Il popolo ebraico è presentato come il “Popolo del libro” ed allora, dopo aver riflettuto lungamente su come presentare questa lezione, ho deciso che la cosa migliore è quello di fare ciò che più mi è congeniale, ossia leggere e commentare un passo del Libro per eccellenza, la Torà (il Pentateuco).
Ma prima permettetemi di fare una breve premessa. I Maestri del Talmùd e del Midrash discussero in passato sul momento in cui la Torà venne scritta e consegnata al popolo ebraico. Alcuni tra loro, ritennero che la Torà fosse stata scritta gradualmente e che i brani che la compongono siano stati cuciti assieme solo prima dell’entrata degli ebrei nella terra di Israele. Altri pensarono che Mosè avesse scritto il Pentateuco soltanto poco tempo prima di morire, dopo quarant’anni di permanenza degli ebrei nel deserto (T.B. Ghittìn 60A).
Difficile decidere quale delle due opinioni sia la più autorevole ma quello che a me sembra qui importante, è sottolineare che i commentatori antichi si trovano concordi sul fatto che la Torà venne consegnata agli ebrei solo molto tempo dopo la loro uscita dall’Egitto e che molti di essi, morti durante il tragitto verso la terra di Israele, non ebbero neppure il tempo di vederla.
È come se Dio stesso avesse voluto insegnare al popolo di Israele a vivere per almeno quarant’anni senza un libro, o perlomeno senza un libro completo, forse per abituarlo ad ascoltare soprattutto la voce di Mosè, del Maestro per eccellenza. Ma questo sarà proprio il tema della mia lezione.
Il primo passo della Sacra Scrittura che gli ebrei ricevettero per iscritto è quello composto dai “Dieci detti”, più comunemente conosciuti come i “Dieci Comandamenti”. Cercherò allora di commentare l’episodio della Torà che porta Israele a ricevere questo brano della Torà.
Iniziamo dal momento in cui il popolo ebraico si trova sotto il monte Sinai e ascolta – in parte dalla voce di Dio e in parte dalla voce di Mosè – i Dieci comandamenti. Si faccia qui attenzione: prima di vedere qualcosa di scritto gli ebrei devono saper ascoltare (il problema dell’ascolto è un tema ricorrente nella tradizione ebraica, lo tratteremo brevemente in seguito). Solo dopo di ciò Mosè salì sul monte Sinai per ricevere questi statuti scritti direttamente dalla mano di Dio. A questo punto leggiamo pure un primo versetto:
“Le tavole del patto (Tavole della legge) erano opera di Dio, e la scrittura era la scrittura di Dio scolpita su di esse” (Esodo XXXII, 16).
Che cosa spinge Dio a scrivere? Perché non affidare l’intera opera della Torà alla mano del fedele servitore Mosè. Dio non è forse eterno e al di sopra di ogni concezione di tempo e di spazio? La scrittura, con le sue forme ben definite, non è forse una limitazione all’interno di forme spaziali di concetti esprimibili nella loro completezza solamente attraverso l’oralità? Di questo problema si occuparono molti dei più grandi pensatori ebrei di tutte le epoche.
S. R. Hirsh, ritiene che la scrittura divina scolpita sulle tavole della legge, o come dice la stessa Torà Charùt ‘al Haluchòt (stampata sulle tavole), avesse di per se degli elementi miracolosi. Le tavole erano traforate e alcune lettere si libravano nell’aria, come se non fossero legate al mondo della materia. Lo scritto poi poteva essere letto da qualsiasi parte lo si guardasse, come se degli specchi inseriti dalla sapiente mano di un artigiano potessero permettere a ogni lettore di rimanere fermo in un posto diverso, eppure di leggere perfettamente le parole scolpite nella roccia. Così con un gioco di parole il Midrash modifica i termini del versetto Charùt‘al Haluchòt con Cherùt al Haluchòt, ossia “Libertà sulle tavole”, come a sottolineare che la scrittura divina, al contrario di quella umana, è totalmente libera da ogni limite. Il senso di questo commento ci sembra chiaro. Ogni scritto ha un legame con la superficie che lo supporta. Questa superficie per i Maestri simboleggia ogni spazio e ogni tempo, per cui il concetto che la scrittura esprime può cambiare in rapporto al posto e al tempo in cui esso viene presentato e può, così, essere anche negato o sostituito in parte. Ma la scrittura divina è posata su infinite superfici che intersecandosi definiscono l’intero universo e lo scioglimento di ogni limite spazio-temporale e, in quanto tale, essa è al riparo da ogni errore ed eternamente moderna.
