gli ultimi difensori della vulgata resistenziale. Ma soprattutto Luzzatto fa i conti con Primo Levi, in “Partigia. Una storia della Resistenza”, appena uscito per Mondadori, e che consiglio vivamente, non solo a chi voglia sapere qualcosa di più sulla resistenza piemontese e valdostana agli esordi, ma a chi voglia entrare nelle pieghe anche oscure dell’animo umano, in quella “zona grigia” di cui parlava proprio Primo Levi, sapendo bene che anche lui nascondeva un segreto.
Neanche tanto nascosto, alla fine, se icasticamente ne parla (e dunque non ne tace) nell’autobiografia, “Il sistema periodico”. La brutta storia di due ragazzini partigiani, forse un po’ anarchici e picari, ma non banditi o criminali come Jules Bonnot, per intenderci, resi troppo arzilli dall’aria di montagna, di libertà, e dai fucili. La bruttissima storia della loro uccisione, “more sovietico”, una raffica di mitra alle spalle senza preavviso, per evitare l’angoscia dei preliminari d’ogni esecuzione insomma (che modello di pietas!), da parte della loro stessa banda, incluso Levi Primo, perché i due si stavano comportando male nei paesi a valle, e forse mettevano a rischio l’operare di questa banda debole, male addestrata, esordiente nel mondo (neonato) del partigianato, di breve vita, tre mesi appena, fino al rastrellamento del 13 dicembre 1943, che pose fine alle loro gesta e fece partire Levi per Auschwitz, con due compagne di cui una solo fece ritorno, scrivendo anche le proprie memorie.
Sergio Luzzatto conosce il mestiere. Ama Levi come quasi ognuno della generazione nostra, sotto choc alla notizia del suo suicidio, nell’aprile 1987, che colse Luzzatto studente di dottorato a Parigi e me studente di laurea allora alle prese con l’ultimo esame, teoria generale del diritto, a Genova. In qualche modo, questo libro ci porta in una storia straziante di buoni puniti e cattivi che la fanno franca, di collaborazionisti, spie, misteri, in cui entra pure l’oro di Dongo, finanche la misteriosa “capa della Gestapo” von Hodenberg, e una miriadi di personaggi aostani, torinesi, ebrei, della val d’Ayas, di Casale, del Piemonte tutto. Maestro nel seguire tracce forti o labilissime (a piedi, negli archivi, su internet) Luzzatto fa luce su moventi e personaggi, su intrecci e depistaggi, in una tragedia in tanti episodi, il primo in val d’Aosta, gli altri nell’Italia “libera” dal 1945 in poi. Segugio vero, gli duole solo di aver perso la pista del cacciatore di uomini saloino e genovese Cagni alias Redi, “nomen omen”, pessimo figuro, delatore, spia al soldo del fascio, di Salò e poi degli americani, che riesce a far perdere le proprie tracce, forse, a 95 anni, è ancora vivo, dopo averne fatto letteralmente di cotte e di crude. Probabilmente staziona in qualche girone infernale, ma alla fine poco importa.
E’ un libro ricco di spunti, anche per un lettore dell’Indipendenza, che magari vorrebbe che i morti riposassero in pace e poco gli cala dunque di vicende che sembrano sempre più remote, ora che tutti i protagonisti di quegli anni sono morti o in limine e che i nostri studenti non hanno neppur ben chiaro cosa voglia dire “partigiano”, e figuriamoci poi “repubblichino”. Vicende brutte di un’Italia bruttissima durante la guerra civile e impresentabile dopo. Spunti però che nascono dal fatto che gran parte di quelle vicende si svolgono in una Valle d’Aosta da sempre terra di confine: e che dopo la liberazione si trova davanti (come la Sicilia di Finocchiaro Aprile, ad esempio, ma non solo) ad una possibilità di libertà, che però non si realizza. La Vallée è tripartita, annessionisti (che vogliono la Francia), indipendentisti, e autonomisti (interessante, coloro che la vogliono al 100% italiana son pochini). E allora un grande storico, ma anche politico, Federico Chabod, ottiene l’autonomia: ma a spese, purtroppo, dell’indipendenza. E tra i partigiani valdostani v’era anche Alessandro Passerin d’Entrèves, classe 1905, coadiutore di Chabod, sostenitore dell’autonomismo, grande liberale, ma non v’è dubbio, e uomo di cultura infinita: ma occorre ricordarlo, per l’ennesima volta, anche in questo caso “autonomia” è diversa e opposta a “indipendenza”.
