Corrado Augias
Il saggio di David Kertzer sul pontefice, i suoi atteggiamenti nei confronti di Hitler e di Mussolini. E le critiche del Vaticano
Qualche anno fa uscì un saggio dello scrittore britannico John Cornwell molto polemico fin dal titolo nei confronti di Pio XII: Il papa di Hitler. Era un’ingiusta esagerazione. Papa Pacelli non era filonazista, al contrario detestava l’aspetto anticristiano e quasi demoniaco di quella sinistra ideologia. Quello che si può dire è che il suo atteggiamento nei confronti dei due dittatori Mussolini e Hitler fu così cauto da farlo quasi apparire connivente. È in buona sostanza ciò che sostiene David Kertzer nel saggio appena pubblicato: Un papa in guerra (Garzanti) oggetto della polemica che s’è intrecciata (24 e 25 giugno) su queste pagine. Protagonisti lo stesso Kertzer e lo storico cattolico Matteo Luigi Napolitano. Buona polemica, vorrei aggiungere, in buona fede da entrambe le parti, con ragionevoli argomenti.
Da spettatore interessato alle vicende della chiesa cattolica (strettamente intrecciate alla storia italiana) ho ricavato l’impressione che Napolitano punti soprattutto a difendere l’azione di Pio XII analizzando singole frasi o parole; dal saggio di Kertzer invece si ricava una visione complessiva sul comportamento di Pacelli in quegli anni orribili. Saltano per esempio agli occhi due vistose lacune. La prima è la mancata difesa dei cattolici polacchi e dello stesso clero di quel paese dopo l’invasione ordinata da Hitler (Settembre 1939) che fu poi la causa scatenante della Seconda guerra mondiale. L’altra, tremenda, fu il suo silenzio quando le SS con l’aiuto dei fascisti italiani rastrellarono il ghetto di Roma avviando più di mille ebrei allo sterminio di Auschwitz. I camion con i prigionieri vennero fatti passare quasi sotto le finestre del papa, fosse quello un percorso obbligato o uno sfregio voluto.
Gli ebrei romani erano i “suoi” ebrei, un altro papa venuto qualche decennio dopo li avrebbe chiamati “i nostri fratelli prediletti in certo modo i nostri fratelli maggiori”. Pacelli invece rimase in silenzio. Lo storico Napolitano ricorda che in un verbale vaticano figura la frase: “La Santa Sede non deve essere messa nella necessità di protestare. Qualora la Santa Sede fosse obbligata a farlo, si affiderebbe, per le conseguenze, alla Divina Provvidenza”. La Divina Provvidenza è sicuramente una buona ispiratrice ma chiamarla in causa per quegli sventurati che intanto venivano ammassati nei carri bestiame e avviati al macello dopo disumane sofferenze, francamente appare insufficiente. Se poi quella frase alludesse a possibili scomuniche o altri gesti o provvedimenti pontifici di maggior vigore, basta ricordare che, nei fatti, nessun gesto seguì allo scempio nemmeno tardivo.
C’è anche un’altra parte di realtà che va ricordata: molti conventi si aprirono per ospitare ebrei e resistenti antifascisti mettendoli così al riparo dalla furia nazista. Il Papa non volle levare pubblicamente quella protesta, quel grido, che forse avrebbe limitato l’orrore; in compenso permise che, in silenzio, si prestasse qualche soccorso. Le autorità d’occupazione ovviamente sapevano, e tacquero. Nei fatti, si stabilì una specie di tacito patto in forza del quale ognuno giocò silenziosamente il suo ruolo. I nazisti e i loro complici fascisti (comprese alcune feroci bande irregolari come quella di Pietro Koch) continuarono nel loro crudele lavoro, i conventi ospitarono chi riusciva a entrarvi.
È proprio questo il punto che meglio descrive il carattere dell’uomo Eugenio Pacelli, il senso del suo pontificato, per l’aspetto in discussione. Pacelli era un cattolico all’antica, s’era formato nei seminari dove l’antigiudaismo (preciso: non antisemitismo) era parola corrente. Dove il “popolo decida” era ancora sferzato dalle tremende parole di Matteo 27,24: “Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli”. Parole, faccio notare, che papa Ratzinger avrebbe poi definito “storicamente infondate”.
La sua cultura era quella di un rampollo della piccola nobiltà romana, figlio di un avvocato rotale, legato alla tradizione, consapevole che i tempi sarebbero stati difficili per la Chiesa anche dopo la fine della guerra. La sua concezione della verginità femminile, per esempio, si rifaceva a quella delle origini cristiane, fu lui che volle santificare Maria Goretti, una povera creatura uccisa a 12 anni per aver resistito a un tentativo di stupro. Fu lui a voler proclamare, nel 1950, l’ultimo dogma sulla Madonna: assunta in cielo in corpo e anima. Era una credenza a lungo coltivata dalla più ingenua pietà popolare. Erigerla a dogma di fede causò non pochi contrasti come del resto era già avvenuto quando Pio IX aveva proclamato l’altro dogma mariano dell’Immacolata Concezione (1854).
Quel suo retroterra culturale andava insieme a un temperamento non particolarmente intrepido. Diverse fonti, tra l’altro, lo descrivono intimidito dal Führer tedesco, semmai più vicino a Mussolini di cui sicuramente percepiva l’intima natura di commediante e sul cui appoggio per ammansire Hitler probabilmente contava.
Eugenio Pacelli viene unanimemente descritto come abile diplomatico. Fu lui l’autore materiale del concordato con la Germania (luglio 1933, tuttora valido) a nome di Pio XI. Aveva sinceramente a cuore il destino dei cattolici tedeschi in un paese largamente luterano e la sorte della Chiesa. Uno dei suoi timori era che un fermo atteggiamento antinazista avrebbe danneggiato la sorte dei fedeli cattolici.
Pio XII non fu un complice dei nazisti, gli mancò quel coraggio che (azzardo) un uomo come Karol Wojtyla avrebbe probabilmente dimostrato. È stato un uomo impari alla sfida suprema di quegli anni. Si può essere d’accordo con Kertzer quando scrive: “Come leader morale Pio XII dev’essere considerato un fallimento”.