Se l’uomo avesse visto quelle tavole, almeno per un solo istante, forse l’intera umanità sarebbe cambiata e molti dei segreti del mondo sarebbero stati svelati. Ognuno, nessuno escluso, avrebbe potuto comprendere il pensiero divino dal suo posto, ossia da solo, senza paura di sbagliare, senza bisogno di una guida, di un Maestro. Un mondo di alunni smarriti e analfabeti si sarebbe come per incanto trasformato in un consesso di professori le cui discussioni avrebbero avuto come unico scopo il desiderio di migliorare sempre di più il creato, e non di distruggerlo.
Torniamo al monte Sinai. Il Testo narra che mentre Mosè si trovava ancora sul monte, il popolo ebraico si costruì come idolo un vitello d’oro, non tanto (o non solo) per sostituire Dio con una statua, ma per sostituire soprattutto Mosè che mancava ormai da troppo tempo. Questo è il più grave atto di idolatria che si possa commettere: farsi un uomo come idolo.
Dio, dunque, consegnò le Luchòt Haberìt, le tavole della legge, a Mosè affinché le portasse al popolo ebraico, dopo averlo reso edotto del peccato commesso da una parte del popolo di Israele. Un midràsh di difficile interpretazione immagina che in realtà Mosè non ricevette queste tavole ma che dovette strapparle con forza dalle mani di Dio che ritenendo l’uomo ormai indegno di ricevere i Suoi comandamenti aveva espresso il desiderio e la necessità di distruggerle. Secondo tale parabola, dopo aver preso con violenza le tavole dalle mani del Creatore, Mosè affermò con orgoglio: “Adesso ciò che Tu hai scritto è in mano mia”. Non è certo intenzione dei Maestri del midràsh quello di presentare un fatto realmente accaduto. La lotta qui descritta altro non è che il desiderio immenso che spinge Mosè a chiedere con forza a Dio il permesso -poi accordato- di portare ai figli di Israele un primo passo della Torà. Ma continuiamo il racconto così come viene presentato dalla Scrittura:
Ora, quando Mosè si avvicinò all’accampamento e vide il vitello e le danze, si accese il suo sdegno, gettò dalle sue mani le tavole, mandandole in pezzi ai piedi del monte (Esodo XXXII, 19).
Mosè, dunque, dopo esser disceso dal Sinai trova effettivamente che gli ebrei stavano adorando un vitello d’oro e decide di spezzare ai loro occhi le tavole della legge. I commentatori a questo punto si chiedono che cosa abbia indotto Mosè a distruggere il testo sacro che Dio gli aveva concesso, e soprattutto, perché combattere per impossessarsi di un “libro” sapendo a priori di doverlo poi rompere per vietarne la lettura al popolo ebraico che stava commettendo un grave peccato. Le risposte dei Maestri a riguardo sono molte ma in questo contesto ne riporteremo solo una piccola parte. Alcuni vedono nella “Tavole della legge” una sorta di contratto matrimoniale che, sancisce il legame tra il popolo ebraico e di Dio. Spezzando questo “contratto” – che tra l’altro vieta ogni forma di idolatria – prima che Israele ne entri in possesso, Mosè avrebbe cercato di salvare la vita del popolo ebraico. Parafrasando un midràsh Mosè avrebbe detto a Dio:
“Ora Tu non puoi più considerare il popolo ebraico colpevole di tradimento poiché il matrimonio non è ancora avvenuto. Certo, i comandamenti Israele li aveva ascoltati ed accettati, ma a voce non si contraggono matrimoni. Ci vuole un contratto e questo non esiste più, io l’ho spezzato e gli ebrei non lo hanno potuto vedere. Del resto non potevo certo lasciare la traccia di questo scritto nelle Tue mani. Non ho potuto fare altro che strapparlo con forza e portartelo via. Ora, se devi punire qualcuno, bene, questo sono io e nessun altro” (sull’amore di Mosè verso il popolo ebraico torneremo più avanti).