Repetita iuvant (speriamo…). Ma la libertà, l’indipendenza, che avrebbero potuto ben aver luogo dopo la guerra civile per alcune regioni in Italia, non solo non si realizzano (qualche giorno per Alba, se mai), ma i prefetti e le province che partigiani di sinistra e liberali e tanti, tantissimi, volevano veder abolite, simbolo del Fascio, simbolo dello Stato centrale, vennero rinforzate, anziché cancellate.
Se dunque anche Levi non è esente da macchia – oh come è scandaloso dirlo, per le vestali di un culto morto – Luzzatto forse avrebbe dovuto mostrarsi meno manicheo, certamente i partigiani lottavano assai spesso in buona fede e per grandi ideali (che non si realizzarono), ma se uno di loro, tradizionalmente il più puro e grande, il reduce di Auschwitz, il Testimone e il Giusto per eccellenza, Primo Levi, si è anch’egli macchiato di (inutile ed evitabile e duplice) omicidio, allora non si dovrebbe guardare con maggior indulgenza ai “saloini” tutti, ed umanizzarli (attribuendo anche a loro qualche buona intenzione) come si è umanizzato Levi e i partigiani (aliquando dormitat bonus Homerus si dice e allora non dormì assai spesso anche la coscienza dei liberatori nazionali)??.
Invece no. L’un campo, quello partigiano, è “il campo dell’umanità e del diritto”, quello di Salò della “disumanità e dell’abuso”. Insomma si cerca di venirne fuori, ma alla fine Salò è sempre quella delle orge fecali di Pasolini, il Male Assoluto. E se qualcuno anche sul lago di Garda fosse stato perbene e in buona fede? Non era forse davvero difficile scegliere, dopo l’8 settembre? Evidentemente, si faticava a scegliere (bene). Tra i maestri di Luzzatto nel suo apprendistato alla Normale di Pisa vi era anche Roberto Vivarelli. Classe 1929. A Salò credette con lo spirito di un ragazzino, e fu sommerso dalle polemiche quando lo confessò in un libro del 2000, “La fine di una stagione”, pubblicato da Il Mulino. Nel libro il suo nome non compare (anche se forse non vi è alcuna necessità che compaia…)
Il passato non sembra morire mai perché si ostina nell’agonia quell’Italia nata male non nel 1945,ma nel 1861, e che ogni volta che la storia le presenta un’occasione di palingenesi, come il 25 aprile 1945, non sa sfruttarla perché il vizio alla nascita ne condiziona del tutto il destino. Per cui, lasciamo davvero che i morti requiescant in pace. Tutto quel mondo è tramontato insieme ai suoi protagonisti, i vecchietti che con pietà e spirito investigativo Luzzatto è andato a scovare nei loro paeselli valdostani o nella Torino borghese. Per tanti aspetti, questo libro mi ha ricordato uno di Enzo Biagi, “Il crepuscolo degli dei”, che lessi adolescente nel 1975, ma che venne pubblicato per la prima volta nel 1965. Biagi andò a cercare i nazisti e le famiglie dei nazisti vent’anni dopo il 1945, e ne vennero fuori ritratti, alla fine, di “ordinary people”, la storia e il tempo fanno rimarginare anche le peggiori ferite, e alla fine tutti vogliono dimenticare, salvo coloro che poi ai nazisti diedero giustamente la caccia, perché l’omicidio non cade mai in prescrizione, e meno che mai quello di massa.
La storiografia deve indurre alla riflessione, e smuovere le coscienze. In questo, Luzzatto sa davvero fare il proprio mestiere. Ma il ritratto che di tutta l’Italia vien fuori è così deprimente, che conferma solo, alla fine, quel che già si percepisce, senza saperlo nei dettagli. Gli attacchi poi che ha ricevuto, da storici di batteria che candidamente hanno anche detto di non aver letto il libro, dicono essi stessi tutto. La Resistenza non è mai finita, perché ogni giorno, giorno dopo giorno, ci tocca resistere al tragico e al grottesco, malamente miscelati. In questo senso, sì, davvero, siamo tutti partigiani. Dalla “parte” dell’individuo. Che così poca attenzione ebbe tra 1943 e 1945, ma non ne ebbe, qui, molta di più, né prima, né dopo.
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