Kaminsky poteva sfruttare il suo talento di chimico e tintore per salvare delle vite. Quella del falsario non era solo un’arte che aveva perfezionato, era una vocazione. E un’etica
Adam Shatz
Nella primavera del 1944, la milizia francese collaborazionista fermò un giovane davanti alla stazione della metropolitana di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi. Secondo la carta d’identità, era Julien Keller, diciassette anni, tintore, nato nel dipartimento della Creuse. Nella sua borsa c’erano decine di altri documenti d’identità falsificati. Il ragazzo, però, era sicuro che la polizia non avesse idea di quanto fosse spaventato, perché lui aveva imparato a simulare un’aria tranquilla. “E sapevo anche, con assoluta certezza, che i miei documenti erano in regola”, ricorderà molti anni dopo. Del resto “li avevo fatti io”.
Julien Keller era il nome da battaglia di Adolfo Kaminsky, morto nel 2022 a Parigi all’età di 97 anni. È stato soprattutto grazie a lui che in tempo di guerra la Francia occupata dai tedeschi è stata inondata di documenti falsi. Le autorità dell’occupazione erano sulle sue tracce, ma non avrebbero mai sospettato che il falsario a cui stavano dando la caccia fosse un adolescente (aveva diciotto anni, ma ne dichiarava uno di meno per evitare l’obbligo di lavorare previsto dalla legge). Kaminsky lavorava in un laboratorio sulla rue de Saints-Pères, camuffato da studio d’artista. Situato in una minuscola soffitta, il laboratorio faceva parte della 6a, una sezione segreta dell’Unione generale degli israeliti di Francia (Ugif), organizzazione creata dal regime di Vichy e finanziata con denaro e proprietà confiscati agli ebrei. L’Ugif era formalmente un’istituzione umanitaria, ma contribuì a organizzare la deportazione della popolazione ebraica verso i campi di concentramento. L’obiettivo della sezione segreta era sabotare dall’interno l’Ugif, resistendo all’occupazione e creando collegamenti con vari gruppi della resistenza, tra cui comunisti, sionisti e sostenitori di Charles de Gaulle. Durante la guerra, la 6a aiutò a salvare dalla deportazione almeno diecimila ebrei.
Nel laboratorio lavoravano solo quattro persone. Il direttore era un uomo che si faceva chiamare Loutre, “lontra”. Le assistenti di Kaminsky, le sorelle Suzie e Herta Schidlof, erano studenti dell’École des beaux-arts. Il gruppo non era l’unico a realizzare documenti falsi, ma ne faceva molti più degli altri. Di solito, i falsi venivano prodotti modificando documenti esistenti. Kaminsky, invece, aveva trovato un metodo per creare da zero documenti che, nelle sue parole, sembravano “veri come se fossero usciti dalla tipografia di stato”.
Kaminsky ha descritto questo processo nella sua autobiografia, Adolfo Kaminsky. Una vita da falsario (Colla editore 2011), scritta con la figlia Sarah: “Temevo più di ogni altra cosa l’errore tecnico, il minuscolo dettaglio che potesse sfuggirmi. Il minimo attimo di disattenzione poteva essere fatale, e da ogni pezzo di carta dipendevano la vita e la morte di un essere umano”. Lo stesso rigore lo applicò ai falsi che più avanti realizzò per i ribelli algerini, per gli insorti in America Latina e in Africa, per gli attivisti antiapartheid e gli oppositori delle dittature in Grecia, Spagna e Portogallo.
