CAPITOLO 3 – Dall’alterità alla soggettività: un io “femminile”?
3.1. Una svolta inattuale: pensare l’altrimenti che essere.
Focalizzandosi sulla riflessione di Levinas posteriore alla pubblicazione di Totalità e Infinito con il fine di seguire le tracce del femminile si è di fronte ad un evento apparentemente insolito. Il femminile, che pur ha avuto un ruolo importante nelle riflessioni levinassiane sin dalle origini, sembra scomparire misteriosamente. Se già in Totalità e Infinito, in virtù della posizione centrale assunta della relazione etica e dalla rivelazione del Visage, il femminile aveva subito un notevole cambiamento rispetto all’iniziale posizione del rapporto erotico come “origine del sociale”, dopo gli anni Sessanta sembra sparire dalle riflessioni del filosofo. Infatti, ad esclusione di alcune brevi considerazioni elaborate in Desacralizzazione e liberazione dalla magia e della più ampia trattazione del rapporto fra umanità dell’essere umano e differenza sessuale contenute in E Dio creò la donna, due letture talmudiche del 1973, nelle opere più propriamente filosofiche di Levinas l’alterità femminile, prima abbastanza ricorrente, non ha più una presenza esplicita e non riceve ulteriori specificazioni da parte del filosofo.
Tuttavia, nonostante il femminile come modo di Altri non compaia più esplicitamente negli scritti di Levinas, questo capitolo cercherà di mostrare come non ci si trovi di fronte ad una semplice scomparsa del concetto in quanto tale, ma ad una sua metamorfosi che si inserisce all’interno di una prospettiva più ampia, ovvero una “svolta” nella riflessione levinassiana che consiste nella scelta di un nuovo punto di vista che funge da base per le riflessioni del filosofo. Come fa notare di Bernardo a proposito di Altrimenti che essere, l’opera più nota di Levinas del periodo posteriore alla produzione di Totalità e Infinito, se: «la terminologia ed il tema del femminile scompaiono misteriosamente, le ragioni possono essere ricercate nella diversa prospettiva che il testo assume» [1].
È dunque necessario, per rendere più chiare le sorti del femminile nello sviluppo del pensiero di Levinas, cercare di capire per quale motivo, ad un certo punto delle proprie riflessioni, il pensatore abbia avvertito come necessario un cambiamento di prospettiva.
Si può sostenere che Totalità e Infinito, nonostante le intenzioni del filosofo, non sia riuscito a distanziarsi abbastanza dall’ontologia tradizionale. Uno dei maggiori critici di Levinas a tal proposito è Jacques Derrida, il quale fa notare come i problemi del testo levinassiano siano essenzialmente problemi linguistici[2] per cui, nonostante la critica all’ontologia tradizionale, il filosofo non ha potuto evitare di servirsi delle categorie della stessa linea di pensiero dalla quale avrebbe voluto distanziarsi. Per esempio, Derrida fa notare come l’esteriorità, concetto che ha un ruolo fondamentale nell’intera architettura di Totalità e Infinito e che contraddistingue il modo della rivelazione del Visage, sia una metafora spaziale tratta dal discorso filosofico che allude alla “luce” ed all’ “intellezione”[3].
Lo stesso Levinas, in una prefazione all’edizione tedesca di Totalità e Infinito, nel 1987 riconoscerà come Altrimenti che essere sia un’opera costruita con l’intenzione di evitare il linguaggio ontologico-eidetico dell’opera del 1961[4]. Si tratta, dunque, di realizzare pienamente quell’evasione dall’essere che, pur presente nelle intenzioni del filosofo sin dalle prime opere, non aveva trovato una prospettiva adeguata per realizzarsi.
Questo tentativo si concretizza mediante un cambiamento di prospettiva per cui, mentre nelle opere precedenti Levinas aveva posto l’accento sul rapporto fra Medesimo e Altri e sulla rivelazione del volto come punto di rottura della totalità dell’essere, adesso il punto di vista fondamentale è quello della soggettività etica, nella quale viene rintracciata una trascendenza che, come si vedrà più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, fa assumere al soggetto una fisionomia “femminile”. Questo capitolo cercherà di cogliere questo aspetto della soggettività attraverso un metodo che si colloca sulla stessa linea dei precedenti, non esaurendosi esclusivamente nell’analisi di singoli testi, ma cercando di intrecciarli per rintracciare la possibile, implicita immagine del “femminile” che emerge nelle opere più mature di Levinas. Naturalmente, rispetto ai capitoli precedenti, l’indagine si trova dinnanzi l’inevitabile complicazione della non più esplicita presenza del tema, ad eccezione della metafora della maternità presente in Altrimenti che essere, un’immagine che ha dei rimandi alla donna, elemento questo che nelle opere precedenti si legava ambiguamente al femminile. In questo capitolo si presterà particolare attenzione a Umanesimo dell’altro uomo e, soprattutto, ad Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, testi nei quali più distesamente si ritrovano tracce del problema oggetto della presente tesi. Tuttavia, sarà necessario prendere in considerazione anche alcuni passaggi di opere precedenti o successive per chiarire meglio alcuni concetti collegati alla nuova visione della soggettività che Levinas propone. Infine, il paragrafo conclusivo darà un ulteriore sguardo al rapporto tra “femminile” e “giudaismo” quale emerge nelle due letture talmudiche precedentemente menzionate, E Dio creò la donna e Desacralizzazione e liberazione dalla magia che permettono di chiarire come Levinas collochi l’umanità dell’essere umano al di là della differenza di genere.
Si rende tuttavia necessario, prima di affrontare più nel dettaglio questi problemi, cercare di capire brevemente gli elementi fondamentali che costituiscono la svolta di pensiero che realizza l’evasione dall’essere che le categorie di Totalità e Infinito non rendevano ancora possibile.
Ciò che Levinas propone è la possibilità di rompere totalmente con le categorie ontologiche e questo è possibile, come fa notare Petrosino, attraverso una radicale attuazione dell’abbandono di ogni logica di critica ed opposizione, al di là dell’essere e del non-essere e verso una via del terzo escluso, dell’altrimenti che essere[5]. L’evasione dall’essere attraverso la sua negazione, il non-essere, si dimostra del tutto fallace perché essere e non-essere appartengono alla stessa dialettica, quella dell’essere. Infatti, negare l’essere vuol dire ancora avere a che fare con l’essere poiché il non-essere non è il nulla, ma il sordo fruscio dell’il y a[6], l’essere neutro ed anonimo che subito riempie la negazione e che inquietava il filosofo sin dagli scritti degli anni Quaranta.
Dunque, il pensatore propone un’alternativa al binomio amletico to be/not to be, un altrimenti che essere che significa concretamente uno sradicamento dell’essenza del soggetto. Non casualmente, “al di là dell’essenza” è anche il sottotitolo dell’opera del 1974. Per “essenza” il filosofo intende l’interessamento, il conatus essendi degli enti, ovvero la loro persistenza nell’essere. Si tratta di un termine tratto dalla filosofia di Spinoza e, come nota Burggraeve, viene utilizzato rispetto ad una concezione essenzialmente egoistica della natura umana, per cui Levinas ritiene che questa non sia spontaneamente tesa al bene, ma descrivibile :
as effort and tension of existing. As an individual being, the I is persistent in its concern with its own existence, and tries obstinately to maintain itself. The “natural” or spontaneous being of the I is self-interest: its esse is inter-esse. This implies that the I also approaches the other person from an “interested” position, which is to say that it tries to integrate the other into its project of existing as a function, means, or meaning[7].
Levinas utilizza anche il termine “essanza” per esprimere l’evento della persistenza nell’essere il quale, più precisamente, coincide con la coscienza intesa come raccoglimento in sé, persistenza dell’identità nel tempo grazie alla rappresentazione che costituisce «l’energia stessa che l’essere mette nell’essere […]. La presenza ritorna su se stessa nella rap-presentazione e si colma o, come dirà Husserl, s’identifica»[8].
Si tratta del significato tradizionale della soggettività, indagata in relazione alla conoscenza della verità e quest’ultima intesa come esibizione dell’essere[9]. Il soggetto è concepito essenzialmente come attività, intelligenza dell’essere e, dunque, il senso più profondo dell’io risiede nella coscienza in rapporto al tema che le si pone di fronte.
Recuperando un tema che era stato già introdotto negli scritti degli anni precedenti, Levinas chiarisce come la coscienza consista nell’attività, nella capacità di un inizio, un presente, ovvero un certo modo di temporalizzarsi che consente al soggetto, nel mutamento, di ritrovarsi e mantenersi in sincronia. Ciò è reso possibile dal recupero del passato mediante la memoria e dall’anticipazione dell’avvenire grazie dall’immaginazione, modalità attraverso le quali ogni alterazione viene assorbita. L’io della coscienza, dunque, rimane essenzialmente chiuso in sé.
L’essenza, ovvero la coscienza come persistenza nell’essere, è alla base di una molteplicità di individui che, invischiati nell’interessamento, sarebbero allergici ad ogni contatto con l’alterità[10]. Il dominio dell’interessamento si esplica per Levinas nella modalità del detto, un linguaggio che è riflesso del pensiero e consiste in un sistema di nomi e verbi attribuiti a delle entità, un modo di designazione che rende possibile un significato comunicabile traducendo il reale in un insieme di oggetti[11]. Come si vedrà più avanti, Levinas non intende negare totalmente l’importanza del detto, in quanto la tematizzazione è necessaria al giudizio ed alla comparazione, elementi che sono indispensabili alla giustizia.
