Estratto della lezione tenuta il 21/11/1999 a Venezia durante la giornata di studio del Progetto Mizrach.
Rav Aharon Adolfo Locci
“Parla ai figli d’Israele e di loro: quando sarete arrivati alla terra che Io sto per darvi e ne mieterete i prodotti del campo, porterete l’Omer, la primizia della vostra mietitura, al sacerdote. E agiterà l’Omer davanti al Signore per il vostro gradimento, nel giorno successivo a quello della cessazione dal lavoro”. (Levitico 23, 10 e 11)
“E conterete per voi all’indomani della cessazione, dal giorno in cui porterete l’Omer dell’agitazione, sette settimane complete. Fino al giorno dopo la settima cessazione, conterete cinquanta giorni e quindi offrirete una nuova offerta farinacea al Signore”. (Levitico 23, 15 e 16)
L’offerta dell’Omer è un precetto positivo che, come scritto in Levitico 23, 10 e 11, è legato ad Erez Israel e al Bet ha-Mikdash. La parola OMER compare per quattordici volte nel Tanach, undici volte nella Torà1 e tre volte nei Chetuvim2. Due sono i significati che si ricavano dai versi biblici: 1) un insieme di spighe d’orzo legate, un covone; 2) un’unità di misura; un Omer è “un decimo di Efà” e corrisponde a circa quattro litri.
Al tempo delle peregrinazioni dei figli d’Israele nel deserto, il Signore provvedeva al loro mantenimento con un Omer di manna a testa al giorno. Questo cibo, di cui non conoscevano né la costituzione né la provenienza, era il segno tangibile della hashgacà temidit, la protezione costante di D-o sul Suo popolo. Per gli ebrei stessi era anche una sorta di prova da superare, una “misura” per far “misurare” il proprio livello di fedeltà alle leggi divine.
Forse, proprio in ricordo dell’Omer di manna, fu comandato al popolo d’Israele, nel Levitico, di portare l’Omer Seorim, una misura d’orzo, che non solo doveva considerarsi un ringraziamento al Signore per la protezione concessa in passato, ma anche costituire una forma di preghiera e di lode per la continuazione del Suo gradimento nel presente e nel futuro. L’ipotesi è appoggiata dal Talmud: rabbi Jehudà riferì a nome di Rabbi Akivà: perché la Torà ha detto: portate l’Omer a Pesach? Perché Pesach è il tempo del giudizio sul raccolto. Disse il Santo Benedetto Egli Sia: portatemi dinanzi l’Omer a Pesach affinché sia benedetto a voi il prodotto dei campi3.
In che cosa consisteva la Hakravat ha-Omer? Quando esisteva il Santuario, alla fine del primo giorno di Pesach, si potevano mietere le prime spighe d’orzo del nuovo prodotto. La notte del 16 di Nissan, si cuoceva l’orzo e si macinava per trasformarlo in farina che, alla fine, era setacciata con tredici setacci. La mattina seguente, la farina veniva offerta al sacerdote nella misura di un decimo di Efà ed egli la mescolava con olio e olibano. Dopo l’Anafà(agitazione, v. avanti) se ne prendeva un pugno e si bruciava sull’altare, mentre il resto era consumato dai sacerdoti.
Questo precetto si doveva compiere il secondo giorno di Pesach, perché il primo era sovraccarico di obblighi legati al sacrificio pasquale e alla celebrazione del Seder.
Il rituale che operava il sacerdote, comprendeva l’atto che la Torà chiama Anafà, agitazione. Quest’azione consisteva nel sollevare l’Omer di farina d’orzo secondo un ordine ben preciso: avanti e indietro, in alto e in basso. Il Talmud babilonese spiega così questi movimenti: disse Rabbi Hijà bar Abba a nome di Rabbi Jochanan: avanti e indietro verso chi è padrone dei venti, in alto e in basso verso chi è padrone del cielo e della terra. “Bemaaravà” ( in occidente; l’Israele di allora, cioè l’occidente di Babilonia) insegnano così: avanti e indietro per fermare i venti malvagi, in alto e in basso per fermare le rugiade malvagie4.
Con l’Anafà si ufficializzava la presentazione dell’offerta dell’Omerdi orzo. Essa era l’atto con il quale, secondo il trattato talmudico di Rosh hashanà, si richiedeva la benedizione divina sul nuovo prodotto affinché concludesse senza danni la sua maturazione.
Il Levitico 23, 15 e 16, ci insegna il precetto della Sefirat ha-Omer, conteggio che si deve effettuare dal secondo giorno di Pesach alla vigilia di Shavu’ot, il giorno del Mattan Torà. La stessa mizvà è esposta in forma diversa in Deuteronomio 16, 9: sette settimane conterai per te, dal momento in cui metterai la falce nelle messi inizierai a contare. I nostri chachamim z. l. spiegano non leggere Bakamà – nelle messi – bensì Bekumà – stando in piedi.Impariamo che la mizvà del conteggio va eseguita stando in piedi5.
