Dario Calimani*
Di fronte alla proposta di un Tribunale rabbinico unico che coordini a livello nazionale i percorsi di conversione e decida sugli stessi, rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della maggiore Comunità ebraica italiana scrive sull’Unione informa: “Non si potrebbe essere più sinceri e chiedere semplicemente e direttamente quello che si vuole in realtà (procedure facili e una corte controllabile)?”
Di fronte a una posizione del genere si rimane basiti, e ci si chiede se l’unica preoccupazione del rabbinato italiano (posto che rav Di Segni ne rappresenti il massimo pensiero) non sia quella di mantenere il proprio potere e affermare la propria autorità; e ci si chiede se il rabbinato italiano si renda conto della gravissima situazione di sfaldamento e degrado in cui si è esso stesso si è ridotto, trascinando con sé l’ebraismo a cui invece avrebbe dovuto far da guida.
Non si possono rivolgere al proprio interlocutore surrettizie accuse di demagogia usando poi quella stessa demagogia per rispondere ai suoi supposti obiettivi: da un Beth Din unico non ci si aspettano regole ‘facili’, ma regole chiare e decisioni coerenti. Ci si aspetta che il Tribunale rabbinico prescinda da conflitti di interesse che caratterizzano invece i singoli rabbinati locali, che facilitano certi ghiurim e ne dilazionano all’infinito altri. Ci si aspetta che il Beth Din si dedichi full time all’impegno che la Comunità richiede, con l’insegnamento e con una guida sicura, priva di quelle incertezze e di quei ripensamenti che troppo spesso sconcertano chi ne fruisce.
Non si può rimanere sordi e ciechi di fronte alle istanze di una Comunità in crisi. E non si possono proibire fuori casa quelle cose su cui si sorvola in casa. L’uso di due pesi e due misure nel giudizio è proibito dalla Torah (Lev.19:35).
Insomma, anche il rabbino, anziché rinchiudersi a difesa nel proprio ristrettissimo guscio, deve misurarsi umilmente con le responsabilità del proprio ruolo quando in ballo è il destino di un’intera Comunità.
*Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Libero rabbinato in libere istituzioni – Gady Polacco*
Plaudo alla chiarezza con la quale il rav Riccardo Di Segni ha evidenziato (l’Unione Informa del 24 giugno 2010) una delle anomalie legate alla discussione circa l’eventuale riforma dello Statuto dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ovvero quella di voler incidere, attraverso una discussione ufficialmente legata alle regole di funzionamento dell’Unione e delle Comunità, su argomenti inerenti aspetti che invece, in campo ebraico, sono regolati dalle norme dell’Halachà.
L’esempio più eclatante, a mio modo di vedere, è quello di pensare,o di aver pensato, di introdurre nello Statuto un’esplicita previsione per i rabbini i quali dovrebbero definire un percorso per le conversioni, quasi che non vi fossero già delle regole alle quali attenersi. Se è ovviamente lecito discutere, se del caso, circa le modalità d’applicazione delle regole, ben diverso è voler indirizzare norme che appartengono a una diversa sfera di competenza. Insomma, parafrasando da liberale Cavour, “Libero rabbinato in libera UCEI”.
*Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Senza fiducia che parliamo a fare? – Anselmo Calò*
E’ singolare questa situazione per cui a polemizzare con rav Di Segni infine tocchi sempre a me. Lo faccio volentieri con tutto il rispetto che porto al mio Rav e con tutta la libertà che come componente della Keillà sento di avere.
Parliamo allora del Bet Din unico, sono tra i sostenitori della proposta, anche se l’ho articolata non come una “cosa unica”, che ha sede a Roma nell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Quel Bet Din c’è già, non l’ho inventato io, ma due illustri nostri Maestri: Angelo Sacerdoti e David Prato, più di ottanta anni fa. Mi riferisco alla Consulta rabbinica, già prevista nella Legge del ’30 e poi confermata dallo Statuto dell’ebraismo italiano, essa è composta da tre rabbini maggiori eletti dal Congresso ogni quattro anni. Tre rabbini, già formano un Bet Din, se poi a questo istituto lo Statuto demanda compiti di giudizio, tanto da equipararlo in taluni casi, al Collegio dei probiviri, come vogliamo definire questo consesso? Ma in realtà non è di questo Bet Din, che è di un genere particolare, che stiamo trattando.
Quanti Batè Din esistono oggi in Italia? Due, tre? La proposta è che ne esista uno solo, articolato in sezioni; che le sezioni possano essere locali, quindi in sede fissa, o formate di volta in volta, come accade nei tribunali superiori, a seconda della competenza. Su questo non ho idee precise, discutiamone.
Sul fatto però che in taluni casi, anche di ghiurim, certe linee di tendenza possano essere decise, come avviene per esempio alla Corte di Cassazione “a Sezioni Unite”, mi sembra opportuno, e una garanzia per tutti, giudicanti e giudicati.
Lascio ai Rabbanim decidere se nelle conversioni bisognerebbe utilizzare un criterio unico, quello che vedo è che questo criterio unico non c’è. E’ un bene, è un male? Non lo so. E francamente non mi interessa, perché personalmente non mi appassiono ai ghiurim, persuaso come sono che questi vanno fatti seguendo l’Halachà. Tuttavia, lo sappiamo l’Halachà come ogni legge è soggetta a interpretazione, interpretazione che risente dello spazio e del tempo. L’importante per me è che l’interprete sia idoneo ovvero sia un rabbino.
Rav Di Segni ricorda che nel Regno Unito ci sono vari Tribunali rabbinici: Haredim, Sefardim, della Federation, per non parlare degli USA. Bene, è questo che auspica il mio rav? Che presto ci sia a Roma un Bet Din Lubavic e un Bet Din della Federation?
Personalmente preferirei che i Batè Din italiani collaborassero in unica struttura, come rav Di Segni ricorda che avviene in Francia, dove i Tribunali rabbinici sono tra loro collegati nel Concistoire.
Ciò che più mi ha spinto ad intervenire è la considerazione finale di rav Di Segni: “Non si potrebbe essere più sinceri e chiedere semplicemente e direttamente quello che si vuole in realtà (procedure facili e una corte controllabile)?”
Trovo questa domanda scoraggiante. Perché caro rav, non dovrei essere sincero con Lei e con tutti gli altri ebrei quando penso a un Bet Din italiano articolato per sezioni, al solo fine di avere decisioni coerenti, se è possibile, per tutte le nostre Keillot? E sopratutto perché non dovrebbe esserci un unica autorità che rilasci certificati di Kasherut per i molti prodotti alimentari fabbricati in Italia ed esportati in tutto il mondo?
Potrei sostenere che la Consulta Rabbinica è già un Bet Din a tutto tondo, e se pensassi veramente di influenzarla, forse, in astratto, sarebbe anche possibile visto che i tre componenti sono anche componenti del Consiglio dell’Ucei eletti, ma non penso a un Bet Din eletto, tutt’altro.
Le Corti sono autorevoli e non controllabili se i loro componenti sono autorevoli e non influenzabili, ed è questo il Bet Din a cui penso, un Bet Din fatto da Rabbanim autorevoli, e che credano per primi loro stessi nella loro autorevolezza.
In definitiva se vogliamo veramente riorganizzare la Governance delle nostre istituzioni dobbiamo uscire dalla cultura del sospetto, perché se non c’è fiducia tra noi, che parliamo a fare?
*Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Dalla newsletter L’Unione informa 25.6.2010