A 14 anni dal mockumentary di culto, l’attore riprende (a sorpresa) il più debordante dei suoi personaggi. Che aveva già previsto tutto: anche l’America di Trump
Dunque, il film parla di… Ma è importante di che parla? È Borat! E il titolo completo di questo sequel, Borat – Seguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan (disponibile su Amazon Prime Video), dice già tutto da solo. Sono passati quattordici anni da quando Borat Sagdiyev (Sacha Baron Cohen) è sbarcato negli States e ha sputtanato i valori americani, facendo a pezzi cimeli dei Confederati da 400 dollari, portando una busta piena di cacca in un ristorante stellato e gridando, in un negozio di armi da fuoco, «Eddai, fammi contento, ebreo!», alla maniera del suo eroe, l’ispettore Callaghan di Clint Eastwood.
Era il 2006… quante vite fa? Nel clima politico e culturale di oggi, un’eternità. E anche nella vita dello stesso Borat Sagdiyev. Dopo essere diventato lo zimbello del suo Paese natale, il Kazakistan, in questo nuovo film – una cosa che nessuno aveva previsto, ma che in questo preciso momento sembra assolutamente necessaria – fa di tutto per rimediare. La sua missione – non ha nessuna scelta se non quella di accettarla – è rimettere la sua nazione sullo scacchiere internazionale facendo ammenda di fronte agli Stati Uniti. E portando un “regalino sexy” a un membro dell’amministrazione Trump, nella fattispecie il “Vice Prenditore-Di-Donne-Per-La-Passera” Mike Pence. In teoria, quel regalino sarebbe dovuto essere una scimmietta sexy. Diciamo solo che il primate rimane vittima delle complicazioni di un lungo viaggio intercontinentale. Non è dunque un sollievo per tutti che Borat abbia una giovane figlia “che sta per diventare bellissima”? Cioè il perfetto specchietto per le allodole agli occhi di un Paese che, come chiunque potrebbe presumere, è però troppo intelligente per cascarci.
Ecco, diciamo che le cose sono un po’ cambiate. Per prima cosa, il Borat originale è stato un successo internazionale, il che vuol dire che, nel 2020, il personaggio viene riconosciuto per strada; cosa che succede allo stesso Cohen, un “ex pensionato” come Jay-Z e Steven Soderbergh che ha poi deciso di tornare sui suoi passi. Non solo è tornato, ma è meglio di prima. Al posto del suo vecchio compagno di viaggio Azamat, troviamo sua figlia Tutar Sagdiyev (Maria Bakalova), che però preferisce farsi chiamare Sandra Jessica Parker Sagdiyev (grazie di cuore). E poi vengono le peripezie, le battute, i disastri lungo la strada. Borat 2 è modellato come il precedente, il che fa sembrare l’originale ancora più profetico: se lo facessero uscire oggi, sembrerebbe ancora un affresco della nostra squallidissima epoca. La magia prodotta da Cohen, dalla bravissima Bakalova, dal regista Jason Woliner e da tutta la squadra di sceneggiatori è spingere le premesse del film ancora più dentro il tempo presente.
Quanto è contemporaneo il nuovo Borat? Una delle gag-chiave ha luogo alla convention della Conservative Political Action Conference, dove il vicepresidente Mike Pence dice che al momento negli Stati Uniti sono stati registrati «15 casi di coronavirus». Nel corso del film, vediamo alcune persone indossare la mascherina e rispettare la distanza di sicurezza, e altre invece votate a un completo negazionismo del Covid-19. Scegliete voi da che parte stare. Abbiamo dunque a che fare con la storia recente, anzi con la storia corrente. Ci sono Pence e Rudy Giuliani, su cui torneremo più avanti; e la star di Instagram Macey Chanel, che dà lezioni su come essere una perfetta “sugar baby”. C’è la dimostrazione plausibile su come chiunque oggi riuscirebbe a infiltrarsi facilmente dentro l’amministrazione Trump e provocare il caos. E l’ennesima prova del fatto che Cohen sia uno dei pochissimi attori comici viventi capaci di gestire una roba del genere, e uno dei pochissimi in grado di farci domandare come diavolo ci riescano.