Come ha osservato Hannah Arendt, per avere “il diritto di avere diritti” una persona deve appartenere a una comunità politica, e la prova più sicura di questa appartenenza è avere i documenti giusti. Kaminsky lo aveva imparato da bambino. I suoi genitori erano due ebrei russi che si erano conosciuti a Parigi nel 1916. L’anno successivo erano stati costretti ad abbandonare la Francia perché il governo aveva ordinato l’espulsione di tutti i cittadini russi sospettati di simpatie comuniste. Il padre di Kaminsky, Solomon, non era comunista, ma aveva fatto parte del Bund, un’organizzazione socialista ebraica. Solomon e Anna Kaminsky si trasferirono a Buenos Aires e presero la cittadinanza argentina. Nel 1925 nacque Adolfo. Nel 1932 la famiglia poté tornare in Francia. Si stabilirono a Vire, una cittadina della Normandia in cui il fratello minore di Anna, cittadino francese e reduce della prima guerra mondiale, aveva un’attività.
La loro però era un’esistenza precaria, e a tredici anni Adolfo lasciò la scuola per lavorare in una fabbrica che produceva plance per aerei da guerra. Nel 1940, dopo che la Francia cadde in mano ai tedeschi, agli ebrei fu vietato lavorare nella fabbrica, ma Adolfo trovò subito un impiego come apprendista da un ingegnere chimico, che gl’insegnò l’arte della tintura. Nelle sue memorie descrive la meraviglia di scoprire che, dopo aver tinto di nero un pezzo di tessuto, “il liquido ridiventava limpido, come acqua di fonte”.
Gli ebrei furono sottoposti a restrizioni sempre più dure, fino all’imposizione della stella gialla sul petto nel 1942. I Kaminsky si rifiutarono d’indossarla: erano cittadini argentini, e un funzionario alla stazione di polizia aveva detto a Solomon che non erano tenuti a dichiarare la loro religione. Presto, però, Adolfo scoprì che la sua famiglia non sarebbe sfuggita alla violenza del regime. Jean Bayer, un suo collega ebreo alla fabbrica, fu ucciso dalla polizia per il suo coinvolgimento nella resistenza. Poco dopo, la madre di Adolfo fu ritrovata sui binari della ferrovia con la testa staccata. La versione ufficiale era che fosse caduta dal treno perché aveva scambiato l’uscita per il bagno. Adolfo era convinto che fosse stata spinta e uccisa.
La sua reazione fu dedicarsi sempre di più alla sua passione: la chimica. Comprò il primo set da chimico dal farmacista locale, il signor Brancourt, che diventò il suo mentore. Brancourt era un agente dei servizi di sicurezza di Charles de Gaulle ed era in contatto con i combattenti della resistenza impegnati in azioni di sabotaggio contro i convogli tedeschi in Normandia. Intuendo che Kaminsky non si sarebbe accontentato di “piangere i morti senza fare nulla”, Brancourt gli chiese se fosse disposto a fare cose “un po’ più pericolose delle saponette”. Presto Kaminsky cominciò a costruire detonatori e ad aiutare i partigiani nelle operazioni di sabotaggio. Anche se si considerava un pacifista, resistere all’occupazione gli dava un senso di appagamento. “Per la prima volta, non mi sentivo più completamente impotente di fronte alla morte di mia madre e del mio amico Jean. Almeno avevo la sensazione di vendicarli”.
Nell’ottobre 1943 a Vire cominciarono le retate. Solomon Kaminsky e i suoi quattro figli, tra i pochi ebrei rimasti in città, furono condotti al carcere di Maladrerie a Caen e poi a Drancy, poco fuori Parigi. Decine di migliaia di ebrei furono deportati da Drancy ad Auschwitz-Birkenau e in altri campi di concentramento, e la stessa sorte sarebbe toccata anche ai Kaminsky se non fosse stato per Paul, il fratello maggiore di Adolfo, che riuscì a intercedere presso il console argentino a Parigi. Nel 1944 furono rilasciati. “Perché noi, e perché non loro?”, si domandò Adolfo. A Parigi comprò dei libri di chimica sulle bancarelle lungo la Senna e da autodidatta imparò a realizzare esplosivi. Quando però un uomo noto come Penguin, che in realtà si chiamava Marc Hamon, lo fece entrare nella resistenza, non erano le sue conoscenze in materia di esplosivi a interessarlo, ma la sua esperienza con le tinture. Alla resistenza servivano documenti per chi varcava clandestinamente la frontiera, per i partigiani che si paracadutavano dal Regno Unito e per gli ebrei che rischiavano la deportazione. Kaminsky si rivelò particolarmente ingegnoso. Creò una centrifuga con la ruota di una bicicletta per fare in modo che il liquido fotosensibile fosse distribuito uniformemente, e usò un tubo per lucidare le carte danneggiate dall’acido. Carte d’identità, certificati di matrimonio e di battesimo, permessi per le razioni alimentari: Kaminsky imparò a fare di tutto.
