Con chi non è disposto a mettersi in gioco si possono cercare solo accordi insignificanti
Lucetta Scaraffia
Giuseppe Conte, sempre così attento a dire cose che prevedono il gradimento generale, ha fatto un passo falso proponendo qualche giorno fa di aprire un dialogo con i taleban. Cioè con uno dei gruppi umani più impermeabili al dialogo. I punti di contrasto tra la cultura dei cosiddetti «studenti coranici», come spesso vengono definiti, e la nostra concezione del dialogo sono numerosi e irriducibili. I nuovi padroni dell’Afghanistan pensano che tutti debbano essere sottomessi a Dio, cioè a quella che viene considerata senza possibilità di discussione la sua legge, che non esistano confini nazionali, che la politica estera si concretizzi sostanzialmente nel jihad per diffondere l’islam, che non vi siano possibilità di pensare diversamente dal «partito» di Dio perché chi visi contrappone appartiene a quello di Satana. E si potrebbero ancora aggiungere altri elementi a sottolineare la totale impossibilità di dialogo, anche di tipo politico: le rassicurazioni firmate dai loro rappresentanti a Doha con quelli del governo statunitense, infatti, non sono state rispettate perché contrarie alla loro cultura.
Ma il fatto che Conte abbia invocato il dialogo persino con i taleban prova quanto sia alto, nella nostra società, il prestigio del dialogo: chi lo invoca, chi dice di praticarlo, appare sempre e infallibilmente buono, e quasi sempre non si approfondisce troppo quanto accade veramente. E cioè il fatto che viene considerato dialogo parlare con interlocutori poco, o per nulla, interessati a mettersi in gioco, e con i quali al massimo si possono cercare accordi su temi talmente generali da rasentare l’ovvietà, e quindi l’insignificanza. Tutti siamo contrari alle guerre, tutti siamo pronti a proteggere i deboli, almeno a parole. Invece il dialogo si ha soltanto quando si concretizza in un vero scambio di opinioni, in un autentico confronto di idee e di tradizioni.
Tra tutti i dialoghi possibili, quello che assicura il massimo del punteggio positivo è senza dubbio il dialogo tra le religioni, che però è anche il più manipolato proprio perché i protagonisti coinvolti hanno interesse a edulcorarlo. Al tempo stesso è anche il dialogo più difficile. Non è un caso che proprio alle origini della tradizione religiosa che accomuna ebraismo, cristianesimo e islam — i tre monoteismi da secoli in conflitto, anche politico — c’è un episodio che costituisce un chiaro avvertimento della pericolosità del dialogo: il primo documentato tra esseri umani è il dialogo tra Caino e Abele, e tutti sappiamo come è finito.
A ricordarlo sono Ugo Volli e Vittorio Robiati Bendaud in uno stimolante libro che sta per uscire, Discutere in nome del cielo, in cui è ricostruita la storia del dialogo nella tradizione occidentale, a partire dalle radici greche ed ebraiche, rilevandone la complessità e i pericoli che ne derivano per la convivenza umana.
No, non basta accettare il dialogo per essere buoni: anche Socrate, il fondatore della cultura democratica intesa come dialogo, pensa che proprio nel dialogo—confronto verbale in cui si forma la verità —ci deve essere una tesi che prevale, e spera che a prevalere sia la verità. Opponendosi così ai sofisti, i quali pensano che vinca il dialogo chi è più esperto nell’arte dialettica, indipendentemente da cosa sostiene. La triste fine di Socrate è però prova eloquente che non sempre la verità prevale: chi la sostiene può lasciarci la vita.
Nella Bibbia il dialogo è soprattutto l’esperienza dell’incontro dell’essere umano con Dio, quindi in una forte asimmetria tra me e l’altro, un modello forte che implica distanza e rispetto: valori da salvaguardare anche nei dialoghi tra esseri umani— sostiene Volli—perché da essi dipendono libertà e individualità. Esattamente per questo motivo Lévinas scriverà che il punto chiave della libertà non è la rivendicazione dei propri diritti, bensì dei diritti dell’altro. Nella Bibbia il dialogo ha una valenza etica, non gnoseologica, cioè non mira ad arrivare a una conoscenza del bene, ma mette alla prova le persone coinvolte per giudicare di volta in volta i comportamenti: quando il dialogo fallisce, c’è a monte il fallimento di una dimensione etica. È un dialogo che non mira a convincere, ma avvia una discussione per riflettere su quale sia un comportamento eticamente accettabile. Tutt’altra cosa è la nostra forma di dialogo scientifico, che poi influenza in modo più largo ogni altro dialogo: si tratta di una lotta per dimostrare in termini razionali l’errore dell’interlocutore.
Anche se nella tradizione il dialogo tra religioni prende spesso la forma di una disputa tra due sapienti che prevede la prevalenza di uno dei due, ovviamente quello appartenente alla religione del narratore, oggi non può più essere pensato come un confronto che prevede un «vincitore», uno che prevale sull’altro. Secondo i due autori, può esistere solo se si rifa alla tradizione ebraica, una tradizione che richiede riconoscimento, verità, attenzione alla dimensione etica. E deve fondarsi, per essere credibile, sul riconoscimento della legittimità dell’altro, inteso come pieno interlocutore nel rispetto di alcuni principi etici universali. Ovviamente questo riconoscimento comporta sempre un rischio, quello della conversione.
La proposta di instaurare o continuare il dialogo religioso -inteso come confronto vero può nascere solo da una autentica urgenza, da un bisogno di uscire dalla solitudine davanti alla secolarizzazione in corso o, più spesso, dalla necessità di rompere spirali di fondamentalismo e di violenza in atto. Ma, come ricordano in conclusione gli autori del libro, non può essere uno zuccheroso embrassons-nous, dal momento che «in esso ne va sempre dell’integrità intellettuale e spesso della sopravvivenza fisica e culturale degli interlocutori. Dunque, quel che conta non è tanto il tenere o rappresentare dei dialoghi, ma l’intento profondo, l’etica, con cui il confronto viene condotto». Per un vero dialogo tra le religioni, insomma, nonostante le numerose esperienze che vengono sbandierate in proposito, c’è ancora molto da lavorare.
Stampa del 26.9.21