Tuttavia, il tentativo fondamentale del filosofo è quello di rintracciare un significato antecedente rispetto al detto e, in questo, di ripensare radicalmente il senso della soggettività, sradicando la questione dall’essere e collocandola in un “altrimenti”[12]. È a partire da questo tentativo che, come fa notare Salmeri, può essere comprensibile la scomparsa dell’alterità femminile, perché la prospettiva fondamentale d’indagine diventa quella della soggettività e di una rottura dell’essenza e dell’interessamento, ovvero della persistenza dell’io nel proprio egoismo :
la dialettica Stesso-Altro, che dominava finora, si vede così contestata fin dal primo elemento: il «sé», l’umanità, la soggettività umana, è pensabile solo non come essente, ma come «altrimenti che essente» […]. È evidente che in questa nuova impostazione non c’è più spazio per un’alterità concepita esplicitamente come femminilità, semplicemente perché è il tema stesso dell’Altro che diventa in una certa misura secondario, o comunque non più prioritario in un mutato punto di vista[13].
Questo mutamento spiega come, nell’architettura di Altrimenti che essere, il tema dell’alterità in quanto tale occupi effettivamente poco spazio rispetto alle lunghe analisi sulla soggettività etica, nonostante la prossimità di Altri sia ciò che, come si vedrà nel prossimo paragrafo, permette di accedere al significato più profondo dell’io.
Il tentativo che muove le riflessioni del filosofo è quello di risalire al senso dell’umano in una realtà più originaria della tematizzazione e della cultura, che Levinas qualifica come dire. Il filosofo intende indicare con questo termine un’ “esperienza” che precede il linguaggio come sistema di segni, un senso che non si riduce all’esposizione di temi e che, anzi, costituisce la possibilità della comunicazione.
Il dire è inteso come senso etico per eccellenza, intrigo di responsabilità[14], ovvero un approccio al prossimo, perché il linguaggio come insieme di proposizioni è possibile solo in quanto “far segno”, esporsi ad Altri. Così, il dire non significa parlare in quanto comunicazione di significati verbali, ma coglie una realtà più antica del linguaggio apofantico, ovvero l’esposizione del soggetto all’altro, l’uno-per-l’altro che Levinas designa anche come prossimità.
Dunque, la coscienza non coglie la verità più profonda della soggettività che viene indagata fino al suo punto di estrema tensione e deposizione, di modo che il soggetto etico non è nocciolo duro, chiuso in sé, ma un’apertura radicale, un “nodo annodato”, una responsabilità per l’Altro prima che si realizzi qualsiasi linguaggio come sistema di segni. Pertanto, l’autentico inizio della comunicazione consiste nel rispondere ad altri e, come si vedrà parlando della sostituzione, di Altri[15]. Levinas cerca il senso più autentico della soggettività come precedente l’Io in quanto coscienza, come l’Altro nel Medesimo e convocazione alla responsabilità etica.
Si tratta, per il filosofo, di compiere un’espropriazione dell’identità della soggettività al di là del presente della coscienza per individuarne l’ipostatizzarsi in un passato più antico dell’origine, un passato immemorabile. Levinas si riferisce al passato con queste iperboli perché presentandolo semplicemente come “passato” non romperebbe ancora abbastanza con il primato della coscienza allorché, come si diceva, questa ha la capacità di assumere il passato mediante la memoria e di sospenderne la profondità indefinita[16].
Invece, il pensatore propone di pensare la soggettività in modo “inattuale”, ovvero diverso dalla presenza e dall’interessamento e proprio per questo egli pone a più riprese l’accento sul passato immemorabile, che mai può essere ripreso dalla memoria diventando un presente. Questa incapacità di assumere la responsabilità per l’altro si realizza in quanto non è frutto di alcuna libera scelta da parte del soggetto, ma si tratta di una convocazione da parte del Bene che precede qualsiasi impegno e decisione e che, pertanto, non può mai diventare un oggetto di conoscenza e rappresentazione. Se anche il soggetto si conoscesse in quanto responsabile per Altri, sarebbe in “ritardo” rispetto alla propria soggettività già coinvolta nell’essere-per-altri. Dunque, il filosofo può parlare di una responsabilità pre-originaria o anarchica proprio perché:
il soggetto non risalta sull’essere per una libertà che lo renderebbe padrone delle cose, ma per una suscettibilità preoriginaria, più antica dell’origine, suscettibilità provocata nel soggetto senza che mai la provocazione si sia fatta presente o logos che si offra all’assunzione o al rifiuto[17].
È chiaro che proprio in questi anni Levinas radicalizza la passività del soggetto che, in parte, aveva già tentato di attuare pensando l’io come accoglienza fra le pagine di Totalità e Infinito. Negli anni Settanta il linguaggio del pensatore si estremizza al punto da attuare un’operazione di transfert[18], per cui la soggettività etica significa la passività di un’esposizione totale ad Altri. Mi concentrerò più precisamente sulle modalità concrete della soggettività etica come passività ed esposizione, nonché sulle significative immagini iperboliche che Levinas utilizza per delinearne la fisionomia, nel prossimo paragrafo.
È necessario, tuttavia, per comprendere meglio tutta la portata del ripensamento levinassiano della soggettività, chiarire brevemente due punti. La prima questione è di carattere metodologico e riguarda il nuovo linguaggio utilizzato da Levinas in Altrimenti che essere, testo che sarà il riferimento privilegiato di questo capitolo. Si tratta, come sottolinea Petrosino, di una lingua tortuosa, di difficile traduzione, che fa spesso uso di iperboli ed argomentazioni non lineari[19]. La difficoltà del muoversi fra le riflessioni di Levinas riflette il problema di fondo del testo, ovvero l’esprimere nel “Detto” un “Altrimenti”, nel tradurre in concetto il dire an-archico e pre-originario, il senso etico dell’umano che proprio al concetto sfugge. In un certo senso, il tradimento dell’altrimenti che essere è una necessità perché il lavoro stesso del pensiero non potrebbe realizzarsi che mediante la tematizzazione. Quindi, il tentativo di Levinas consiste nel trovare un linguaggio adeguato per dire l’indicibile, in modo che nominando ciò che rifiuta l’oggettivazione si possano lasciare tracce di questa rottura del detto. Il tentativo è, dunque, quello di «strappare così l’altrimenti che essere al detto in cui l’altrimenti che essere si mette già a significare un essere altrimenti»[20].
Gli strumenti di questo pensiero audace, che tenta di evitare la ricaduta nella terminologia ontologica ancora presente negli scritti degli anni precedenti, sono diversi: il disdire il linguaggio ontologico, l’esagerazione iperbolica, l’uso di un lessico etico e di neologismi. Sono modalità diverse e, tuttavia, convergenti nel tentativo di cercare un modo adeguato per esprimere la trascendenza[21]. Proprio per questo motivo i concetti non seguono un ordine sistematico, ma vengono intrecciati fra loro e ripresi, spesso senza apparente continuità argomentativa.
La seconda questione alla quale è necessario accennare per avere uno sguardo più completo sulla soggettività riguarda la nuova elaborazione della tematica del Visage. Si tratta di un tema che è indispensabile trattare perché l’etica, come convocazione al bene prima di ogni libera decisione del soggetto, significa positivamente la responsabilità per Altri che si mostrano nel loro Volto[22].
Il visage si mostra negli scritti successivi a Totalità e Infinito con tratti di maggiore astrazione rispetto al passato, allorché un concetto costantemente associato ad esso è la “Traccia”, elemento che viene presentato da Levinas già in alcuni saggi[23] della prima metà degli anni Sessanta e poi ripreso negli anni Settanta.
La Traccia è un modo di segnalarsi particolare, diverso da un qualsiasi segno visibile. Come Levinas specifica, non si tratta di rintracciare a partire da un elemento tangibile, come farebbero un investigatore, uno storico o un cacciatore, un significato relativo al mondo. La vera traccia è un modo di assentarsi, di as-solversi, di restare in sovra-impressione; è il ritrarsi dell’Altro, il suo non compromettersi con il mondo pur sconvolgendone l’ordine. Infatti, la Traccia significa un al di là, un passato mai abbastanza passato, intraducibile ad un presente.
Levinas vi si riferisce anche come a un enigma poiché il suo modo di significare non coincide con uno svelamento o un contenuto della coscienza. È un’alternativa alle categorie dell’essere e del non essere, un Infinito che il pensatore declina alla terza persona dell’Egli grazie ad un neologismo, l’Illeità (Il, Egli). La terza persona significa l’al di là da cui la visitazione del Volto proviene e il richiamo ad un tempo diverso dal presente della coscienza. Dal passato immemorabile proviene, infatti, il comandamento che: «non fu mai presente, che non è cominciato in alcuna libertà. Questo modo del prossimo è volto»[24].
Il linguaggio della “traccia dell’Infinito” presenta, naturalmente, dei rimandi importanti alla spiritualità ebraica, allorché Dio si è mostrato al popolo eletto proprio nella sua traccia, rivelandosi e rimanendo al contempo assente. Levinas, parlando della traccia del Volto che chiama l’io a un dover essere nella responsabilità senza poter convertire l’ordine in assunzione nel presente, vi si riferisce come dismisura stessa dell’Infinito[25], precisando la propria preoccupazione relativamente alla possibilità che si possa trarre dal discorso una qualche conclusione relativa all’esistenza di Dio. Tuttavia, ciò che il filosofo intende non ha a che fare con il pronunciarsi sull’esistenza o non esistenza di Dio. Si tratta, piuttosto, di pensare Dio altrimenti, ovvero non come un ente supremo, ma come il compito etico, senza inizio e per questo anche senza fine (infinito) che significa la prossimità dell’uno-per-l’altro, l’esposizione al prossimo che costituisce il dire pre-originario. Il Visage è a immagine di Dio non perché ne sia effettivamente una riproduzione, una forma visibile della quale lo sguardo potrebbe appropriarsi. Andare verso Dio significa andare verso gli Altri che si mostrano nel loro volto[26].