Quando nella resistenza si sparse la voce dell’abilità del falsario di Parigi, il laboratorio su rue des Saints-Pères cominciò a ricevere fino a cinquecento ordini alla settimana, da Parigi, dalla zona libera e da Londra. Una volta, Penguin disse a Kaminsky che stava per partire un raid nelle case degli ebrei, e che entro tre giorni servivano i documenti per trecento bambini. Significava falsificare novecento documenti, e sembrava un’impresa impossibile. Kaminsky calcolò di poter produrre trenta falsi all’ora e decise di non fermarsi neanche per riposare un po’ prima di aver finito: se si fosse addormentato anche solo per un’ora, trenta persone sarebbero morte. “Ci serve un falsario, Adolfo, non un altro cadavere”, dovette ricordargli uno dei suoi colleghi. Dopo la liberazione di Parigi, Kaminsky entrò nei servizi di sicurezza francesi, falsificando documenti per i partigiani che si paracadutavano in Germania per individuare i campi di concentramento prima che i nazisti cancellassero le prove dello sterminio. “Qualsiasi cosa un uomo porti con sé, in caso di cattura, può salvargli la vita”, diceva. “Avevo una settimana per inventare per ciascuno un passato credibile e fabbricarne le prove”.
Anche solo offrirsi di falsificare i documenti di qualcuno – Kaminsky si recava di persona a casa di molte famiglie ebree, invitandole ad accettare il suo aiuto – significava mettere la propria vita nelle mani di un estraneo. I suoi avvertimenti sui campi di concentramento a volte erano accolti con incredulità, perfino con rabbia. Nel suo libro ricorda la visita a madame Drawda, madre di quattro figli, che sosteneva di non aver bisogno di documenti falsi perché la sua famiglia era francese da generazioni e che, in ogni caso, tutte le voci sui campi della morte erano “propaganda angloamericana”; minacciò addirittura di chiamare la polizia. Durante la guerra, diversi colleghi di Kaminsky furono uccisi dalla Gestapo, compreso Penguin, che fu catturato mentre portava in salvo trenta bambini in Svizzera. Per evitare il carcere, Kaminsky imparò a “trasformarsi in un’ombra”.
