Ogni anno, quando si avvicinano il 4 e 5 dicembre, spesso viene posta la domanda sul perché questi giorni del calendario civile siano stati scelti per iniziare a recitare la richiesta della pioggia nella ‘Amidà (preghiera) dei giorni feriali. Che c’entra una data non ebraica con la Halakhà? È lecito indicare nei siddurim di preghiera le date civili? Quest’ultima domanda è stata in effetti posta alcuni anni fa da un giovane bachur yeshivà italiano al suo rosh yeshivà, il famoso rav Yehoshua Neuwirth z.l., il quale si è fatto portare un voluminoso tomo del Tur Orach Chaim, il codice di rabbì Yaakov ben Asher. Al cap. 117 il Rav ha mostrato un paragrafo del Bet Yosef, il commento di rabbì Yosef Caro (l’autore dello Shulchan Arukh, che proprio sul Tur si basa), dove è scritto che la richiesta della pioggia va fatta a partire dal 22 novembre (scritto proprio così, in lettere ebraiche) o dal 23 novembre negli anni in cui il successivo mese di febbraio (anche questo così scritto) ha 29 giorni. E tra parentesi, nelle edizioni comuni risalenti all’Ottocento, è aggiunto, rispettivamente, 3 e 4 dicembre. Ma perché novembre e non dicembre, se l’indicazione nei nostri siddurim è dicembre? E perché tra parentesi nel Tur è indicato 3 e 4 dicembre piuttosto che 4 e 5, come abbiamo indicato sopra? Di seguito la risposta a tutte queste domande.
La richiesta della pioggia si aggiunge nella preghiera dei giorni feriali con le parole “wetèn tal umatàr” (nel rito italiano e ashkenazita queste parole si aggiungono alla usuale berakhà; nel rito sefardita tutta la berakhà è sostituita con un’altra che include quelle parole). Il passaggio dalla formulazione estiva a quella invernale avviene a partire da giorni differenti, a seconda che ci si trovi in Eretz Israel o nella Golà (Diaspora). In Israele la si recita dal 7 di Cheshwan in poi, ossia quindici giorni dopo la fine della festa di Sukkot. In realtà, il ricordo della potenza divina che fa sì che scenda la pioggia si aggiunge, in tutto il mondo, già dalla mattina di Sheminì Atzeret, l’ottavo giorno dall’inizio di Sukkot. Però, la richiesta vera e propria della pioggia è posticipata di quindici giorni per dare modo ai pellegrini saliti a Gerusalemme per festeggiare Sukkot di tornare ai propri villaggi senza trovare le strade infangate e inagibili.
Nella Golà, in particolare in Babilonia, che è il luogo di riferimento per tutta la Golà, la richiesta della pioggia si inizia il 60° giorno dopo l’equinozio autunnale. La motivazione della differenza trae origine dal fatto che in Mesopotamia, essendo un luogo basso rispetto alla terra d’Israele ed essendoci abbondanza di acqua, c’è meno necessità di pioggia (Talmud bavlì, Ta’anit 10a). Dato che l’equinozio è una data legata al moto (apparente) del sole, esso cade in un giorno preciso e fisso del calendario solare. Invece, in un calendario lunisolare come quello ebraico, la data dell’equinozio è mobile. Tuttavia, il 60° giorno dal 22 settembre (o 23, dipende dagli anni), ossia la data dell’equinozio autunnale, cade due settimane circa prima del 4 dicembre. Come mai quindi la data indicata nei siddurim di preghiera per richiedere la pioggia è il 4 dicembre per gli anni comuni e il 5 dicembre per gli anni precedenti l’anno bisestile?
Il Talmud nel trattato Eruvìn (56a) riporta l’insegnamento di Shemuèl, secondo cui l’anno solare è diviso in quattro stagioni (tekufòt), lunghe ciascuna 91 giorni e 7 ore e mezza: in totale l’anno dura 365 giorni e 6 ore. Shemuel, uno dei più importanti Maestri del Talmud, vissuto nel II-III sec. in Babilonia, a Nehardea, era chiamato anche Shemuèl Yarchinaa (da yarèach, luna) per le sue vaste conoscenze astronomiche (oltre che mediche). Di sé stesso diceva: “Le vie del cielo mi sono familiari come quelle di Nehardea” (TB, Berakhòt 58b). Un calcolo più preciso per la durata dell’anno solare è quello fornito da rav Addà bar Ahavà, secondo cui l’anno è più corto, rispetto al calcolo di Shemuèl, di circa 4 minuti e mezzo, ossia: 365 giorni, 5 ore, 55 minuti, 25 secondi e 25/57 di secondo. Anche rav Addà era un importante Maestro del Talmùd vissuto in Babilonia nel III secolo. È conosciuto per essere l’autore della Barayità de-Rav Addà, in cui si tratta del calendario luni-solare.
La durata dell’anno solare considerata da Shemuèl (365 giorni e 6 ore) è la stessa alla base del calendario giuliano, che è stato adottato da buona parte dell’umanità per più di 1500 anni. Il calendario giuliano è così chiamato perché fu introdotto da Giulio Cesare nell’anno 46 a.e.v., dopo essersi consultato con “i più insigni scienziati e matematici” dell’epoca, come è descritto da Plutarco nelle Vite parallele. Il sistema messo a punto prevedeva un anno civile lungo 365 giorni e, ogni quattro anni, un anno lungo 366 giorni, in modo da compensare l’avanzo annuo di 6 ore. L’equinozio fu fissato nel giorno 25 marzo. Per allineare il primo anno della riforma con l’equinozio, Cesare stabilì che in quell’anno fossero aggiunti due mesi, tanto che esso finì per avere un totale di 445 giorni e fu chiamato, appunto, “l’anno della confusione”.
