Bruto è uomo d’onore. Volli prima viene in soccorso di rav Di Segni, poi lo bacchetta. Ritorna il mito dei “pochi ma buoni”.
Ugo Volli
Il dibattito sugli effetti dell’emancipazione e dell’unità d’Italia sull’ebraismo italiano mi sembra richiedere qualche precisazione. Bisogna innanzitutto sforzarsi di uscire da questioni puramente verbali. Il problema non è certo se l’uscita dai ghetti potesse essere inquadrata a metà dell’Ottocento in termini di identità, di nazione o magari della wittgensteiniana “forma di vita”, ma se noi possiamo comprendere oggi quel che è accaduto, sulla base delle migliori categorie di cui disponiamo, buone o vecchie che siano.
Trovo poi francamente irrealistico pensare che questo sia un periodo in Italia e in Europa di arroccamento identitario: tutt’al contrario, l’elogio del “meticciato” e della “multiculturalità” è largamente dominante nella politica europea come sui media e fra gli intellettuali. Il problema non è però neppure se l’emancipazione (conseguenza da noi dell’Unità) sia stata o meno un fatto positivo per gli ebrei: basta pensare al caso Mortara o alle condizioni degli ebrei romani nel ghetto sotto il dominio dei papi per vedere che non solo l’unificazione del paese fu un progresso per i nostri antenati, ma costituì una straordinaria liberazione, un sollievo tale da meritare le lapidi che vi sono state dedicate in sinagoghe come quella di Casale. E naturalmente non si tratta neppure di una vicenda solo italiana, perché è immediato vederne gli equivalenti in tutti i paesi occidentali.
Il problema serio posto da Rav Di Segni è se non vi sia stato un prezzo pesante pagato per il percorso successivo a questa liberazione, ovvero è se con l’Unità vi sia stata solo un’emancipazione o anche un’assimilazione, cioè una forte depauperazione della specificità della vita ebraica, della vitalità e dell’autonomia culturale delle comunità, una de-culturazione ebraica, in termini di conoscenza e di pratica dell’ebraismo, la sua riduzione da “forma di vita” a “religione mosaica”, per usare un termine del tempo. La risposta mi sembra evidente. La perdita vi è stata, ma non è connessa al fatto dell’Unità o dell’emancipazione, bensì al modo cui vi reagì il mondo ebraico, non più costretto dall’oppressione a stare assieme e a conformarsi quindi al comportamento tradizionale: una sfida alta che ha avuto una risposta insufficiente.
In altri paesi l’emancipazione produsse il movimento riformato, l’idea che l’ebraismo dovesse accettare la sfida della modernità; ma i riformati caddero certamente allora in alcuni errori di superficialità e di imitazione piatta dei costumi circostanti, oggi evidenti a tutti, incluso lo stesso movimento reform; ma almeno suscitò un dibattito, produsse un pensiero articolato di storia ebraica (dato che la Wissenschaft der Judentum nasce in quell’ambiente), di teologia e filosofia, con grandi pensatori come Geiger, Leo Beck, Hermann Cohen. Lo stesso sviluppo della corrente che oggi si usa chiamare “modern Orthodox, a partire da Samson Raphael Hirsch, fu una reazione produttiva e creativa rispetto a questo movimento, una controspinta.
In Italia, a parte qualche esponente di rilievo come Elia Benamozegh, Samuel David Luzzatto e il rabbino di Torino Salomone Olper (emarginato quest’ultimo nel ’65 per aver provato a introdurre innovazioni nella shivà, come racconta proprio Gadi Luzzatto Voghera nel “Prezzo dell’uguaglianza”, Franco Angeli 1988), l’ebraismo italiano preferì una soluzione “cattolica”, con rabbini trattati un po’ come preti lasciati a rispettare pienamente le regole della vita ebraica, viste come sempre più “strane” e neppure ben comprese dai “laici” dalla comunità, quasi fossero le regole di un bizzarro ordine clericale; mentre costoro erano liberi di ignorarle e anche di non conoscerle, dimenticando così che l’ebraismo non è semplicemente una “fede”, ma una forma di vita autonoma e completa.