Ma è anche a noi a stessi che dobbiamo darci una pacca sulla spalla (o forse no). Perché Borat potrebbe esistere senza di noi? Nel primo film, a stupire era, per esempio, il candore con cui questo “straniero” chiedeva a un venditore di armi il fucile perfetto per uccidere un ebreo – e la franchezza con cui l’uomo gli rispondeva. Era il gruppo di suprematisti bianchi che diceva che le minoranze avevano tutto il potere in questo Paese, e allora sapete cosa? C’è bisogno dello schiavismo, eccome! Nel nuovo Borat, quelle gag sono evocate, e persino surclassate, dalle nuove: un make-up stylist consiglia alla coppia di protagonisti la tinta che si addice di più a una famiglia razzista; la commessa di un negozio d’abbigliamento mostra un vestito con sopra scritto “No vuol dire sì; un chirurgo plastico è ben felice di far vedere il profilo del perfetto naso ebreo. Tutte queste gag sono ovviamente eccessive. E sono esattamente quello che devono essere: il sottotesto è il testo, anche nel momento in cui Borat chiede che su una torta venga scritto “Non verremo rimpiazzati dagli ebrei”. Quanto scommettete sul fatto che nessuno, in quella pasticceria, avrà niente da obiettare? E quanto sul pastore antiabortista che, quando viene a sapere che la figlia di Borat è incinta del figlio dello stesso Borat, non condanna l’accaduto? Anzi, invita loro (e noi) a non fare la scelta sbagliata. Perché i Bravi Cristiani Americani non giudicano.
È tutto un tabù. Tutto sembra impossibile. Nulla può essere davvero spiegato. Borat è un personaggio grottesco: è tratteggiato secondo tutti i cliché esotici, è peloso, si lascia andare a battute bassissime, gira con una bustina di peli pubici in tasca. Ma la caricatura si rispecchia paradossalmente nei valori più profondi dell’America: il suo livello di ignoranza è quello che rende tutti noi sospettosi rispetto a qualsiasi cosa; e il suo livello di affettazione e falsa gentilezza trova radici in quella stessa ignoranza. Il fatto è che siamo nel 2020. Il nostro è un mondo post-Borat: sono nati i social network, le telecamere sono ovunque, nelle nostre vene scorre il risultato di decenni di reality-tv. È anche un mondo in cui, sul versante dell’ignoranza, le teorie cospirazioniste la fanno da padrone. Spereremmo tutti di essere diventati un po’ più saggi con gli anni: e invece.
Cohen è un maestro – anzi, un genio – d’ironia. Fa un’impennata sul fronte del negazionismo dell’Olocausto che, nonostante tutto quello che è accaduto dal 2006 a oggi, fa ancora ridere moltissimo per i suoi affondi satirici. Il film finisce e tu vorresti spoilerare tutto (la scena della sinagoga! E quella al gabinetto! E i porno sull’iPhone!), ma noi non lo faremo. Quello che possiamo dire è riassumibile in: Covid, Jeffrey Epstein, #pizzagate e teorie correlate («Hillary Clinton beve sangue di bambini?»). Un intrico psicotico di battute e pasticci politici impenetrabile quanto un ammasso di prolunghe, su cui non possiamo fare altro che inciampare. La cosa migliore di Borat 2 non è tanto l’attacco all’amministrazione Trump o, per essere più precisi, all’America sotto il governo di Trump. La cosa più bella è la capacità di Cohen e della sua squadra di orchestrare il tutto così fluidamente, anche se – come sempre – improbabilmente. Quindi, alla fine di Borat 2, la domanda non è più: come diavolo è riuscito Cohen a fare tutto questo? Ma: com’è riuscito a sopravvivere a tutto questo? A non farsi prendere a botte da nessuno?
O magari qualcuno l’ha fatto, solo che noi non lo vediamo. Di sicuro, ora che il film è uscito, qualcuno che vorrebbe picchiarlo c’è. L’immagine di Giuliani che si mette le mani nei pantaloni davanti a una ragazza è già diventata virale. Ma, trattandosi di Borat, quel fotogramma non è l’unica cosa rilevante della scena. I pugni di Cohen e della sua creatura van giù pesante, e ancora più pesante, e di più ancora, finché il corpo dell’America non è malmenato a dovere. Sono i numeri da funambolo a rendere il film così clamoroso; le situazioni pericolosissime in cui Cohen si butta in modo del tutto dissennato. È la prodigiosa efficacia di ogni suo colpo. E la gag finale, quella che sintetizza tutte le altre? Un colpo che mette tutti al tappeto. Nessuno di noi spettatori avrebbe potuto prevederla. Ma il senso del finale sta proprio in questo: avremmo dovuto, invece, prevedere tutto.