Amos Luzzatto
Credo vi siano due modi di concepire il dialogo fra le diverse religioni. Il primo vede come soggetti le religioni, appunto, come sistemi di idee e di credenze. Nel nostro caso, l ‘Ebraismo entrerebbe in dialogo con il Cristianesimo . E’ molto difficile, per non dire impossibile, definire gli scopi che si prefiggerebbe una tale operazione; la religione non è una scienza, nella quale, come ci ha insegnato Popper, la falsificazione di una teoria sulla base di dati sperimentali o osservazionali dovrebbe e potrebbe indurre il sostenitore della teoria stessa a rivederne le stesse fondamenta. Nelle religioni questo non è immaginabile, perché, per quante concessioni possano farsi, si arriva comunque a un punto irrinunciabile, collegato con la rivelazione e pertanto con una verità indiscutibile. Rinunciando a questo punto, una religione dovrebbe dissolversi e a questo punto non di dialogo si tratterebbe (venendo a mancare uno dei protagonisti) ma di conversione, dolce o forzata che sia.
Il secondo modo di concepire il dialogo è concreto e vede come soggetti dialoganti determinati esseri umani che appartengono ad una tradizione storica e a determinate collettività umane strutturate che educano i propri figli entro un sistema di credenze e di principi.
Esattamente come degli esseri umani che parlano lingue diverse (reciprocamente incomprensibili) possono trovare il modo di comunicare fra di loro, di cercare di conoscersi, di spiegarsi i rispettivi costumi e regole sociali, di tradurre ciascuno la propria lingua in quella dell’altro, persino di piacersi – anche se poi il cinese resterà cinese e lo spagnolo, spagnolo – così, analogamente, può avvenire fra esseri umani che “praticano” religioni diverse. Naturalmente può ma non deve necessariamente.
Che cosa significa questa ultima affermazione? Tale domanda può essere posta anche sotto un’altra forma: quali sono gli impedimenti concreti al dialogo?
A me pare che essi siano classificabili in due categorie.
La prima riguarda proprio la strutturazione di una collettività religiosa. Esattamente come uno Stato centralizzato e autoritario può chiudere severamente i confini e scoraggiare i rapporti con lo straniero, fino a fare della propria peculiarità una ideologia della quale convincere i propri sudditi ed autoconvincersi, così può succedere anche in una religione fortemente strutturata, anche perché le occasioni di vita comune che possono verificarsi di volta in volta per un seguace di una religione con il seguace di un’altra religione (percorsi commerciali, culturali, anche occasionali), molto più difficilmente si verificano per le gerarchie.
La seconda, collegata alla prima, consiste nell’evoluzione storica. Le religioni meno strutturate difficilmente conoscono, nella gestione del potere all’interno della società, una concorrenza fra due gerarchie di potere, “religiosa” l’una e “secolare” l’altra. Così è stato per l’Islam e anche, entro certi limiti conseguenti allo stato diasporico, per gli Ebrei. Il mondo occidentale ha considerato questa caratteristica a lungo come un segno di integralismo (detto poi sbrigativamente e con scarsa precisione fondamentalismo ), che sarebbe iscritto, come si usa dire, nello stesso codice genetico dell’Islam.
Nel mondo cristiano europeo le cose sono andate diversamente e gli scismi che hanno colpito la Chiesa primitiva unitaria sono stati collegati con strutture di potere politico che progressivamente hanno preso il sopravvento. Si tratta di un conflitto che non è mai stato risolto definitivamente, all’interno del quale andrebbero letti meglio alcuni episodi recenti che – come ebrei – ci hanno feriti e addolorati. La beatificazione di Pio IX, come confermato da raduni di massa successivi come quello di CL a Rimini, va visto come un capitolo della battaglia contro il Risorgimento, tendenzialmente laico ed emancipatore delle minoranze religiose, ancorché non completato del suo percorso. Il Dominus Jesus con le spiegazioni del Cardinale Ratzinger ne sono un complemento logico. La gerarchia difende orgogliosamente (e, dal suo punto di vista, giustamente) il proprio diritto alla verità esclusiva e concepisce il “dialogo” con gli altri solo se è funzionale all’evangelizzazione, in altre parole se esso tende a diventare un monologo. Giungono poi le dichiarazioni del Cardinale Biffi che invoca una immigrazione cristiana piuttosto che musulmana, per non alterare le caratteristiche “culturali” del Paese. Va sottolineato che anche il razzismo cosiddetto “spirituale”, all’italiana, del 1938, sosteneva di seguire questa linea. Che si è conclusa con le deportazioni.