La lezione principale, però, era che poteva sfruttare il suo talento di chimico e tintore per salvare delle vite. Quella del falsario non era solo un’arte che aveva perfezionato, era una vocazione. E un’etica. Quando i suoi superiori nei servizi di sicurezza gli chiesero di partecipare alla campagna per difendere il dominio francese in Indocina, diede le dimissioni. “Il termine all’epoca ancora non esisteva, ma ero profondamente anticolonialista”. Kaminsky cominciò a dedicarsi ad altri interessi. Di notte si arrampicava sui tetti di Parigi per fare foto struggenti della città addormentata e “ritrovare il gusto della vita”. Sposò una donna ebrea di origini polacche, Jeanine Korngold, la cui famiglia era morta nei campi di concentramento: ebbero due figli, Marthe e Serge. Il loro matrimonio, però, naufragò e dopo un paio d’anni divorziarono. Kaminsky cominciò a sentire il richiamo del suo lavoro di falsario: era troppo abile per essere ignorato da chi aveva bisogno di documenti. La prima richiesta arrivò da un ex compagno della resistenza, Pierre Mouchenik, noto come Pierrot, a cui servivano certificati per i profughi ebrei diretti in Palestina. “Personalmente, il luogo non mi interessava. Non ero sionista, ma difendevo fortemente l’idea che ogni individuo, in particolare se qualcuno gli sta dando la caccia e se la sua vita è in pericolo, dovrebbe avere il diritto di spostarsi liberamente, di attraversare le frontiere, di scegliere la destinazione del suo esilio”. Per i due anni successivi, Kaminsky procurò documenti falsi all’organizzazione paramilitare ebraica Haganah e al gruppo rivale della Banda Stern, una milizia terrorista guidata da Yitzhak Shamir, di cui faceva parte uno dei suoi vecchi compagni durante la resistenza, Ernest Appenzeller. Nel 1947, Kaminsky fotografò Appenzeller e un altro componente della banda Stern, Avner Grouchof, di fronte a un autobus diretto alla Gare de Lyon, accanto ai manifesti di un concerto di Édith Piaf. Con i loro impermeabili e i loro sguardi concentrati, Appenzeller e Grouchof sembravano due malviventi in un film di gangster di Jean-Pierre Melville. Al tempo, Kaminsky si disse, illudendosi, che sostenendo le loro attività stava contribuendo a creare “un paese ebraico-arabo liberato dal Regno Unito”. I metodi terroristici della banda Stern, però, non facevano per lui. Quando gli chiesero di progettare un innesco a tempo da usare in un attentato al ministro degli esteri britannico, accettò il lavoro ma costruì un congegno fatto apposta per non esplodere.
Kaminsky rimase “mortificato” dalla guerra arabo-israeliana del 1948 e ancora di più dalla creazione dello stato ebraico. “Stavo quasi per aderire al sionismo”, ha confessato nel 2020 alla giornalista radiofonica Laure Adler, ma il razzismo antiarabo a cui aveva assistito durante una visita in Israele dopo la guerra lo aveva dissuaso. “Non potevo sopportare l’idea che il nuovo stato scegliesse la religione e l’individualismo”, ricorda nel suo libro. “Erano le due cose che odiavo di più”. Kaminsky non si è mai pentito di aver aiutato gli ebrei a emigrare, ma ha rifiutato varie volte di ricevere una medaglia dallo stato di Israele e non ha voluto più metterci piede.
Negli anni cinquanta, si affermò come fotografo commerciale e aprì uno studio in rue des Jeûneurs. Faceva ritratti, riproduceva illustrazioni e scattava fotografie di scena. Collaborò anche con lo scenografo Alexandre Trauner in un film di Marcel Carné. Le sue fotografie in bianco e nero di prostitute, musicisti di strada, senzatetto e bouquinistes, esposte al Musée d’art e d’histoire du Judaïsme nel 2019, mostrano un’eleganza nella composizione e un affetto per il demi -monde parigino che ricordano Brassaï e Henri Cartier-Bresson. Dopo essersi innamorato di Sara Elizabeth Penn, un’affascinante nera conosciuta a una festa, pensò di trasferirsi negli Stati Uniti, a New York. Nel 1957 Penn partì e lo aspettò lì.
Kaminsky non la raggiunse mai. Qualche mese dopo ricevette una visita da Annette Roger, una dottoressa di Marsiglia che collaborava con i porteurs de valises, una rete di supporto al Front de libération nationale (Fln) algerino guidata dal filosofo Francis Jeanson. I porteurs contrabbandavano soldi e documenti, e assicuravano tragitti e rifugi sicuri agli attivisti dell’Fln in tutta l’Europa occidentale. Roger gli chiese del suo lavoro di falsario per la resistenza. Quando Kaminsky finì di raccontarle la sua storia, gli domandò: “Lei può ancora falsificare documenti?”. “Se la causa lo giustifica”, rispose.