Non si tratta, dunque, di porre una questione relativa all’esistenza di Dio, ma di darne testimonianza nella responsabilità verso gli uomini:
per l’altro uomo e da qui a-Dio! Così pensa un pensiero che pensa più di quanto pensi. Appello e responsabilità tanto più impellenti quanto più sono sopportati con pazienza: origine concreta o situazione originaria in cui l’Infinito si introduce in me, in cui l’idea dell’Infinito comanda lo spirito e la parola Dio giunge sulla punta della lingua. Ispirazione ed in questo modo avvenimento profetico della relazione al nuovo[27].
Tuttavia, se il linguaggio del Volto diventa da un certo punto di vista più astratto, d’altra parte nelle descrizioni dell’approssimarsi ad esso di Altrimenti che essere Levinas usa delle immagini concrete come quella del “Volto avvicinato”, della pelle rugosa e del contatto, elementi che potranno essere chiariti più precisamente nei paragrafi successivi, alla luce del modo in cui il filosofo affronta il problema della soggettività etica .
3.2. Un soggetto “femminile”: passività e vulnerabilità.
La soggettività etica, come anticipavo nello scorso paragrafo, assume una fisionomia che può essere definita “femminile”. Nel corso della trattazione indicherò fra virgolette questa modalità del soggetto perché si tratta di un termine che Levinas non usa mai in questo senso e trae significato, come si vedrà fra poco, dalla possibilità di rintracciare nel soggetto etico alcune caratteristiche prima associate ad altri-femminile, sia nel contesto dell’intimità della dimora che nell’erotismo.
A tal proposito, la pagina finale di Altrimenti che essere offre un’indicazione che permette di riaprire la questione del femminile senza limitarsi a risolverla con la constatazione della sua scomparsa come specifica modalità di Altri dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito. Scrive Levinas:
è necessaria questa debolezza. Era necessario questo allentamento senza viltà della virilità per il poco di crudeltà che le nostre mani ripudieranno. È il senso, particolarmente, che dovevano suggerire le formule ripetute in questo libro relative alla passività più passiva di ogni passività, alla fissione dell’Io fino a me, alla sua consumazione per altri senza che, dalle ceneri di questa consumazione, l’atto possa rinascere[28].
In questo passaggio conclusivo, Levinas riassume il senso dell’operazione radicale di ripensamento della soggettività che impegna non soltanto l’opera del 1974, ma più in generale il suo pensiero di quegli anni.
È significativo, da questo punto di vista, che il filosofo si riferisca all’allentamento della virilità proprio alla fine di un percorso che si è concentrato sulla soggettività etica. Il tentativo levinassiano consiste, infatti, nel descrivere il soggetto in termini diversi da quelli del conatus essendi che si concretizza nella coscienza come attività.
Se, dunque, Levinas al culmine del percorso di Altrimenti che essere recupera il concetto della virilità, che nelle opere precedenti era apparsa come l’antitesi del soggetto passivo e accogliente che il filosofo si proponeva di rintracciare, ci si può chiedere se questo significhi che il soggetto etico, “non virile”, possa definirsi “femminile”. Analizzando questo particolare aspetto del pensiero di Levinas si va incontro, inevitabilmente, ad una difficoltà fondamentale che è rintracciabile nella complessità del metodo d’indagine messo in atto da Levinas in Altrimenti che essere al quale accennavo nello scorso paragrafo. Come fa notare Ricoeur, è un testo particolare perché manca di un vero e proprio sviluppo argomentativo. Piuttosto, il lettore viene gettato in medias res e nelle pagine iniziali viene già anticipato tutto il nucleo del testo, rispetto al quale i capitoli successivi non si aggiungono l’uno all’altro seguendo uno sviluppo lineare[29]. Sarà, dunque, necessario richiamare fra loro i concetti, spesso senza possibilità di distinguerli nettamente l’uno dall’altro, coerentemente con la modalità espressiva scelta da Levinas. Per esempio, come si vedrà più avanti, risulta impossibile separare nettamente elementi come dire, prossimità, sensibilità e vulnerabilità, termini che si implicano vicendevolmente e fra i quali Levinas stesso elabora sovente una identificazione. Analogamente, le immagini iperboliche dell’ostaggio, della sostituzione, dell’ossessione, del malgrado sé si riferiscono tutte alla stessa visione fondamentale del soggetto come interruzione dell’essenza e apertura ad Altri, con un inevitabile rimando di queste immagini l’una all’altra. È solo tenendo presente questo modo di procedere che risulterà più comprensibile l’intreccio intricato di immagini con le quali Levinas pensa la soggettività etica.
3.2.1. Iperboli della passività.
La condizione del soggetto etico viene presentata da Levinas come passività più passiva di ogni passività. Si tratta di un’espressione che indica il tentativo del filosofo di attuare una radicalizzazione estrema del concetto di “passività”. Il soggetto chiamato alla responsabilità, infatti, non si trova in una condizione riassumibile nel semplice “subire”. A tal proposito, Levinas chiarisce come non si possa parlare della condizione di passività del soggetto come se gli si opponesse una forza materiale esterna o interna, quest’ultima rappresentata dal proprio corpo che “affliggerebbe”, con il proprio andare in rovina, il soggetto. La passività non può essere neanche pensata come opposizione alla società che costringe l’uomo al lavoro[30]. Sebbene Levinas non dedichi molto spazio alla spiegazione di questi esempi, si può sostenere che li evochi per indicare che, quando si pensa la passività in questi termini, questa non è radicale perché rimane assumibile.
Rispetto ad una materia esterna, il soggetto si porrebbe ancora a partire da un “interno”, da una chiusura in sé e, nel subire, potrebbe opporre una forma di resistenza. Nel caso della corporeità che impedirebbe il soggetto, l’assunzione consiste nella capacità di rappresentarsi il proprio impedimento, prendendo in questo modo distanza dalla propria corporeità. Nel caso della lotta sociale, il soggetto si pone ancora come colui che è oppresso e che può reagire, lottando. Invece, la passività più passiva consiste nella «mia ossessione per la responsabilità per l’oppresso altro da me»[31].
Dunque, la passività del soggetto si spiega in termini etici e significa non poter riposare nell’identità, essere impossibilitato a sottrarsi al per-Altri che significa la bontà stessa come ciò che il soggetto non ha voluto perché «il Bene non potrebbe farsi presente, né rappresentarsi. Il presente è il principio della mia libertà, mentre il Bene non si offre alla libertà: mi ha scelto prima che io lo abbia scelto. Nessuno è buono volontariamente»[32].
Hofmeyr sottolinea come proprio l’antecedenza della convocazione alla responsabilità rispetto alla libertà costituisca il nucleo della passività più passiva del soggetto etico:
the antecedence of responsibility to freedom signifies the Goodness of the Good: the necessity that the Good chooses me first before I can be in a position to choose, that is, welcome its choice. This is my pre-originary susceptiveness. My radical passivity consists in facing a responsibility that I cannot shoulder, for something that I have not done but which I cannot deny without denying myself[33].
Ciò significa sradicare il soggetto da se stesso e non poterne fare un’intimità ripiegata su di sé. Dunque, si tratta di rintracciare la soggettività non nella sua coscienza “virile”, ma nella passività dell’elezione da parte del Bene e «da ciò l’abbandono della soggettività sovrana ed attiva della coscienza di sé, indeclinata, come il soggetto al nominativo dell’apophansis»[34].
Si potrebbe forse contestare, rispetto alla lettura di quest’ultimo passaggio, che non solo la soggettività non è esplicitamente indicata come femminile, ma come Levinas non menzioni esplicitamente neanche la sua virilità . Tuttavia, sin dalle opere degli anni Quaranta e anche in Totalità e Infinito[35], l’io saldo nella coscienza era stato indicato con termini come “sovranità” ed “attività”, tratti questi da sempre associati dal filosofo alla dimensione virile e che vengono riproposti anche in Altrimenti che essere. Scrive a tal proposito Orietta Ombrosi: «lo sforzo principale di Levinas in Altrimenti che essere è proprio la destituzione totale di un soggetto che, dopo secoli di storia della filosofia, è sempre stato pensato attraverso le categorie virili del sapere, del potere, e perfino della guerra»[36].
All’inizio degli anni Settanta, dunque, si compie il tentativo fondamentale di ripensamento del soggetto in termini passivi già rintracciabile in Totalità e Infinito, spinta all’estremo grazie all’utilizzo che Levinas fa di iperboli come l’ossessione, il malgrado sé e la sostituzione. Quest’ultimo, in particolare, è un termine chiave della riflessione del filosofo che indica tutta l’incombenza del compito etico dell’io come sacrificio non volontario del sé. La “sostituzione ad Altri” significa, infatti, la donazione totale di sé fino a soffrire della sofferenza dell’Altro e ad una responsabilità per le sue responsabilità. Ritornerò più puntualmente nel prossimo paragrafo su questo concetto, strettamente collegato alla metafora della maternità, concentrandomi adesso sulle altre caratteristiche che specificano la condizione di passività più passiva di ogni passività del soggetto, iniziando dalla prossimità.
