Un pianista che volta la schiena al pubblico e scorre la via lattea del suo jazz con i gomiti e con le dita.
Uri Caine è il maestro della contaminazione, che sa smontare pezzo per pezzo la musica classica e intingere, nello stesso istante, quelle sue dita di pianista nel jazz americano dei locali fatti di penombra, per disegnare note che hanno il sapore antico delle melodie ebraiche. Il 2 dicembre era in cartellone per un progetto dell’Auditorium di Milano, “Stranieri fra tutti i popoli del mondo”, che ha per sottotitolo “armeni, ebrei, zingari, neri, sognatori e musicisti”.
È una musica grandiosa, la sua, che dopo venti anni di sperimentazione e improvvisazione a New York, tuona e vortica nella sala dell’Auditorium. Le sue note sono gonfie del free jazz americano, trepidanti di affermare la loro natura neo-klezmer, soprattutto nei momenti del concerto in cui interviene il Maestro di ermeneutica biblica Haim Baharier, che cammina a passo lento sul palco, scandendo le parole dei suoi exempla. Le melodie neo-klezmer di Uri Caine sono riprese dalla tradizione ebraica della Mitteleuropa e, se una volta erano riservate a funerali e matrimoni, qui si adattano ad un connubio con la musica colta e le intuizioni in chiave contemporanea del compositore. Ispiratasi per lungo tempo a Mahler che nelle sue melodie trascinava un’Europa Orientale che gli è sopravvissuta, la Uri Caine Ensemble regala echi di marce militari, di balli contadini e di sperimentazioni tipiche della black music. Negli assoli il brivido del violino di Joyce Hammann racconta la purezza di una sinusoide di suoni, insieme alla perfezione formale della tromba di Ralph Alessi. Più nascosta la batteria, soprattutto nella rivisitazione di brani come la Sinfonia numero 5 di Mahler, amatissima da Uri Caine. Questo, infatti, è l’Ensemble, che insieme al clarinetto di Chris Speed e al contrabbasso di Michael Formanek si lascia modulare dal Dj Oliva, in maglietta slavata che inneggia a Kingston. Sono loro gli interpreti del Mahler Project, l’intuizione di Uri Caine di rileggere, rivisitare e ampliare gli artisti amati nel passato (Mahler, appunto, ma anche Beethoven e Wagner, tra gli altri). Undici anni fa, questo progetto ha portato Caine alla fama internazionale, fino ad essere nominato nel 2003 direttore della sezione musica della Biennale di Venezia. Eppure, nonostante la notorietà, Caine non ha abbandonato la postazione di sideman, come ad esempio nella formazione di Dave Douglas.
Per questo, spiega l’ermeneuta, la sua è una figura centrale tanto nella musica quanto nel legame tra vita e Torah. L’ultima lettera del testo è infatti una lamed, mentre la prima è una bet, e unite formano la parola lev (amore) che Baharier identifica come la guida della musica di Caine, il suo significato ultimo. Ma, secondo Otiot Rabbi Akiva, questa combinazione di lettere si può leggere anche come ibal (non) che rimanda alla propria coscienza e alla forza di scegliere che cosa evitare, di segnare il proprio cammino secondo principi saldi. Ed è forse questa la marca di Caine, che nel panorama musicale ha studiato, scelto con coscienza e costruito un nuovo universo regolato da proprie leggi.
Veronica Fernandes
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