Kaminsky non aveva troppo bisogno di essere convinto. All’inizio degli anni cinquanta, mentre era in vacanza in Algeria, aveva assistito in prima persona all’oppressione dei musulmani per mano dell’amministrazione francese e si era “vergognato di essere bianco” e “francese”. Michèle Firk, alias Jeannette, una critica ebrea di sinistra della rivista cinematografica Positif, divenne il suo contatto principale tra i porteurs de valises. Il gruppo aveva bisogno di passaporti per le autorità algerine che attraversavano la frontiera francese. Quello svizzero, secondo Kaminsky, era il più difficile da falsificare, e non era certo di saperlo riprodurre: “La trama della copertina, fatta di cartoncino ultraleggero, rigido e molto flessibile allo stesso tempo, con la filigrana in rilievo, era diversa da tutte le altre”.
Lo studio di rue des Jeûneurs era grande più di 150 metri quadrati ed era ufficialmente adibito al suo lavoro di fotografo. Come responsabile della sua attività ufficiale, Kaminsky nominò un sostenitore di estrema destra dell’Algeria francese (“Non potevo sognare una copertura migliore”). Le foto commerciali sovvenzionavano il suo lavoro per l’Fln, per il quale si rifiutava di essere pagato, spiegando che si sarebbe sentito come un mercenario. Offrire gratuitamente i propri servizi, del resto, significava anche poterli interrompere “se la rete avesse preso una piega che disapprovavo, per esempio organizzando attentati terroristici contro i civili”. Come Kaminsky spiega nel suo libro, i capi dei porteurs riuscirono a convincere Omar Boudaoud, il capo del Fln in Francia, a non compiere attacchi contro i civili nel paese e di concentrarsi su polizia, militari e obiettivi industriali.
Il passato di Kaminsky si rivelò utile in altri modi, perché le persone che aveva aiutato erano in debito con lui. Quando la rete lo informò che serviva una casa sicura per un importante leader algerino, lui chiamò il suo amico Philippe, che viveva in un sontuoso appartamento nel sedicesimo arrondissement. Philippe era un ebreo sostenitore della dominazione coloniale francese in Algeria, ma questo, secondo Kaminsky, rendeva l’idea ancora più irresistibile: chi avrebbe mai pensato di cercare un alto funzionario dell’Fln in casa di un ebreo algerino filofrancese? Inoltre, sapeva che Philippe non poteva rifiutargli il favore, perché durante la guerra aveva procurato documenti falsi a tutta la sua famiglia. Una settimana più tardi – dopo una serie di conversazioni con il suo ospite su musica classica, filosofia, razzismo e le loro rispettive attività nella resistenza – Philippe chiamò Kaminsky al telefono, tessendo le lodi dell’algerino: “Un uomo di grande cultura. Se ne hai altri come lui puoi mandarli da me”.
Kaminsky aiutò l’Fln anche quando i suoi militanti francesi cercavano armi per difendere gli algerini contro i coloni dell’organizzazione paramilitare clandestina dell’Oas. Dopo la fine della guerra, Kaminsky aveva conservato una scorta di armi che erano appartenute ad Appenzeller. In pochi giorni, con l’aiuto di un giovane membro dell’Fln, Belkacem Rhani, le prelevò senza dare nell’occhio. “Le armi di Ernest” – le armi di un miliziano sionista – “da quel momento in poi avrebbero servito la causa dell’indipendenza algerina”.