Il concetto di prossimità ha un ruolo fondamentale rispetto alla riflessione levinassiana sulla soggettività etica perché rappresenta il nucleo delle immagini iperboliche più celebri del pensiero del filosofo quali l’ossessione, la condizione di ostaggio e il malgrado sé. Il termine “prossimità”, che Levinas identifica con il dire, non indica, come si potrebbe pensare, una contiguità spaziale fra io e Altri. Il senso della prossimità, infatti, non viene rintracciato nella dimensione della geometria euclidea, ma «suppone l’ “umanità”»[37].
Levinas, infatti, ritiene che la prossimità non si collochi un luogo fisico, ma sia l’evento etico per eccellenza: il soggetto che si approssima e, nell’approssimarsi, viene rigettato fuori dalla coscienza. Infatti, approssimarsi significa tutto il contrario del prendere coscienza della vicinanza spaziale di un altro essere che può diventare oggetto di conoscenza o di possesso. La prossimità significa propriamente la differenza dell’uno e dell’Altro, non soltanto nel senso “negativo” della impossibilità di tematizzare Altri che si segnala, come si è già visto, nella traccia di un passato irrappresentabile e irriducibile al presente della coscienza. Il concetto di prossimità permette di chiarire “positivamente” che la differenza fra Io e Altri è immediatamente non-indifferenza, impegno non scelto, responsabilità mai contratta che, tuttavia, non può essere rifiutata.
L’io della prossimità non è più la coscienza salda in sé, ma un io che si scopre e si espone all’altro fino a poter parlare di ossessione. Levinas può utilizzare questo termine per indicare la non-reciprocità dell’affezione dell’altro, l’irreversibilità della responsabilità per cui l’io, convocato al bene prima di averlo scelto, arriva a dare e a darsi senza preoccuparsi di ricevere qualcosa in cambio da parte dell’altro. Da questo punto di vista, in quanto “non scelto” e “assolutamente passato” il dovere dell’io è propriamente senza inizio né fine, egli non è mai sdebitato, in modo che l’ossessione si spinge fino al limite della persecuzione e dell’assillo da parte degli Altri[38], tutti termini che indicano una soggettività colpita da Altri senza poter ridurre ciò che la tocca ad oggetto di conoscenza e senza potersi rinchiudere in sé.
È proprio questa incapacità di sottrarsi che segna il punto di rottura della sovranità del soggetto e una possibilità diversa dal tempo sincronico della coscienza: la differenza, che significa allo stesso tempo non-indifferenza dell’Io per Altri nella prossimità, è infatti il modo della temporalizzazione diacronica, l’inassumibile nel presente perché l’io «si imbatte, traumaticamente, in un passato più profondo di tutto ciò che sono in grado di raccogliere attraverso la memoria, la storiografia, di dominare attraverso l’a priori»[39].
In alcuni corsi tenuti tra il 1975 e il 1976 durante il primo anno di insegnamento alla Sorbona, poi pubblicati con il titolo Dio, la morte e il tempo, Levinas preciserà questo concetto affermando che la vera essenza del tempo risiede nella differenza fra il Medesimo e l’Altro nel modo dell’Autre dans le Même, che significa una differenza insormontabile per l’intenzionalità perché l’altro è nel medesimo senza propriamente poter “essere lì”, senza diventare tema, ma nella modalità dell’inquietante dell’io[40]. A tal proposito, Birtolo fa notare come ci sia un legame indissolubile fra la dia-cronia e la responsabilità etica, allorché quest’ultima non riguarda il soggetto isolato nella linearità del tempo della coscienza, ma si origina proprio nel tempo discontinuo del coinvolgimento per-Altri che rompe con la logica del “presente” come ritorno dell’io a sé[41].
Si può, dunque, comprendere anche perché Levinas possa parlare della soggettività come ostaggio, proprio perché l’io non si decide per la responsabilità, ma è convocato con urgenza, senza possibilità di assunzione o rifiuto, ingombrato dal prossimo verso il quale in nessun caso può essere indifferente. Naturalmente l’immagine estrema dell’ostaggio fa pensare ad un’etica dai toni molto severi, un invito ad una condizione di masochismo del soggetto, come lo stesso Levinas riconosce:
è una rottura di questa salute facile, che è soprattutto la mia salute, è una preoccupazione. Non tutte le malattie sono da curare. Masochismo? Io non temo questa parola. Che cos’è l’umano? È lì dove l’altro è l’indesiderato per eccellenza, dove l’altro è il disturbatore, ciò che mi limita. Nulla può limitarmi maggiormente che un altro uomo. Per questa umanità-natura, per questa umanità vegetale, per questa umanità-essere, l’altro è l’indesiderabile per eccellenza. [42].
La soggettività è, dunque, un io ostaggio dell’altro o, seguendo più precisamente il senso dell’iperbole levinassiana, di tutti. Infatti, il soggetto non è responsabile solo di coloro che conosce, ma per il primo venuto, intendendo con questo termine non soltanto coloro che per l’io effettivamente sono estranei, ma esattamente tutti gli altri perché, anche quando si trovasse accanto ad un amico, ad un parente o ad un innamorato, è come se l’io si trovasse in prossimità di un altro che incontra per la prima volta. L’altro in quanto tale è sempre l’estraneo, colui che non può essere preso di mira dall’intenzionalità e, dunque, tematizzato, ma che si è già presentato come altro che ordina l’io alla responsabilità prima ancora di essere conosciuto come tema.
Si tratta di una condizione che Levinas ritiene perfettamente sintetizzata in una celebre frase del romanzo I Fratelli Karamazov di Dostoevskij: «Siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più degli altri». Essere “colpevole di tutti”, responsabile fino al punto da espiare per altri è il significato stesso dell’umano, un io che è unico proprio nel non poter delegare ad altri la propria responsabilità per tutti. Si tratta non del soggetto al nominativo della tradizione, che si pone come Io attivo, ma un io la cui unicità consiste nella passività di un accusativo, l’Eccomi, nella risposta al prossimo che in alcun modo potrebbe rifiutare.
Rispetto alle considerazioni precedenti appare chiaro che le immagini dell’ostaggio, dell’ossessione e, seppur ancora solo accennata, della sostituzione delineano la fisionomia di un io impossibilitato a tornare a sé e, all’estremo, che non ha un proprio sé, intendendo con questo termine un’intimità chiusa, perché il sé è già apertura ad Altri. In effetti, tutte le iperboli usate da Levinas per esplicitare la condizione di estrema passività del soggetto nella prossimità ricalcano l’impossibilità di riposo in sé, della chiusura e possono essere tutte sintetizzate nella condizione di non-luogo, termine che ricorre più volte nella descrizione della soggettività.
Può essere interessante, al fine della presente tesi, notare come il “non-luogo”, concetto più volte associato alla soggettività etica, fosse già stato utilizzato da Levinas fra le pagine di Totalità e Infinito dedicate all’erotico. Qui, Levinas faceva riferimento ad una no man’s land per indicare il modo del femminile di mantenersi fra essere e non-ancora-essere, una tensione fra il presente del godimento e il futuro al di là del possibile offerto dal figlio[43]. In Altrimenti che essere la no man’s land indica una tensione interna al soggetto stesso, non più rivolta al futuro, ma al passato assoluto dal quale proviene una responsabilità illimitata che impedisce la chiusura in sé e il ritorno al presente della coscienza.
Inoltre, un’altra caratteristica prima associata al femminile nell’erotico che si ritrova nella descrizioni levinassiane della soggettività è la debolezza, la fragilità estrema e la vulnerabilità[44]. Infatti, la passività più passiva del soggetto viene anche indicata, oltreché come non-luogo (nonché mediante le iperboli che, come si è visto, specificano questa “dislocazione”) anche come una estrema vulnerabilità[45]. Il tema della vulnerabilità, sinonimo della prossimità, si ricollega direttamente alla centralità dell’esistenza corporea del soggetto.
3.2.2. Vulnerabilità e amore non erotico.
Nonostante Levinas scoraggi, come si è detto, l’interpretazione in senso meramente “spaziale” della prossimità, le iperboli che utilizza per descrivere la condizione del per-Altri del soggetto non devono essere interpretate alla stregua di una pura astrazione. Infatti, accanto alle immagini più metaforiche come l’ostaggio, la sostituzione e l’ossessione, costanti sono i riferimenti all’esistenza corporea, la quale permette di chiarire anche il senso di un’espressione iperbolica alla quale avevo fatto cenno all’inizio del paragrafo senza ulteriori specificazioni, ovvero il malgrado-sè per Altri.
Levinas chiarisce come la deposizione dell’Io sovrano si realizzi concretamente a partire dalla vita corporea, che è una vita malgrado sé, per cui il soggetto è fin dentro la propria pelle un “contro di sé e per Altri”[46].
Difatti, il corpo viene considerato come centro della passività del soggetto, secondo una prospettiva già inaugurata negli anni precedenti. Per esempio, in Totalità e Infinito Levinas indicava il corpo contemporaneamente come modo attivo e passivo del soggetto. Da una parte, la dimensione corporea è ciò che rende possibile attività come il possesso e il lavoro, ma si tratta anche di un “corpo-servo”, colpito dalla malattia e dalla mortalità e che, dunque, può impedire come punto di incontro di forze fisiche: un corpo-effetto[47].
Negli anni Settanta, Levinas recupera l’idea che la vita corporea del soggetto sia espressione stessa della sua condizione di estrema passività, luogo (non-luogo) della suscettibilità originaria e della sensibilità, due termini che vengono di frequente utilizzati come sinonimi di vulnerabilità. Levinas identifica la vulnerabilità con la sensibilità perché la realtà del sé come l’uno-per-l’altro è data proprio dall’«incarnazione come possibilità stessa dell’offerta, della sofferenza e del trauma»[48].