Il rabbino Meìr Israel di Dwinsk sostiene, invece, che Mosè abbia compiuto questo gesto anche per dimostrare al popolo ebraico che quando manca la giusta predisposizione da parte dell’uomo a capire ciò che Dio vuole trasmettere, ogni passo della Scrittura, anche anche se scritto dalla mano del Creatore, non ha ragione di essere letto e per tanto di esistere. Insomma, anche le tavole della Legge, per quanto scritte da Dio, possono essere spezzate quando non vi è un uomo capace di renderle effettivamente sacre attraverso l’azione e il pensiero.
L’ultimo commento che vorrei qui riportare, in parte legato a quello precedente, ritiene che queste tavole dovevano per forza essere spaccate, per mostrare agli ebrei che quelle tavole erano troppo perfette per essere capite fino in fondo da chi ha commesso il peccato dell’idolatria. Un oggetto troppo perfetto, se donato ad una persona inadatta a possederlo può diventare inutile e un insegnamento trasmesso a persone poco inclini a riconoscerne l’importanza può diventare deleterio. Riguardo a ciò già il Maimonide scriveva:
Israele non credette in Mosè per i prodigi che egli fece, poiché chi crede nei prodigi avrà poi dei ripensamenti e credere che il prodigio sia stato in realtà un atto di magia o di stregoneria (Yesodé Hatorà, XIII, 1).
Israele non ha mai basato la propria fede sui miracoli. A un profeta non viene chiesto di agire contro natura, ma di saper trasmettere con saggezza e umiltà quanto Dio gli ha fatto conoscere, e di non negare mai la validità di tutti i comandamenti scritti nella Torà. Dio sa bene che un miracolo, per quanto grande, raramente può aiutare ad acquistare la fede poiché, prima o poi, la razionalità della mente porterà l’uomo ad avere dei ripensamenti e a cercare in sé delle motivazioni che lo inducano a negare l’esistenza dei prodigi.
Mosè, dunque, deve spezzare le Tavole perché esse sono un’opera scritta direttamente da Dio; sono un miracolo. Il popolo ebraico, con il vitello d’oro, aveva dimostrato di non essere ancora pronto per vedere un avvenimento così grande e che prima o poi avrebbe messo in dubbio la sacralità dei comandamenti.
Quale fu la reazione divina all’azione di Mosè? Nella Torà non si parla di alcuna punizione o critica. Al contrario, con una deduzione analogica i commentatori classici, come ad esempio Rashì, fanno notare che la Torà si conclude proprio con il ricordo della rottura delle Tavole del patto e che Dio si sia addirittura complimentato con Mosè dicendogli: “Hai fatto bene a spezzare quelle tavole”.
Torniamo al testo della Torà. Dopo aver spezzato il primo frammento del libro sacro, il passo in questione narra che Mosè salì una seconda volta sul Sinai dove gli fu proposto di assistere alla distruzione di Israele e di diventare il condottiero di un altro popolo. La risposta di Mosé è chiara:
“Se questa è la tua decisione, io ti prego di cancellarmi dal libro che hai scritto”
Ancora una volta si parla nella Sacra Scrittura di un libro. Però l’unico libro che era stato scritto finora erano le tavole della legge che erano state spaccate, quindi Mosè chiede di essere cancellato da un libro che non esiste e i commentatori della Torà cercheranno di capire l’assurda e inutile richiesta di Mosè; torneremo più avanti su questo problema.