E’ interessante notare che, nonostante il criterio del conteggio sia uguale, esiste una differenza sostanziale tra il computo che va da Pesach a Shavuot e quello che separa un giubileo dall’altro. Il comandamento del giubileo è enunciato così: conterai per te sette settimane di anni, sette anni per sette volte, saranno così queste sette settimane di anni, quarantanove anni6.
Per l’Omer è scritto conterete per voi, per lo Jovel conterai per te; ciò vuol significare che il computo del Giubileo era di competenza del Sinedrio, mentre il computo dell’Omer era una mizvà prevista per tutto il popolo.
Spetta ad ognuno di noi contare giorno per giorno, anelando ardentemente, durante tutto questo periodo, fino al momento in cui il Signore ci concederà il dono della Torà.
Il momento dell’esecuzione della mizvà è la sera, dall’uscita delle stelle fino all’alba del giorno dopo; si recita un’apposita benedizione, benedetto sii Tu o Signore nostro D-o Re del mondo, che ci hai santificato con tuoi precetti e ci hai comandato il conteggio (del periodo) dell’Omer.
Per la prima esecuzione di questa mizvà non è prevista la benedizione di Sheecheianu. Secondo l’opinione di Rabbi David ibn Zimrà e dell’Avudharam, la recitazione di questa berachà dopo il Kiddush della sera di Shavuot, vale anche per il computo dell’Omer, considerato come periodo di preparazione alla festa. Secondo Rabbi Shim’on ben Adderet o Adrat, detto Rashbà, la benedizione di Sheecheianu si può recitare solo in occasione di mizvot in cui ci sia gioia e giovamento tra le quali, ad esempio, leggere la Meghillà, suonare lo Shofar, riscattare il primogenito. La Sefirat ha-Omer ci ricorda il Santuario distrutto e noi non possiamo gioire né di questo né dell’offerta del manipolo d’orzo che avremmo portato se il Bet ha-Mikdash fosse ancora edificato.
Un’altra spiegazione viene da Rabbi Biniamin ben Rabbi Avraham ha-Rofè7. Egli sostiene che l’uso di non recitare anche la Birchat ha-zeman è perché il computo dell’omer dipende dalla fissazione di Pesach, quindi, basterebbe la benedizione detta nel Kiddush della sera di festa. Dopo ogni conteggio, usiamo recitare una formula particolare la cui traduzione è: sia gradito dinanzi a Te o Signore nostro D-o e D-o dei nostri Padri, che farai tornare il culto del Santuario al suo luogo, presto nei nostri giorni e concedi a noi la nostra parte nella Tua Torà8.
Questa frase ci rammenta che, quando esisteva il Santuario e si presentava l’offerta dell’Omer, anche il conteggio dei giorni fino a Shavuot era una mizvà middeoraità – precetto della Torà; ora la mizvà del computo non è altro che zecher lamikdash, ricordo del Tempio, quindi una mizvà midderabanan – precetto dei rabbini9. Rivolgere per quarantanove giorni questa supplica vuol dire auspicare ardentemente alla ricostruzione del Santuario e alla ricostituzione del culto al suo interno, quindi mettere in pratica questa mizvà, non più come un ricordo, ma di nuovo come un precetto middeoraità.
Rabbi Izchak Aramà, scrive nel suo libro Akedat Izchak: le sette settimane dell’Omer sono come i sette giorni che separano la donna dalla Tevilà per rendersi pura ed unirsi il marito.
E’ possibile considerare tutto questo periodo come una costante salita verso l’alto, il mezzo attraverso il quale è stato possibile per i figli d’Israele risalire in santità e giungere puri al grande appuntamento del Maamad har Sinai. Per ogni ebreo di oggi e di domani deve essere la stessa cosa. Se ognuno di noi la sera del Seder deve considerarsi come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto, il computo dell’Omer deve essere la nostra preparazione spirituale al ricevimento della Torà.
Il Maharal di Praga, alla domanda sul perché fu comandato ai figli d’Israele di contare ogni giorno dalla presentazione dell’omer di farina d’orzo fino a Shavuot rispose: questa mizvà ci insegna che è fondamentale la commistione tra farina e Torà.
Come disse Rabbi Elazar ben Azarià10, colui che sembrava avere settant’anni, im en kemach en Torà, im en Torà en kemach, se non c’è la farina non c’è Torà, se non c’è Torà non c’è farina.
Note
1 Esodo cap. 16, vv. 16-18-22-32-33-36; Levitico 23, 10-11-12; Deuteronomio 24, 19.
2 Rut 2, 7 e 15; Giobbe 24, 10.
3 Trattato di Rosh hashanà pagina 16 a.
4 Trattato di Menachot pagina 62 a.
5 Per altre sette mizvot c’è l’obbligo di eseguirle stando in piedi: recitazione dell’Hallel, lettura della Torà, lettura della Meghillà, suono dello Shofar, Amidà, preghiere che accompagnavano l’offerta della primizie e della decima, benedizione sacerdotale.
6 Levitico 25, 8.
7 Sefer Tania Rabbati par. 50.
8 Testo del Siddur di Roma.
9 cfr. discussione tra Abajè e i Chachamim della scuola di Rav Ashì in Menachot 66 a; Rav Alfas, Rabbenu Nissim Girondi, Josef Caro.
10 Avot 3, 17