La sensibilità, dunque, consiste originariamente nella prossimità stessa e non in una conoscenza. A tal proposito, Levinas chiarisce come il significato delle sensazioni non sia riconducibile alla modalità dell’esperienza di…, coscienza di…, come se ci si trovasse di fronte ad un tema. La sensibilità è da interpretarsi come suscettibilità (susceptio), ovvero corpo che si espone all’altro[49].
Dunque, si può comprendere come il soggetto corporeo sia qualificato da Levinas come sensibile, nudo, vulnerabile, passività assoluta sin dall’interno della propria pelle, condizione evidente se si considerano gli eventi principali della corporeità: la pena del lavoro, dello sforzo, del dolore e dell’invecchiamento. Soprattutto il “dolore” diventa elemento fondamentale per comprendere lo statuto passivo della soggettività, perché si tratta di un puro subire. Infatti, la sofferenza ha un senso molto più originario della percezione di uno stimolo che produce un effetto nel soggetto. La percezione può essere ancora intesa come una forma di attività, di ricezione di un dato da parte della coscienza. Il senso autentico del dolore fisico è, invece, proprio la sua estrema passione, l’esclusione da ogni assunzione, l’essere malgrado me:
la soggettività del soggetto è precisamente questo non recupero […]. Avversità raccolta nella corporeità suscettibile di dolore detta fisica, esposta all’oltraggio e alla ferita, alla malattia e alla vecchiaia, ma avversità che affligge fin dalla fatica dei primi sforzi corporali. Posso essere sfruttato perché la mia passività di soggetto, la mia esposizione all’altro, è il dolore fisico stesso […]. È nelle forme della corporeità, i cui movimenti sono fatica e la durata dell’invecchiamento, che la passività della significazione – dell’uno-per-l’altro – non è atto, ma pazienza di per sé, cioè sensibilità o imminenza del dolore[50].
Nodari può notare a questo proposito come la soggettività incarnata, da sempre centro d’interesse delle analisi fenomenologiche di Levinas, possa giungere proprio alla luce dell’attenzione alla sofferenza fino alla propria massima espressione, «quasi che si trattasse di un tentativo spasmodico – esso stesso inquieto, in-sonne – di tradurre quella significazione della sensibilità in un Dire che non venga tradito dal Detto, cui il linguaggio necessariamente deve far ricorso»[51].
Proprio per questo motivo, le immagini di un soggetto “di carne e sangue” sono frequenti nella analisi levinassiane della prossimità come sensibilità/vulnerabilità e non soltanto in Altrimenti che essere. Già quattro anni prima, nell’articolo Senza identità, poi pubblicato nel 1972 in Umanesimo dell’altro uomo, il filosofo poteva parlare della soggettività etica nei termini di una pelle offerta, oltraggio nella ferita, sofferenza e vulnerabilità da capo a piedi, sino nelle midolle delle ossa[52]. Non si tratta esclusivamente di metafore, ma di recuperare il senso concreto del corpo come “luogo” del turbamento del per -sé.
Più precisamente, Levinas può usare l’immagine della sensibilità come passività malgrado sé proprio perché il dolore, che significa esposizione e passività totale, ferisce il soggetto al centro del proprio egoismo strappandolo al godimento, altro concetto che il pensatore aveva già elaborato in Totalità e Infinito. Del godimento Levinas sottolinea l’aspetto pre-conoscitivo, perché non è una modalità di conoscenza, ma il modo stesso della soggettività di “prendere corpo” o, per usare un’espressione di Levinas stesso, di farsi volume, un io fatto di bisogni che vive la propria vita riempiendo le mancanze e godendo della vita stessa. Si tratta dell’autocompiacimento del soggetto, senza il quale il per-Altro non sarebbe possibile perché, se l’io non godesse, non potrebbe essere sradicato dall’egoismo attraverso il dolore, che è frustrazione del godimento stesso[53].
È, dunque, proprio la centralità del soggetto corporeo come soggetto sensibile del godimento e del dolore che spiega alcune espressioni apparentemente estreme di Levinas per parlare della prossimità come “strapparsi il pane dalla bocca”, “esposizione all’oltraggio e alla ferita”, “respirazione fino alla consumazione” e “emorragia del per l’altro”. Solo se il soggetto mangia, se è un corpo fisico, sensibile, un corpo di bisogni può, malgrado sé, dare all’altro, sradicandosi completamente dal proprio godimento: «non dono del cuore, ma del pane della propria bocca, del proprio boccone di pane; apertura – al di là del portamonete – delle porte della propria casa»[54].
Proprio l’ultima frase usata da Levinas in questo passaggio mi sembra significativa per dare un ulteriore elemento al tema della “femminilità” del soggetto. Infatti, la metafora della dimora, altro elemento precedentemente associato all’alterità femminile, ritorna più volte nel corso della descrizione della vulnerabilità come sensibilità.
In un altro passaggio di Altrimenti che essere Levinas vi fa di nuovo riferimento in termini di ospitalità, riconducendo l’alienazione dell’io rispetto al per sé del godimento proprio all’ospite che gli è affidato, immagine presentata come equivalente al dare all’altro il pane della propria bocca[55]. Dunque, la passività iperbolica del soggetto può essere considerata come una estrema elaborazione di quella che negli anni precedenti era stata la caratteristica propria del femminile nell’intimità, l’accoglienza, in questo caso spinta all’estremo fino al disinteressamento totale di sé che culmina in iperboli come lo “strappare il pane dalla propria bocca” e “l’emorragia per l’altro”.
L’ipotesi circa la possibilità di ritrovare il tratto femminile dell’accoglienza ospitale in questa nuova visione della soggettività potrebbe essere confermato estendendo a questi passaggi di Altrimenti che essere una considerazione che Derrida elaborava in merito alla trattazione della dimora in Totalità e Infinito. In quel contesto, come si è già detto nello scorso capitolo, Derrida vede una chiara influenza di Rosenzweig sul pensiero di Levinas.
Il filosofo nota come Levinas abbia tratto l’immagine della dimora come “terra d’asilo”, abitata senza essere posseduta, a partire da un’immagine del Levitico citata da Rosenzweig, la quale presenta il popolo ebraico come straniero, abitante di una terra che solo Dio possiede[56]. Come Derrida riconosce, questo passaggio del Levitico verrà citato esplicitamente in Umanesimo dell’altro uomo per designare la condizione di apertura estrema del soggetto etico:
Si legge nel salmo 119: “Io sono straniero sulla terra, non mi nascondere i tuoi comandamenti”. […] Ma il salmo fa eco a testi riconosciuti come anteriori al secolo di Socrate e di Platone, in particolare al capitolo 25, versetto 23 del Levitico: “Nessuna terra sarà alienata irrevocabilmente, perché la terra è mia, e voi non siete che stranieri domiciliati presso di me” […]. Eco del dire permanente della Bibbia: la condizione – o l’incondizione – di stranieri e di schiavi nel paese d’Egitto avvicina l’uomo al suo prossimo. Gli uomini si cercano l’un l’altro nell’incondizione di stranieri. Nessuno è a casa propria[57].
A questa citazione esplicita si possono unire i riferimenti che, come si è visto, in alcuni passaggi di Altrimenti che essere Levinas fa all’immagine della dimora a porte aperte, ospitale, non richiusa in se stessa e, se si seguono le indicazioni del passo del Levitico, di non esclusiva proprietà del suo padrone, immagini queste che vengono associate alla soggettività etica. Il femminile non si ritrova come presenza esplicita, ma l’accoglienza, essenzialmente “femminile”, non sembra abbandonata, quanto piuttosto estremizzata. Infatti, l’intimità dell’io non è più, come in passato, soltanto la condizione indispensabile per accogliere altri resa possibile dall’incontro con Altri-femminile nel suo ritiro e discrezione.
Il soggetto stesso si fa, in senso estremo, “ritiro e discrezione”, abdicando dall’egoismo del conatus essendi per diventare “accogliente in senso iperbolico”, fino a immagini come l’ostaggio, l’ossessione, la sofferenza per altri e, come si vedrà nel prossimo paragrafo, fino alla maternità. L’io è espropriato da sé al punto che la propria intimità è “abitata da Altri”.
Di Bernardo sottolinea la possibilità di questa inversione del femminile dall’altro all’io già elaborata da Levinas in Umanesimo dell’altro uomo – e poi ripresa in Altrimenti che essere – proprio relativamente al nuovo significato di estrema apertura assunto dalla dimensione dell’interiorità:
nell’Umanesimo dell’altro uomo l’interiorità diviene una breccia sul passato anarchico, momento in cui l’io è scelto e si costituisce pre-originariamente come risposta: prima di essere volontà, infatti, l’io diventa me ed è anarchicamente sottomesso al Bene. Nell’Umanesimo dell’altro uomo, la dimensione di femminilità che in Totalità e Infinito compariva come «condizione pre-etica dell’etica» e «accoglienza della dimora», diviene origine anarchica dell’etica, accoglienza pre-originaria che «ha luogo in un luogo non appropriabile ed in un’interiorità aperta»; essa diviene elezione al Bene, responsabilità anarchica ed incondizionata, trascendenza che lascia dietro di sé le tracce di una gratuità infinita[58].
Alla luce di quanto emerso fino a questo momento, una certa fisionomia “femminile” nel soggetto è ravvisabile in due direzioni. La prima riguarda la possibilità di intendere la soggettività come accogliente, tratto questo che apparteneva originariamente ad altri-femminile e che viene sviluppato a partire dagli scritti degli anni Settanta fino ad una intimità totalmente aperta ad altri. Inoltre, sono emersi anche elementi come il non-luogo e la vulnerabilità, derivati dall’altro contesto nel quale il femminile come concetto autonomo aveva trovato grande espressione: l’erotico.