Nel 1961, Jeanson, che era entrato in clandestinità dopo essere stato condannato in contumacia per alto tradimento, si era trasferito in Belgio. Kaminsky lo seguì, spostando il suo laboratorio a Bruxelles. I servizi di sicurezza francesi stavano stringendo il cerchio sulla rete: a ottobre Henri Curiel, un esule comunista ebreo-egiziano che aveva sostituito Jeanson a capo dei porteurs, fu catturato e incarcerato a Fresnes, a sud di Parigi, dove erano detenuti centinaia di militanti dell’Fln. A Bruxelles, Kaminsky si avvicinò a Boudaoud, un uomo di grande “serenità, intelligenza e rapidità di giudizio”, a sua volta ammiratore dell’ebreo che aveva sposato la causa della lotta algerina. Kaminsky e Boudaoud collaborarono al più clamoroso falso della guerra d’Algeria: la produzione di un’enorme quantità di franchi contraffatti per destabilizzare l’economia francese. Il 18 marzo 1962, tuttavia, la guerra si concluse con la proclamazione degli accordi di Evian tra il governo francese e l’Fln. Kaminsky e la sua compagna, una pittrice surrealista statunitense di nome Gloria de Herrera, furono costretti a bruciare il denaro (per precauzione, le banconote non erano state numerate). “Ho visto un anno di lavoro andare in fiamme, ma mi piaceva”, ricorda. La notizia della pace lo rese “euforico”.
Alcuni suoi compagni francesi, tra cui Jeannette, andarono in Algeria sperando di costruire uno stato socialista. Kaminsky decise di non seguirli. Era rimasto inorridito dall’uccisione di migliaia di harki – gli algerini che avevano combattuto al fianco dei francesi – ed era ancora più inorridito dal fatto che il governo del suo paese non avesse garantito a quei soldati e alle loro famiglie un asilo sicuro in Francia. Tornò a Parigi nel 1963 e riprese a lavorare come fotografo, finché un uomo che diceva di chiamarsi Stéphane si presentò al suo studio. Sosteneva di essere un amico di Jeannette. Georges Mattéi – questo era il suo vero nome – era di origini corse e proveniva da una famiglia di partigiani comunisti. Stava lavorando con un nuovo gruppo, Solidarité, guidato da Curiel, che era stato scarcerato dopo gli accordi di Evian.
Per i successivi sei anni, Kaminsky fu il principale falsario della rete di Curiel, falsificando documenti per gli oppositori di Duvalier ad Haiti, per i critici dominicani del regime di Balaguer, per i militanti dell’Anc e per vari attivisti antimilitaristi in Angola, in Guinea-Bissau e negli Stati Uniti. Daniel Cohn-Bendit, ebreo tedesco che era stato espulso dal governo francese, riuscì a tornare in Francia appena in tempo per partecipare alle contestazioni del 1968 grazie alla maestria di Kaminsky (“Il mio solo contributo alla rivolta di maggio”, ricorda lui, che si era divertito perché era l’unica volta che aveva procurato documenti falsi a qualcuno che non era in pericolo immediato). Falsificò i passaporti per alcuni attivisti messicani dopo il massacro degli studenti del 1968 e per i dissidenti cechi dopo la repressione della primavera di Praga. Tutti questi ribelli, spinti da cause diverse e a volte contraddittorie, avevano una cosa in comune: un passaporto di Kaminsky.
I suoi falsi erano meticolosi, ma la sua vita personale era un caos. Herrera, alla quale aveva tenuto nascosta la sua collaborazione con Solidarité – fin dai tempi della guerra, Kaminsky si atteneva a un codice di segretezza assoluta – era convinta che passasse le notti in compagnia di una donna angolana (“Non sono mai riuscito a conciliare le mie attività clandestine con la mia vita sentimentale”, osserva nel suo libro). Del resto, il sospetto che la sua mente fosse altrove non era completamente infondato. A un certo punto, però, verso la fine degli anni sessanta, Kaminsky cominciò a desiderare una vita alla luce del sole. A settembre del 1968 Jeannette, che si era arruolata nelle Forze armate rivoluzionarie in Guatemala, si sparò in bocca durante un raid della polizia (aveva partecipato al rapimento dell’ambasciatore statunitense in Guatemala, John Gordon Mein, che fu ucciso mentre tentava di fuggire). I gruppi di estrema sinistra come la Rote Armee Fraktion e i loro “metodi sanguinari di guerriglia urbana” lo disgustavano. In più, si era convinto che le forze di sicurezza francesi lo stessero seguendo. Nel dicembre del 1971 andò a trovare Curiel nella sua casa di rue Rollin, dove lasciò due valigie con dentro tutta la sua attrezzatura: timbri, formule per i colori, fogli bianchi, una macchina termica per laminare le copertine. “Occupatene tu”, disse a Curiel, e volò ad Algeri. Nel 1978, Curiel fu assassinato nell’ascensore del suo palazzo da un gruppo chiamato Delta, con ogni probabilità sostenitori delusi dell’Algérie française infiltrati nei servizi francesi, forse in combutta con il regime dell’apartheid in Sudafrica. Il caso non è mai stato risolto.