La lunghezza dell’anno calcolata dagli astronomi di Giulio Cesare non è tuttavia identica alla durata effettiva dell’anno, come è noto già da diversi secoli. L’anno solare, in base ad accurate misurazioni, è lungo 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. L’anno reale è quindi più corto di circa 11 minuti rispetto all’anno del calendario giuliano. Questa differenza può apparire poco significativa, ma accumulandosi negli anni diventa consistente. In 1500 anni la differenza è di oltre 11 giorni: questo porta a uno spostamento indietro della data reale dell’equinozio. Alla fine del XVI secolo l’equinozio primaverile reale era retrocesso all’11 marzo. Come conseguenza, la pasqua cristiana risultava cadere in un periodo della stagione sempre più vicino all’estate, invece che in primavera come sarebbe dovuto essere. Il papa Gregorio XIII radunò quindi un consesso di astronomi e matematici per perfezionare e riformare il calendario, che è quello tuttora in uso ed è chiamato “calendario gregoriano”. Questa riforma prevedeva che nell’anno in cui fu introdotta, il 1582, venissero eliminati 10 giorni (dal 5 al 14 ottobre: in altre parole, dopo il 4 ottobre venne il 15); inoltre, per evitare che in futuro si accumulassero giorni in eccesso, si stabilì che fossero bisestili solo gli anni dei secoli divisibili per 400 (come il 2000, ma non il 1900 né il 1800 né il 1700). Infine, si fissò il 21 marzo come data per l’equinozio primaverile. La riforma gregoriana non fu accettata subito da tutti gli stati: ad esempio, la Gran Bretagna accettò il nuovo calendario solo nel 1752, il Giappone nel 1873 e la Russia nel 1917 – ma non la Chiesa orientale ortodossa, che continua a usare il calendario giuliano e, infatti, le feste ortodosse capitano in giorni diversi rispetto al resto del mondo cristiano.
La differenza fra il calendario giuliano e quello gregoriano fa sì che la data dell’equinozio primaverile e di quello autunnale, come fissate dal calcolo di Shemuèl (analogo al calendario giuliano), siano spostate in là rispetto al reale equinozio. In questo secolo, l’equinozio di primavera cade (nel calendario di Shemuèl e in quello giuliano) l’8 aprile: di conseguenza la Birkàt ha-chammà, la benedizione che si recita ogni 28 anni all’equinozio primaverile per il rinnovarsi del ciclo solare, è fissata all’8 aprile nel XXI secolo (come nel XX). Il dettaglio del conteggio è il seguente: fra il 21 marzo e il 7 aprile ci sono 17 giorni. Dieci di questi giorni sono quelli rimossi nella riforma gregoriana. Altri 4 giorni sono dovuti alla differenza fra la data fissata come equinozio nel calendario giuliano (25 marzo) e in quello gregoriano (21 marzo). Altri 3 giorni sono quelli “persi” negli anni 1700, 1800, 1900, che non sono bisestili nel calendario gregoriano ma lo sono in quello giuliano. L’anno 2000 è stato invece bisestile sia nel calendario giuliano sia in quello gregoriano, per cui non si è perso nessun giorno e la data per la Birkàt ha-chammà è identica nel XX secolo e nel XXI. Ugualmente, la richiesta della pioggia, che si recita dal 60° giorno dall’equinozio autunnale, a causa dello spostamento in là, si inizia nella sera del 4 dicembre (5 dicembre negli anni precedenti l’anno bisestile) nel XX secolo come nel XXI secolo.
Nel secolo XIX la Birkàt ha-chammà si recitava il 7 aprile e nel XVIII secolo il 6 aprile. La richiesta della pioggia si faceva, rispettivamente, a partire dal 3 o 4 dicembre nel XIX secolo, e dal 2 o 3 dicembre nel XVIII secolo. Nel 1542, anno di conclusione del Bet Yosef citato all’inizio, o anche nel 1550-59, anni in cui questa opera fu stampata, è riportato novembre e non dicembre perché la riforma gregoriana è del 1582, quindi successiva all’opera. E nelle edizioni ottocentesche del Tur, è stato aggiunto tra parentesi 3 e 4 dicembre, perché nel XIX secolo quelli erano i giorni in cui la pioggia si iniziava a chiedere nella Golà.
È facile vedere che con il passare dei secoli la data per la Birkàt ha-chammà e per l’aggiunta di wetèn tal umatàr si sposterà sempre più in là, tanto da far recitare la Birkàt ha-chammà in un giorno ben lontano dall’equinozio primaverile, mentre la richiesta della pioggia capiterà a inverno già iniziato. Come risolvere questo problema? La soluzione unanimemente proposta è che quando arriverà il Mashiach verrà istituito nuovamente il Sanhedrìn, che avrà l’autorità per introdurre tutte le modifiche del calendario che si riterranno opportune. Ciò già accadeva prima della dispersione del popolo ebraico nella Golà, quando il Sanhedrìn fissava il capo-mese e la durata dell’anno sulla base dei testimoni oculari della comparsa della nuova luna e dell’avanzamento della stagione, nonché in base a numerose altre considerazioni. Poiché uno dei capisaldi della tradizione ebraica è l’attesa per la venuta del Mashìach, l’inadeguatezza futura del calendario non è in questo momento un problema.
Sia la volontà che il Mashìach arrivi presto ai nostri giorni, amèn.
Per approfondimenti, si può consultare Birkàt Hachammà, Benedizione sulla creazione del sole, a cura di D.G. Di Segni, Morashà 5769-2009