In effetti, a queste immagini originariamente associate all’eros se ne possono aggiungere altre, come il contatto e la carezza, che non solo non sono scomparse, ma costituiscono elementi importanti della sensibilità/vulnerabilità. Nella descrizione della sensibilità Levinas utilizza il termine contatto, unitamente all’immagine della nudità della pelle. Sono concetti che, nonostante quanto prima si diceva sulla non spazialità della prossimità, potrebbero dare l’impressione che Levinas, in effetti, si riferisca ad una vicinanza corporea che può tradursi nel “toccare fisico”. Tuttavia, il filosofo ritiene che il contatto non debba essere interpretato come modo della presa sull’oggetto:
la prossimità di esseri di carne e di sangue nella materia non è, per questo soggetto, un “modo della certezza di sé”. La prossimità di esseri di carne e di sangue non è la loro presenza “in carne e ossa” – non è più il fatto che essi si disegnano per lo sguardo, presentando un fuori, delle quiddità, delle forme, offrendo immagini, immagini che l’occhio assorbe (e di cui la mano che tocca o trattiene sospende –allegramente o alla leggera– l’alterità, annullandola con la semplice presa, come se nessuno contestasse questa appropriazione)[59].
Essere in contatto non è un modo di appropriarsi dell’altro, annullando la sua alterità, ma l’autentico luogo della differenza perché l’altro non viene mai “toccato”. Nel contatto, il prossimo si spoglia di ogni attributo e genere per essere un altro che non ha nulla in comune con il soggetto. Dunque, l’altro non si mostra in una forma plastica, ma in un modo non-fenomenico.
Questo modo dell’altro, come anticipavo nel primo paragrafo, è il suo volto, traccia di un passato irrappresentabile, ovvero il prossimo rispetto al quale il soggetto è “in ritardo” perché è reclamato alla responsabilità nei suoi riguardi prima ancora di conoscerlo, ossessionato e ingombrato da altri senza aver aderito volontariamente all’impegno. Accanto alle descrizioni più astratte della traccia e dell’Illeità, dunque, Levinas designa la prossimità del Volto come nudità più nuda della nudità stessa, un volto avvicinato, contatto di una pelle.
La pelle non va intesa come l’involucro esterno di un ente, forma che lo definisce e consegna alla rappresentazione e al possesso. La pelle viene descritta da Levinas come lo scarto tra il visibile e l’invisibile, non come ciò che si offre al tocco e alla palpazione, ma esattamente l’alternanza di una presenza e di un’assenza:
al di là del disvelamento e dell’esibizione del conosciuto, si alternano, sorpresi e sorprendenti, una presenza enorme e il ritrarsi di questa presenza. Il ritrarsi non è una negazione della presenza, né la sua pura latenza, recuperabile nel ricordo e nell’attualizzazione. È alterità; senza misura comune con una presenza o un passato che si raccoglie in sintesi nella sincronia del correlativo. Relazione di prossimità e proprio per questo disparità[60].
La modalità principale del contatto è la carezza, intendendo con questo termine una ricerca di ciò che si assenta, di ciò che è traccia di se stesso. La tenerezza della pelle – termine che richiama il tendre della Fenomenologia dell’Eros – accarezzata significa esattamente la distanza fra l’io e l’Altro. Infatti, elemento fondamentale della carezza è il “dis-ordine” perché il contatto non colma mai la distanza, non si traduce nel possesso dell’altro, ma significa già soffrire per lui pur soffrendo per niente, proprio perché il Volto non diventa mai presenza nella rappresentazione. Il volto non è un qualcosa: espressioni come pelle rugosa, traccia di se stessa[61], significano che non è mai stato presente, che squarcia la “giovinezza” del fenomeno e della bellezza plastica e convoca il soggetto in modo irrecusabile, senza che la prossimità possa tradursi in immagini che significherebbero ancora un dominio della coscienza. Il Volto, non-fenomeno, denuda il soggetto, lo chiama ed ordina impedendo ogni rifugio, gettando un “seme di follia” nell’Io perché egli si ritrova responsabile senza che la responsabilità abbia avuto origine nel presente[62].
Appare chiaro, come dicevo, che in queste descrizioni della prossimità Levinas ripropone alcuni elementi fondamentali che in passato avevano caratterizzato la relazione erotica: il contatto, la ricerca senza fine della carezza, la nudità della pelle, la tenerezza, la compresenza di fenomeno e defezione del fenomeno sono tutte situazioni che avevano caratterizzato la relazione con il femminile e che, adesso, indicano la struttura della prossimità etica.
Naturalmente, queste immagini vengono depurate dal loro significato più strettamente erotico. Si può osservare come, nonostante Levinas utilizzi il termine amore per indicare la responsabilità etica, intenda con questo termine non un bisogno erotico, ma proprio l’anteriorità della convocazione da parte del bene: «mi ama prima che io l’ami. Grazie a questa anteriorità l’amore è amore»[63]. Nello stesso contesto, Levinas suggerisce come il seducente nell’erotico somigli al bene, ma ne sia soltanto un’imitazione e come la possibilità stessa di un “appesantimento di pelle fino all’osceno” sia un’alterazione del Volto. L’erotico è ancora associato da Levinas all’ambiguità, alla concupiscenza, ad una menzogna luciferina, al male che cerca di sedurre somigliando al bene[64]. Naturalmente, Levinas intende l’erotico in un’accezione più ampia della sfera sessuale in senso stretto, ovvero come la pretesa del soggetto che l’egoismo sia il principio e la libertà l’ultima parola. Levinas, dunque, ripropone l’idea che l’erotico ricada in egoismo e possesso, richiamando ad una priorità della relazione etica .
In un’intervista del 1982, poi pubblicata con il titolo Filosofia, giustizia e amore, Levinas tornerà su questi concetti, distinguendo esplicitamente l’Eros dall’Agape, quest’ultima intesa non come amore che si può mutare in godimento e possesso, ma secondo una visione grave, a partire dalla responsabilità per altri[65]. Kats fa notare come, in effetti, il filosofo abbia usato in questo contesto il termine agape-carità rispondendo ad una domanda che esplicitamente poneva il problema della differenza fra Eros e Agape. Infatti, il termine Agape è difficilmente sovrapponibile, almeno nel suo tradizionale significato cristiano, alla responsabilità etica di Levinas[66].
Nonostante, in effetti, il Vangelo di Matteo rappresenti un riferimento importante per il pensatore, rispetto al significato del comandamento che impone di “amare il prossimo come se stessi”, il filosofo lo rilegge in un’ottica che, come si vedrà più precisamente nel prossimo paragrafo, risente molto dell’influenza della spiritualità ebraica. Levinas dice più precisamente: «Ama il tuo prossimo. Tutto questo è te stesso; quest’opera è te stesso; quest’amore è te stesso»[67]. L’amore cui egli si riferisce non è la carità, cristianamente intesa, ma la misericordia, termine questo direttamente collegato alla metafora della maternità.
3.3. La metafora della maternità.
La produzione levinassiana posteriore a Totalità e Infinito, come anticipavo all’inizio del capitolo, è il luogo della scomparsa del femminile come caratteristica propria dell’alterità dell’intimità e dell’erotico, nonché come tema “autonomo” di riflessione da parte del filosofo nonostante, come si è visto, la soggettività stessa assuma alcuni tratti prima associati ad altri-femminile. Tuttavia, contemporaneamente a questa assenza dell’alterità femminile, si incontra fra le pagine di Altrimenti che essere una metafora che ha dei legami con la donna, la quale ha sempre avuto una relazione ambigua con il concetto levinassiano del “femminile” che, seppure non si poteva del tutto sovrapporre alla donna empirica, non se ne poteva neanche separare completamente.
Un accenno alla maternità era stato già brevemente introdotto da Levinas, oltreché nell’articolo dedicato al femminile nel giudaismo, in Totalità e Infinito. Levinas in quel contesto si era brevemente soffermato sul modello di relazione dell’età infantile, per cui il figlio non trae il proprio essere unicamente da se stesso, ma si riferisce all’esistenza protettrice dei genitori: «la nozione di maternità deve essere introdotta qui per rendere conto di questo ricorso»[68]. In questo contesto, come si è già visto, la paternità assume un ruolo centrale come relazione “al di là del possibile” che consente al soggetto di non alienarsi in rapporto alla morte e, dunque, all’etica un tempo infinito per compiersi nella discontinuità delle generazioni. Invece, in Altrimenti che essere si assiste ad un’inversione radicale, per cui la paternità scompare e la maternità assume un ruolo fondamentale nella descrizione della soggettività etica.
L’immagine della maternità prende corpo nella parte centrale del testo del 1974 e, in particolare, nei capitoli terzo e quarto dedicati alla “sensibilità/prossimità” e alla “sostituzione”. La metafora, coerentemente con i due argomenti principali affrontati da Levinas nei rispettivi capitoli, viene evocata in due sensi complementari che è necessario mettere in luce per avere una visione più completa della soggettività etica.
3.3.1. Mater-nità.
Il primo significato della metafora della maternità si ritrova relativamente alla possibilità di rappresentare il soggetto come corpo materno, vulnerabile, sensibile e offerto all’altro. La metafora viene inizialmente introdotta da Levinas nel terzo capitolo di Altrimenti che essere, dedicato al tema della sensibilità, in riferimento ad una modalità concreta della soggettività etica: la materialità. Da questo punto di vista, Salmeri nota come sia forse troppo facile, ma proprio per questo anche a rischio di passare inosservato, il gioco etimologico mater-materia[69].