Mosè, dunque, chiede di morire, non vuole un altro popolo, nel testo principale della mistica ebraica, lo Zòhar, spesso citato ma assai poco conosciuto, si afferma che Mosè guardò dentro di sé risvegliando tutta la sua forza di profeta per cercare nel futuro un peccato di idolatria commesso da qualche suo discendente e poter dire a Dio: “Se tu distruggi il popolo ebraico perché ha commesso un peccato devi uccidere anche me perché prima o poi genererò un uomo che commetterà un peccato simile a quello che hanno commesso i miei fratelli”. Lo Zòhar ritiene che in quel momento le ossa di Mosé diventarono di fuoco (un’immagine, per noi che non siamo cabalisti, assai difficile da comprendere) forse per dire che la sua ricerca, andata a buon fine, lo bruciò internamente facendogli scoprire una terribile realtà che gli darà però la possibilità di poter dire “Io voglio stare con il popolo ebraico, unito a lui nella vita e nella morte”. Qui la grandezza di Mosè si vede nel cercare dentro di sé qualcosa che lo unisca al popolo ebraico anche quando staccarsene farebbe molto comodo.
Dio, allora, concede a Mosè di riprendere delle nuove tavole della legge karishonìm, ossia uguali alle precedenti, e di portarle al popolo ebraico dopo un periodo di purificazione. Eppure queste tavole e i comandamenti in esse contenuti non saranno come le precedenti. Innanzi tutto la pietra questa volta non fu scolpita da Dio ma da Mosé inoltre i dieci Comandamenti (secondo vari commentatori, scritti da Mosè e non da Dio, come i primi) che il profeta ascolta per la seconda volta sono in varie parti diversi dai primi, ci sono parole in più oppure delle omissioni, alcune norme sono presentate addirittura con parole diverse. Con un paradosso si potrebbe dire che i dieci comandamenti scolpiti da Mosè sono più lunghi e precisi, anche se meno perfetti di quelli scritti da Dio, eppure ugualmente Carishonìm.
Credo che la risposta a questo problema stia nel proseguimento della narrazione della Torà. Prima di scendere dal monte Sinai per recarsi dal popolo ebraico, Mosè ascolta dalla voce di Dio i divieti riguardanti l’idolatria, le norme delle feste e alcune regole alimentari e l’ordine di scrivere tutto ciò che egli aveva ascoltato. Leggiamo quest’ultimo passo che ritengo di fondamentale importanza:
“Il Signore disse a Mosè metti per iscritto queste parole perché precisamente a queste condizioni concludo un’alleanza con te e con tutto Israele”.
Anche in questo caso ci dobbiamo avvalere del commento rabbinico tradizionale. Il Midràsh fa notare che le parole del versetto “‘Al Pi”, che abbiamo qui tradotto secondo l’usanza più comune con: “… precisamente a queste condizioni” derivano in realtà dall’espressione ebraica “‘Al Pe” che significa: oralmente. Se rileggiamo ora il versetto alla luce di questo commento scopriremo che il senso dell’ordine divino è completamente diverso da quello riportato in precedenza:
“Il Signore disse a Mosè metti per iscritto queste parole, ma solo su ciò che si imparerà oralmente Io concludo un’alleanza con te e con tutto Israele”.
Quindi, sul monte Sinai Dio avrebbe detto a Mosè: “Scrivi quello che ti ho detto, scrivi tutto, ma sappi che noi stipuliamo un patto solo su ciò che tu e il resto del popolo imparerete e trasmetterete ai posteri oralmente”. Dunque, ciò che rende unico Israele ed eternamente unito a Dio, è la sua capacità di parlare, di commentare quanto è scritto nella Torà e di trasmettere un insegnamento alle generazioni successive. Credo che questo sia il senso più profondo delle seconde Tavole della legge scritte da Mosè, diverse dalle prime che erano totalmente divine eppure uguali ad esse.