E’ inutile dire che non possiamo immaginare alcun dialogo con queste posizioni. E’ verissimo che i musulmani si distinguono dai cristiani per le loro regole alimentari, per la circoncisione, per le giornate festive, per il diritto matrimoniale. Ma questo vale anche per noi ebrei, ed allora? Dovremmo abolire la mensa kasher , dovremmo dimenticare il Sabato o annullare la milà ? No, non abbiamo alcuna intenzione di farlo. Ma abbiamo il diritto di restare in Italia come cittadini paritari e altrettanto vale per i nostri fratelli musulmani. Cambierà l’identità nazionale italiana? Non lo so, ma rifiuto una concezione statica di questa, che, come tutte le identità di gruppo, ha attinto in un passato abbastanza recente a tanti elementi “estranei”, integrandoli, assimilandoli ed anche arricchendosene.
Gli atteggiamenti anti-dialogo che abbiamo malinconicamente elencato si arricchiscono quotidianamente di luoghi comuni e di espressioni che rivelano antiche sedimentazioni di pregiudizi, insufficientemente combattute se non volutamente trascurate. “I maomettani credono in Allah “. A giusta ragione i musulmani si risentono di essere chiamati così e noi dovremmo sapere che Allah significa semplicemente Iddio. Oppure, a proposito della pena di morte, di estrema orripilante attualità: “Gli americani l’hanno attinta dall’Antico Testamento, che afferma Occhio per occhio, dente per dente “. Si tratta di una lettura fondamentalista della Torà, che noi ebrei abbiamo tanto amato da attualizzarla leggendola con le lenti della Tradizione orale che ha sostituito al principio del taglione quello del risarcimento.
Sarebbe dunque gravissimo per la civile società italiana se questi atteggiamenti si affermassero e si radicassero. Si passerebbe, con la demonizzazione dello straniero e con il rifiuto di riconoscere anche in altre tradizioni (diverse ma tanto vicine) delle culture che sono degne di essere conosciute ed apprezzate, all’erezione di nuove e temibili barriere fra i popoli, dalle quali abbiamo tutto da temere e nulla da guadagnare.
Se ne deduce che il dialogo può e deve continuare.
C’è una contraddizione in questa affermazione? Solo apparentemente. Chi si oppone a continuare ha il diritto e il dovere di porre una precisa domanda: dialogo con chi e fra chi? E la risposta è chiara: il dialogo fra ebrei e cristiani non solo può ma deve continuare, ma senza altri fini se non il dialogo in sé e per sé.
Bisogna d’altra parte evidenziare che condizione determinante perché possano stabilirsi dei buoni rapporti tra le varie fedi è che lo Stato sia laico; uno Stato cioè che non eserciti alcuna ingerenza sulle attività delle diverse confessioni religiose, ma che d’altra parte non subisca le suggestioni dei poteri forti delle loro gerarchie.
In questo momento nel quale certi nuovi interpreti della storia pongono in discussione gli stessi valori fondanti dell’Italia civile e democratica, gettando discredito persino sul Risorgimento, rivolgiamo un appello a tutta la società civile ed alle sue rappresentanze politiche, affinché si impegnino a fondo nella difesa della laicità dello Stato, indispensabile non solo per favorire il dialogo interreligioso, ma anche e soprattutto per sostenere e sviluppare nella collettività nazionale una cultura pluralistica, aperta ai contributi di tutte le sue componenti.
Confidiamo che non saremo soli in quest’impresa.
Novembre 2000 – Pubblicato su Shalom