Infatti, il filosofo introduce per la prima volta il concetto di “gestazione” parlando della passività del soggetto della sensibilità, riferendosi all’io come mano che dona il pane strappato dalla propria bocca e psichismo come corpo materno[70]. Levinas identifica quindi sensibilità, vulnerabilità e maternità, elaborando questo accostamento perché, come si è visto nello scorso paragrafo, la sensibilità viene interpretata non come “ricettività”, ma pura passione, sofferenza, esposizione all’altro. La mater-nità rimanda, dunque, proprio al significato autentico della “materialità della materia”, evocata dal pensatore per indicare come nella sensibilità si realizzi una inversione del soggetto dall’attività alla passività:
dal prendere all’essere preso, dall’attività del cacciatore di immagini alla passività della preda, dalla mira alla ferita, dall’atto intellettuale dell’apprensione all’apprensione in quanto ossessione per un altro che non si manifesta. Al di qua del punto zero che segna l’assenza di protezione e di copertura, la sensibilità è affezione attraverso il non-fenomeno, una messa in causa attraverso l’alterità dell’altro, prima dell’intervento della causa, prima dell’apparire dell’altro; un pre-originale non-riposare su di sé, l’inquietudine del perseguitato – dove essere? come essere? – cioè contorsione nelle dimensioni anguste del dolore, dimensioni insospettate dell’al di qua; sradicamento da sé, meno che niente, reiezione del negativo – dietro al nulla – maternità, gestazione dell’altro nel medesimo[71].
La vulnerabilità del soggetto sensibile, incarnato può essere, dunque, identificata proprio come la gestazione dell’altro nel Medesimo. Il corpo, infatti, non è il luogo dell’io chiuso in sé, protetto dalla propria pelle come da un guscio, ma significa proprio l’uno–per-l’altro, un soggetto che dà all’altro non il superfluo, ma ciò che è più essenziale: la sensibilità è la sofferenza del dare il pane della propria bocca e la propria pelle[72], intendendo con queste immagini il dono totale di sé che si realizza nella prossimità, ovvero lo sradicamento totale dell’io dal proprio egoismo.
Dunque, il corpo “materno”/materiale” è quello che soffre, che subisce e che, malgrado sé, è per l’altro. La materia diventa il luogo stesso nel quale il soggetto è chiamato alla responsabilità irrevocabile per Altri, in modo che l’incarnazione non è da considerarsi come l’ingresso nello spazio geometrico di un soggetto astratto, di una coscienza precostituita. Se la materia fosse solo un attributo secondario aggiunto all’io come coscienza, il soggetto sarebbe ancora origine e libertà grazie alla possibilità di prendere distanza dal proprio corpo.
Piuttosto, la soggettività materiale è la possibilità stessa di comprendere l’io in modo diverso rispetto alla filosofia occidentale, perché proprio in quanto materialità, io di carne e sangue, la soggettività significa la non libertà e il non inizio per eccellenza, ovvero la passività di una responsabilità irrevocabile che significa l’offerta gratuita di sé ad Altri.
Proprio per questo motivo la “maternità” rappresenta un’immagine eloquente della soggettività etica, in quanto il corpo nella maternità è l’esempio fondamentale di una corporeità vulnerabile e offerta all’altro. Levinas la definisce come un “portare per eccellenza”[73] e, in effetti, se ci si riferisce concretamente alla gestazione, la corporeità femminile è l’esempio più eloquente della sofferenza e del sacrificio.
La madre porta in sé un altro, lo nutre, è offerta all’altro come luogo affinché questi possa crescere ed è sofferenza della carne, emorragia affinché il figlio possa nascere. Da questo punto di vista, la madre è corpo ospitale e, dunque, può offrire il “paradigma” di una sensibilità sofferente, dedita estremamente all’altro.
A tal proposito risulta interessante un’immagine utilizzata da Levinas sia in Umanesimo dell’altro uomo che in Altrimenti che essere, nel primo caso associata più in generale alla vulnerabilità, nel secondo esplicitamente accostata alla maternità: “gemito” e “commozione” dei visceri”[74]. Si tratta di un’espressione tratta dal libro di Geremia che Levinas accosta alla misericordia. Il filosofo può elaborare questo accostamento fra maternità e misericordia perché quest’ultimo termine si riferisce alla parola biblica “Rachamìn” che deriva da “Rechém”, ovvero utero[75]. Inoltre, ricorda Levinas, la misericordia nel Talmud è di fondamentale importanza, in quanto sorveglia la giustizia ed è l’attributo principale di Dio. Proprio per questo che egli si chiama “Rachmana”, il Misericordioso[76].
Dunque, il modello dell’amore senza Eros a cui si faceva riferimento nello scorso paragrafo è proprio inteso come misericordia, sinonimo di una responsabilità grave, severa, comandata[77] della quale la maternità diventa simbolo fondamentale. Il soggetto, infatti, si espone ad altri sin nella sfera apparentemente più intima, la corporeità. L’io è per altri pur non avendolo “concepito” o “partorito”, perché l’altro non si riconduce a oggetto tematizzato dalla coscienza, ma: «l’ho già in braccio, già lo porto, secondo la formula biblica, “al collo come una balia porta un bambino lattante”»[78].
Orietta Ombrosi nota come, in questo passaggio, la traduzione italiana abbia modificato il significato letterale della citazione levinassiana dal libro dei Numeri, che rimanda non al portare al “collo” il bambino, ma “dans mon sein”, con il più forte rimando dell’originale alla sensibilità di un corpo di carne, di sudore e secrezioni, capace di “emorragia”, ovvero di dare nella sofferenza[79]. Infatti, come dicevo, la corporeità della donna offre un modello importante per pensare la struttura della soggettività etica proprio in quanto sensibilità passiva e vulnerabile. Ritornerò più avanti sul problema legato proprio al debito della metafora della maternità rispetto alla corporeità della donna e alla possibilità di estendere, anche se solo simbolicamente, un evento biologico che ha dei rimandi ad un genere sessuale, all’umanità dell’essere umano. Tuttavia, è prima necessario chiarire che la gestazione offre anche un’immagine che consente non solo di pensare all’io come “madre” di Altri in quanto soggetto di carne e sangue, esposto, sofferente, ma anche come “figlio di Altri”, ovvero generato dal prossimo alla responsabilità. Questo legame sarà più evidente attraverso l’analisi della relazione fra “maternità” e “sostituzione”.
3.3.2. “Maternità” e “sostituzione”.
La metafora della maternità viene riproposta da Levinas nel capitolo centrale di Altrimenti che essere, il quarto, dedicato al tema della sostituzione. Si tratta, peraltro, del capitolo che costituisce il nucleo originario di tutta l’opera, derivata dall’ampliamento di due conferenze tenute all’università S. Louis a Bruxelles nel 1967 sui temi della “prossimità” e della “sostituzione”.
È interessante notare come proprio la “sostituzione” venga presentata sin dalla Nota preliminare del testo come possibilità di ritrovare nell’identità del soggetto l’eccezione all’essenza[80] e come, nel capitolo ad essa specificamente dedicato, la maternità venga suggerita come metafora che restituisce il senso proprio del se stesso[81]. Prima di affrontare più nello specifico il secondo significato della gestazione al quale accennavo poco fa è, dunque, necessario chiarire più puntualmente il significato della “sostituzione”.
Attraverso il concetto di “sostituzione” Levinas chiarisce la struttura etica della soggettività nel suo stesso “movimento” di soggettivazione, che viene ricondotto al di là della coscienza.
L’identità del soggetto viene, infatti, ricercata in quella che Levinas definisce una ricorrenza anteriore all’io come intenzionalità. La “ricorrenza” propria della coscienza consiste, infatti, nel muoversi verso l’oggetto: movimento che, tuttavia, non interrompe il gioco per sé della coscienza stessa perché, riconoscendo nel pensato un proprio progetto o oggetto, la coscienza si ritrova[82] . Tale nozione della soggettività, dominante nel pensiero occidentale, riduce l’io ad un avvolgimento su di sé, ma per Levinas non è la condizione sulla quale il se stesso del soggetto riposa. Infatti, egli esplicita come la “soggettività del soggetto” consista in una espulsione, in un “ondeggiamento” che non ricade in coscienza.
L’io, infatti, non si pone da se stesso o, per usare l’espressione di Leibniz che Levinas richiama, «l’io è innato a se stesso»[83], in quanto la sua unicità di soggetto consiste nell’essere convocato an-archicamente, prima della coscienza e della libertà, alla responsabilità per Altri.
Dunque, la stessa ipostasi del se stesso non consiste nel porsi attivamente come coscienza, tema questo che aveva avuto grande importanza negli scritti degli anni Quaranta e che, in Altrimenti che essere, subisce una inversione radicale. Il soggetto si ipostatizza nella convocazione alla responsabilità, nella provocazione di Altri senza, in questa provocazione, poter resistere o farsi sostituire da altri: «l’ipostasi si espone secondo la modalità di un accusativo come se stesso, prima di apparire nel Detto del sapere, come portatore di un nome. È questa modalità dell’offrire la propria passività»[84]. Il soggetto, dunque, è unico nella modalità dell’Uno senza l’Essere già teorizzato da Platone nel Parmenide perché la sua identità non si dice come egoismo perseverante nell’essere, ma come responsabilità, esposizione, vulnerabilità.