Sono perfettamente d’accordo con Rav Di Segni che l’emancipazione così realizzata segnò per l’ebraismo italiano una perdita di identità (se non piace la parola: di cultura, di consapevolezza, di attaccamento, di sapere). Mi sembra impossibile sostenere il contrario. Credo si possa dire di più: che paradossalmente la sopravvivenza dell’ebraismo nel nostro paese è in buona parte frutto involontario degli antisemiti, o meglio del riflesso di resistenza del nostro popolo di fronte alle oppressioni. O, se si vuole, possiamo riportare alla nostra storia le osservazioni di Fritz Heymann in quel libro importante che è “Morte o battesimo” (Giuntina 2007): vi è una certa somiglianza di condizione fra marranesimo e assimilazione novecentesca, soprattutto nella volontà degli ebrei assimilati e dei conversos di abbandonare i costumi dei padri e di primeggiare in una società per cui erano disposti a pagare il prezzo dell’assimilazione; e vi è una tragica somiglianza nel rifiuto della società ad accettarli che portò alle persecuzioni e poi a un ritorno, spesso dolorosissimo mai facile e mai di tutti. Il problema è che l’ebraismo italiano non seppe, nel molti decenni fra l’Unità e le persecuzioni, proporre abbastanza ai suoi membri la gioia e l’orgoglio di essere insieme liberi e ebrei, ebrei in senso proprio e consapevole in un contesto di libertà di scelta. L’orgoglio della condizione ebraica, la fierezza della nostra storia e del nostro pensiero e la volontà di continuarla sono state felici ma abbastanza rare eccezioni.
A me sembra che la perdita di identità sia proseguita negli ultimi decenni, perché l’ebraismo italiano organizzato ancora non ha saputo per lo più parlare ai suoi “lontani”, a coloro che sono ebrei per origini ma non sono particolarmente interessati ad esserlo e preferiscono lentamente lasciar affogare la loro identità fra le mille qualifiche di ciascuno. E non ha saputo parlare neppure ai suoi “vicini”, coloro che vorrebbero essere quel che sono –ebrei-, ma faticano a seguire norme e costumi difficili, che sono state a un certo punto notevolmente irrigiditi di nuovo. Vi è stata infatti, a partire da una ventina d’anni fa, una correzione abbastanza brusca del lassismo “cattolico” di un tempo, ma essa non ha saputo pensarsi, spiegarsi, presentarsi a sufficienza, non ha seguito un programma autonomo, è stata prevalentemente frutto di adeguamento a tendenze internazionali, non è stata capace di rivendicare quella capacità di dialogo di apertura e di moderazione che è stata caratteristica non solo dell’ebraismo italiano dopo l’Unità, ma ben prima dell’apporto ebraico al Rinascimento e all’Umanesimo e all’Illuminismo.
Il nostro ebraismo non si è posto, fino a tempi piuttosto recenti, il problema di recuperare e conservare l’adesione degli ebrei italiani, non ha saputo comunicare abbastanza con loro, talvolta si è fatta prendere dalla vertigine faziosa dei “pochi ma buoni”. Non ha cercato di comprendere e di includere le spinte sociali centrifughe inevitabili in una piccola minoranza, come il frutto dei matrimoni misti: spesso si è limitata a demonizzarli. Non ha amministrato con intelligenza il compromesso e la moderazione, si è lasciato ricattare dall’integralismo di ebraismi lontani e non migliori del nostro.
Bisogna riconoscere che è in corso negli ultimi anni uno sforzo di chiarezza e di identificazione (il precedente di qualunque identità) che in passato non si era tentato. E di questo fa parte, è importante dirlo, un rapporto con il popolo ebraico nel suo complesso e soprattutto con Israele, che è anch’esso più consapevole e comunicante che in passato. Ma tutto questo non basta, c’è bisogno di pensiero autonomo, di volontà di comunicare, di fiducia verso un ebraismo capace di dialogare con la modernità. Per questa ragione il dibattito e una presenza pubblica che non sia semplicemente politica, ma sempre più culturale e identitaria, sono più necessari che mai.
Dalla newsletter L’Unione Informa 16 febbraio 2011