Poco dopo il suo arrivo ad Algeri, Kaminsky incontrò Leïla Bendjebour, una studente di legge, a un incontro di sostenitori della lotta per l’indipendenza dell’Angola. Bendjebour era cresciuta a Blida, dove Frantz Fanon aveva diretto l’ospedale psichiatrico nei primi anni della guerra d’indipendenza. I suoi vicini d’infanzia erano ebrei: dopo l’indipendenza alcuni erano emigrati in Francia, altri invece si erano convertiti all’islam ed erano rimasti in Algeria. Kaminsky e Bendjebour si sposarono ed ebbero tre figli: Atahualpa, che sarebbe diventato ingegnere; José, che oggi fa il rapper ed è conosciuto come Rocé, e Sarah, attrice e scrittrice. Kaminsky insegnava fotografia e si sentiva come se in Algeria gli avessero regalato “una vita in più”. Nei primi anni della loro vita coniugale, il paese era “culturalmente molto libero”, racconta Leïla Kaminsky, anche se il regime era profondamente autoritario. Houari Boumédiène, il secondo presidente dell’Algeria indipendente, era uno dei leader del movimento degli stati non allineati, e il paese era particolarmente accogliente con i simpatizzanti stranieri e i leader dei movimenti di liberazione, molti dei quali avevano trovato rifugio ad Algeri. In qualità di guerrigliero, veterano della lotta per l’indipendenza e simbolo del richiamo internazionale della rivoluzione algerina, Kaminsky “viveva come un re”, secondo suo figlio Rocé, ed era trattato “con fraternità rara sia dalle persone che incontrava sia dallo stato”. Kaminsky non si faceva troppe illusioni sul carattere repressivo e la corruzione dell’Fln, ma predicava sempre pazienza, perché l’Algeria aveva conquistato l’indipendenza da poco, e inoltre non era la sua battaglia.
Boumédiène morì nel 1978, e il suo successore, Chadli Bendjedid, avviò il processo d’islamizzazione del paese, facendo costruire moschee e incoraggiando una devozione ostentata. L’Algeria si ritrovò a un tratto immersa fino al collo nell’ortodossia promossa dagli imam. Kaminsky era in una posizione scomoda: era un laico di sinistra nato all’estero e un intellettuale; anche il fatto di essere ebreo non giocava a suo favore. Nel 1981, uno dei suoi amici, direttore di un museo con simpatie di sinistra, fu assassinato. Tre giorni dopo, Leïla si ritrovò in casa un gruppo di uomini che cercavano “il professore”. La famiglia fece immediatamente i bagagli e lasciò l’Algeria, esattamente come aveva lasciato la Francia dieci anni prima. Si stabilirono a Thiais, un sobborgo a sud di Parigi in cui Kaminsky trovò lavoro come assistente legale per i ragazzi emarginati della banlieue di Kremlin-Bicêtre, molti dei quali provenivano da famiglie nordafricane. Teneva anche corsi di fotografia e continuava a fare foto.