Ciò che Mosè scolpì nelle seconde tavole non fu quanto aveva sentito dalla voce di Dio ma il commento di quanto aveva ascoltato la prima volta che salì sul monte Sinai. Così, il primo passo di Torà ricevuto e rispettato da tutto Israele non è la copia di quello che Dio aveva già scritto, bensì il pensiero di un Maestro che attraverso il proprio lavoro e la propria mente riesce a riscoprire ciò che Dio aveva un tempo trasmesso.
Parafrasando ancora una volta un pensiero rabbinico Mosè, nel momento in cui consegnò le ultime tavole della legge, avrebbe detto al popolo ebraico: “Solo io ho potuto vedere quello che Dio aveva scritto, ma nel momento in cui ho spezzato questo libro mi sono dimenticato le stesse identiche parole che avevo ascoltato. Ma sul monte Sinai ho imparato una cosa fondamentale, che attraverso il commento ognuno di noi ha la possibilità di riportare in vita ciò che sembra non esistere più. Per cui questi Comandamenti che io vi consegno sono realmente Carishonìm, come i primi che voi mi avete costretto a rompere”.
Dunque è vero che il popolo ebraico è definito il “popolo del libro”, ma non il popolo del Libro che Dio ha scritto, ma il popolo di un libro che esso sa riscrivere, per riuscire a ritrovare il significato che, usando una frase dello Zòhar, è nascosto nel bianco di una pergamena.
Il patto tra Dio e il popolo ebraico è dunque sulla trasmissione orale. Perché è necessario stabilire questo patto su qualcosa che non è scritto? In altre parole, se la grandezza dell’uomo sta nella sua capacità di capire e rielaborare il messaggio divino, perché non scrivere tutto ciò che egli ha scoperto? Perché c’è la necessità di trasmettere a voce quanto si è imparato, con il rischio di rivolgersi ad un limitato numero di persone? Secondo il Talmud, Dio sapeva bene che un giorno i popoli del mondo avrebbero chiesto di tradurre la Torà e il commento dei Maestri di Israele che in tal modo sarebbe diventato di pubblico dominio. Ma un vero patto, un legame matrimoniale come quello tra Dio e il popolo ebraico, che come le tavole della legge a volte si spezza ma per essere poi ricostruito, si deve basare sul segreto, sulla conoscenza intima e profonda delle due parti e tale conoscenza non può essere divulgata. Questo può suonare offensivo, ma non vuol dire che noi ebrei non rendiamo manifesto il commento alla Scrittura solo per precluderne l’accesso ai Gentili. La paura dei Maestri di Israele è che lo studio della Torà diventi solo e semplice cultura, filosofia o ricerca storica. Per noi il commento non è cultura, è vita, e tutto lo studio ed il commento è per sapere come questo Libro va vissuto. Ecco perché, prima di spingere Mosè al commento Dio sul monte Sinai gli trasmette delle regole, delle norme alimentari, sulle feste, sull’idolatria e, secondo un passo del Midràsh, 613 precetti e le altre leggi divine che gli ebrei impareranno in tutte le generazioni future. La Torà è innanzitutto un libro da rispettare e ogni studio, ogni commento deve essere finalizzato a questo. Ma gli altri popoli non devono rispettare i precetti della Torà, o per lo meno non così tanti, e il commento rabbinico per loro diverrebbe pura e semplice scienza, spesso così lontana dal normale modo di pensare da essere definita assurda e inconcludente. Talvolta la cultura non crea ma distrugge, conoscere il commento di questo Libro quando non è tuo perché non è vissuto da te, conosciuto nelle sue linee generali, ma rifiutato nella pratica vuol dire rovinare in qualche modo un patto, e non crearlo. Allora noi ebrei non siamo il popolo del libro, siamo il popolo che scrive un commento al libro o, meglio, che cerca di non scrivere nulla e che passa il suo commento di padre in figlio, di maestro in allievo sulla base dell’oralità.