Nell’introduzione all’autobiografia del padre, Sarah scrive che se la sua famiglia non si fosse trasferita in Francia, forse lei non avrebbe mai saputo dell’impegno del genitore nelle attività nella resistenza. Di certo non ne aveva sentito parlare da lui: Kaminsky aveva conservato l’antica abitudine della segretezza e non ne parlò con i suoi figli finché Sarah non lo intervistò per Una vita da falsario. Ogni tanto, però, il passato tornava in superficie. Non molto tempo dopo il suo ritorno a Parigi, il giornale di estrema destra Minute informò i lettori che un “traditore” della guerra d’Algeria era arrivato tra loro e che avrebbe continuato a danneggiare la Francia collaborando con i “delinquenti” nordafricani. “I giovani di Kremlin-Bicêtre lessero l’articolo”, racconta Rocé, “e furono abbastanza generosi da capire che alcune loro attività avrebbero potuto infangare la reputazione di mio padre. Fecero molta attenzione a proteggerlo”. Pur continuando a trascorrere l’estate in Algeria, i Kaminsky si erano ormai stabiliti in Francia, e nel 1992 furono naturalizzati cittadini francesi. Adolfo, però, continuò a rifuggire l’ufficialità. Quando l’etnologa Germaine Tillion, sopravvissuta al campo di concentramento di Ravensbrück, fece il suo nome per la legion d’onore, rifiutò la candidatura.
Nel 2019, quando ho incontrato Kaminsky nell’appartamento del quindicesimo arrondissement in cui abitava con Leïla, aveva perso parte dell’udito; se ne stava seduto in un angolo, ad ascoltare concentrato la moglie che raccontava le loro esperienze in Algeria. Era ancora molto lucido, nonostante i 93 anni, e poco prima che me ne andassi mi raccontò quasi sussurrando della sua vita da falsario. Mi disse di aver rotto immediatamente i ponti con il movimento sionista quando si era reso conto che la loro intenzione era “tracciare una linea di divisione tra arabi ed ebrei”. Portava una lunga barba bianca, che sembrava stranamente rabbinica per un laico come lui. Mi spiegò che a Drancy, mentre migliaia di altri ebrei aspettavano di “finire nei forni” aveva visto un vecchio con la barba accompagnato da una ragazza. Il giorno dopo l’uomo era stato aggiunto alla lista dei deportati e costretto a radersi. “Era talmente debole che fondamentalmente era come se fosse già morto. La sua immagine mi ha perseguitato allora e mi perseguita ancora oggi”. Dopo la guerra si fece crescere la barba in segno d’omaggio.
Anche il suo lavoro per gli algerini e per altri gruppi oppressi, mi ha spiegato, era un tributo alle vittime del nazismo. “La mia vita da falsario è stata una lunga e ininterrotta resistenza, perché, dopo il nazismo, ho continuato a resistere: alla disuguaglianza, alla segregazione, al razzismo, all’ingiustizia, al fascismo e alla dittatura”. I detrattori di Kaminsky non sono mai riusciti a capire perché si sia fatto invischiare in conflitti lontani, rischiando di finire in carcere o di essere ammazzato. A molti è sfuggito il filo ininterrotto che collega la sua resistenza anticoloniale e il suo antifascismo. Il suo necrologio sul New York Times lo elogiava per aver contribuito a salvare gli ebrei, ma sorvolava sui suoi legami con l’Fln e altri movimenti di liberazione nazionale. “Non posso garantire per ogni sua causa”, ha scritto un po’ altezzosamente la giornalista Pamela Druckerman in un ritratto del 2016: “Alcuni gruppi ribelli che ha sostenuto usavano la violenza”. Lo stesso, però, si può dire della resistenza in tempo di guerra. Con il suo impegno anticolonialista, Kaminsky non si è separato dal suo passato: lo ha onorato. Armato di carta e tinture, ha combattuto “una realtà troppo dolorosa da osservare o da sopportare senza fare nulla”, usando “le uniche armi a mia disposizione”. Il giorno della sua sepoltura, al cimitero Père Lachaise, non c’era nessun rappresentante del governo francese. È toccato all’ambasciatore algerino in Francia deporre un mazzo di fiori sulla sua tomba. ◆ fas
Adam Shatz è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul quindicinale culturale London Review of Books con il titolo Beyond borders.
Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 96.