I Maestri sono coscienti che in questo modo anche la gran parte del popolo ebraico potrebbe essere esclusa dalla possibilità di comprendere il senso profondo della Torà ma, per assurdo, l’importanza della trasmissione sta proprio in questo rischio. Per trasmettere oralmente i valori e l’identità ebraica ai propri figli, ai propri allievi e alla comunità intera, è necessario che ogni ebreo si impegni con tutte le sue forze affinché il messaggio sia forte e chiaro, eternamente valido e capito nella sua integrità, ed è proprio quest’impegno il garante della continuità di Israele. Solo la parola può assolvere a questo compito e non uno scritto. Credo che la fine del brano della scrittura che abbiamo commentato quest’oggi esprima implicitamente questo concetto.
Ora quando Mosè scese dal monte, avendo in mano le due tavole della Testimonianza, egli non sapeva che la pelle del suo volto era divenuta risplendente dopo che il Signore gli aveva parlato. Aaron e tutti i figli di Israele riguardando Mosè, videro che la pelle del suo volto risplendeva e non osavano avvicinarsi a lui (…) Mosè dopo aver terminato di parlare con loro si coprì la faccia con un velo.
Mosè sul monte Sinai ha capito che il futuro del popolo ebraico dipenderà da lui, dalla sua capacità di saper trasmettere ciò che ha imparato da Dio e questo ha dato al suo volto una luce particolare, la luce che proviene dalla sua anima e che simboleggia la forza che egli ha acquisito per illuminare la strada di Israele. Ma gli ebrei hanno paura ad avvicinarsi a lui, hanno paura del suo volto, forse di ciò che quel volto rappresenta, hanno timore di non essere all’altezza del compito che il Profeta ha riservato a loro, quello di scoprire il volere di Dio e di doverlo trasmettere alla storia. Mosè era così costretto a celare il suo volto ma quando egli doveva parlare con il popolo, quando doveva insegnare, si toglieva il velo. Questo episodio ha un grande valore simbolico. Un maestro, per trasmettere realmente il proprio insegnamento, deve essere unito ai suoi alunni, deve mostrare l’espressione del suo volto, il suo sguardo, deve far sentire il timbro della sua voce e accompagnare la sua parola con dei gesti spontanei. Un maestro, un vero maestro, deve vivere ciò che insegna e non limitarsi a predicare mostrando la parte falsa, potremmo dire la maschera, di se stesso. Lo scrivere è una maschera, vuol dire dare parole prive di anima, senza timbro di voce, senza sguardo, senza gesti, e ciò è inaccettabile. Per questo Mosè è il più grande dei profeti, perché sapeva parlare con il popolo mostrando il suo vero volto.
Non abbiamo risposto ad un ultima domanda. Quando Dio propose di sostituire Israele con un altro popolo Mosè rispose: “Cancellami dal libro che hai scritto”. Non sappiamo da quale libro, non era stato scritto niente. Molti secoli più tardi i maestri della mistica ebraica diranno:
“Questo libro non è altro che il popolo ebraico. Israele e la Torà sono la stessa cosa”.
Difficile capire questo pensiero. Forse ciò significa che se viene a mancare il popolo ebraico viene a mancare la ragione stessa della Scrittura e quindi popolo ebraico e Torà sono la stessa cosa, vivono assieme o muoiono insieme. Nel momento in cui viene a mancare la capacità di ricreare, di trasmettere di soffrire per capire ciò che è scritto, viene a mancare anche il senso di ciò che Dio ha consegnato. Il popolo ebraico allora è come la Torà, un libro che va studiato, che spesso si capisce, a volte non si capisce e si critica ma che deve vivere per il proprio bene, per l’esistenza e il senso più intimo e profondo della Scrittura e per il bene di tutta l’umanità.
Rav R. Colombo