La soggettività del soggetto, come dicevo già nel primo paragrafo, consiste in un transfert totale per cui il principio di identificazione non è più in sé, ma proviene dall’esterno e dal passato, da una elezione che egli non ha scelto e che lo identifica come l’uno insostituibile nella propria responsabilità, spinta all’estremo fino alla sostituzione. Levinas specifica chiaramente che l’unicità del soggetto consiste nella sostituzione, intesa come portare la colpa di altri, nell’essere in sé attraverso gli altri dei quali il soggetto è responsabile. Si tratta di una condizione pre-originaria proprio perché il soggetto si ritrova come colpevole senza aver propriamente fatto nulla, responsabile di tutti gli altri, sostituto di altri nelle loro responsabilità.
Dunque, il sé della sostituzione è un Sub-jectum nel senso letterale del termine: «è sotto il peso dell’universo –responsabile di tutto. L’unità dell’universo non è ciò che il mio sguardo abbraccia nella sua unità d’appercezione, ma ciò che da tutte le parti m’incombe»[85]. L’io è “tutti gli altri” ed è proprio grazie alla sostituzione, condizione pre-originaria più antica di ogni scelta, che la soggettività del soggetto si compie.
L’io della sostituzione, contrariamente a quanto in apparenza si potrebbe pensare, non si aliena. Infatti, solo lui può sostituirsi a tutti, senza che gli altri possano sostituirsi a lui in questa estrema espiazione non scelta: l’asimmetria, già presentata negli scritti degli anni precedenti come elemento fondamentale della relazione etica, viene spinta all’estremo proprio grazie alla nozione di sostituzione. Naturalmente, risulta chiaro da questi passaggi come Levinas, mediante il concetto di sostituzione, metta in atto una profonda rilettura del concetto di responsabilità personale. Infatti, il soggetto etico non è “responsabile” secondo il modo tradizionale di intendere il significato del termine, ovvero un’assunzione di colpevolezza per un’azione compiuta, ma esattamente il contrario. L’io è responsabile per ciò che non ha commesso:
appena altri mi guarda io ne sono responsabile, anche senza dover assumere nessuna responsabilità nei suoi confronti: la sua responsabilità mi incombe. Si tratta di una responsabilità che va al di là di ciò che faccio. Di solito si è responsabili di ciò che si fa in prima persona. In Altrimenti che essere o al di là dell’essenza sostengo che la responsabilità è all’origine un per altri, vale a dire che sono responsabile della sua stessa responsabilità[86].
Dunque, proprio la sostituzione rende conto di un io come altrimenti-che-essere, perché egli non è unico in relazione al proprio egoismo, ma proprio come sostituto di altri. L’io non è l’ego della coscienza, ma il me dell’Eccomi, espressione tratta dal libro di Isaia[87] e che significa: «portare la miseria e il fallimento dell’altro e anche la responsabilità che l’altro può avere di me, essere sé […] è sempre avere un grado di responsabilità in più, la responsabilità per la responsabilità dell’altro»[88]. Dunque la sostituzione, come ipseità stessa del soggetto è, ciò senza cui non sarebbe possibile neanche il più semplice gesto quotidiano del saluto, del dire “Dopo di voi, signore” perché dire Io è già dire per-Altri[89].
A questo punto è necessario, dopo aver chiarito il senso della “sostituzione”, ritornare all’immagine della maternità. Apparentemente, infatti, le caratteristiche della sostituzione fin qui presentate non spiegano ancora il legame con la metafora della maternità che, in più di un’occasione, viene evocata da Levinas come spiegazione del senso più profondo del soggetto etico. Perché proprio la “gestazione” dovrebbe essere emblema di un io che trae la propria unicità dal sostituirsi ad altri?
Il senso della metafora è chiaro se si ripensa al movimento di “soggettivazione” del soggetto appena descritto. Infatti, è il soggetto etico stesso, nella sostituzione, a nascere in quanto tale. Come la madre, in quanto madre, non è tale prima di avere in sé il figlio, così anche il soggetto non si produce da se stesso, non può porsi, ma è essenzialmente passivo.
Dunque, è nella responsabilità per altri, spinta all’estremo fino all’espiazione per le loro colpe, che l’io trae la propria unicità. La metafora della maternità, dunque, è il vero modello della sostituzione[90] in quanto suggerisce il radicale per-l’altro che costituisce il “soggettivarsi del soggetto” in modo che, nel portare Altri e le sue responsabilità su di sé, il soggetto stesso può venire ad essere senza radicare questa nascita in sé.
La metafora della maternità rimanda, dunque, ad una nozione non autoreferenziale di soggettività: la madre non è madre di per sé , ma lo diventa portando in sé il figlio ed è chiamata, in questo portare, ad una responsabilità irrecusabile che la convoca a rispondere di un altro senza potersi tirare indietro[91]. Labate pone giustamente l’accento sulla metafora della maternità in questo senso:
Il primo elemento che rende la maternità esperienza privilegiata è precisamente la paradossale designazione del soggetto: chi è il soggetto della maternità? È certo la madre. Ma la madre nasce, in quanto madre, nella maternità. La gestazione in cui consiste la maternità è insieme nascita del figlio come figlio e nascita della madre come madre […]. La maternità fissa la madre alla propria responsabilità, la unicizza nell’impossibilità di farsi da parte, d’essere sostituita[92].
Inoltre, a conferma della considerazione secondo la quale, nella sostituzione, è il soggetto a nascere in quanto convocato da un ordine che non potrebbe declinare, si può ricordare come un termine associato alla soggettività materna sia quello di creatura. Infatti, per Levinas la creazione ex-nihilo fornisce il modello stesso della passività del sé, dal momento che la creatura che viene ad essere nasce senza aver udito l’ordine che la porta ad esistere, obbedendo ad un comando che non si traduce mai in una libera scelta. Il soggetto è, dunque, una creatura, ma orfana di nascita perché se conoscesse il suo creatore, il “da dove proviene” potrebbe ancora essere, in quanto coscienza, inizio di se stessa[93].
Naturalmente, il termine “creatura” contiene un rimando religioso e la stessa soggettività etica, nelle pagine finali del testo, viene indicata come “profetica”[94] proprio perché, come anticipavo nel primo paragrafo, la provocazione al soggetto nella prossimità di Altri proviene dal Volto come traccia dell’Infinito, Illeità che turba il presente assentandosi dalla tematizzazione e, tuttavia, significando positivamente una responsabilità infinita per Altri. Il termine “Dio”, pur non essendo utilizzato di frequente fra le pagine di Altrimenti che essere, rimane un riferimento importante del testo. Come Levinas chiarisce nelle ultime pagine dell’opera, il significato autentico di Dio è nell’Eccomi “detto” agli uomini, nel dire pre-originario della prossimità. Non posso approfondire in questa sede il tema del divino nelle opere più mature di Levinas, problema complesso che richiederebbe una trattazione a sé. Tuttavia era necessario accennarvi brevemente perché il concetto di creatura fornisce un ulteriore elemento per sostenere che l’aspetto fondamentale della metafora della maternità consiste nel nuovo modo di Levinas di pensare l’ipostatizzazione del soggetto in termini di assoluta passività, come responsabilità per Altri che risponde ad una convocazione pre-originaria, proveniente da un passato immemorabile.
Per avviarmi alla conclusione del discorso sulla maternità è adesso necessario esaminare un aspetto importante legato al tema, al fine di dare un ulteriore elemento al discorso sulla “femminilità” del soggetto. Infatti, un concetto che in passato era stato associato alla paternità adesso viene collocato nella dimensione della maternità: il rapporto fraterno.
In Totalità e Infinito, come si è visto nello scorso capitolo, la fraternità si origina dalla paternità: infatti, l’elezione paterna rende il figlio unico e, insieme non unico, in quanto la paternità stessa si produce non una, ma molte volte facendo del figlio un eletto fra eletti, ovvero tra fratelli.
In Altrimenti che essere scompare la figura della paternità e la fraternità viene riportata direttamente alla prossimità. La prossimità, di cui la maternità è sinonimo, significa per Levinas una speciale parentela fra gli uomini, un legame di “fraternità” che non ha nulla a che vedere con la biologia. Infatti, significa una convocazione alla responsabilità, il prossimo è fratello in quanto il soggetto è obbligato infinitamente nei suoi riguardi. La domanda di Caino nella Genesi, “sono io il custode di mio fratello?” per Levinas è di fondamentale importanza, in quanto riporta ad un significato della soggettività che non si riduce alla cura egoistica del proprio essere, ma che non significa neanche propriamente una forma di altruismo, condizione che presuppone ancora un’attività del soggetto e, dunque, una libertà. Si tratta, piuttosto, di ricondurre l’io ad una espiazione involontaria, come se la soggettività del soggetto fosse «la presa su di sé della gravità dell’altro»[95], una forma di amore estremo, di sacrificio disinteressato che rende l’altro un “fratello”.
Quando Levinas parla di “fratello” intende l’altro o meglio, come già dicevo parlando della sostituzione, tutti gli altri dei quali l’io è responsabile in prima persona, come unico, eletto ed insostituibile. Infatti, l’incontro con il prossimo non è soltanto un urto traumatico, ma una elevazione del soggetto, un’elezione al Bene, tanto che Levinas può parlare di ispirazione[96]. La fraternità umana è, dunque, ricondotta alla prossimità, all’amore come misericordia, alla “maternità”, tutti elementi “femminili” del soggetto.
A partire da questo significato originario della fraternità come responsabilità per il prossimo, può procedere la giustizia. Infatti, la prossimità viene turbata dall’ingresso del terzo che è non solo un altro rispetto al prossimo, ma anche un altro prossimo. Si pone, dunque, il problema della priorità dell’uno o dell’altro, della comparazione e, con questo, una contraddizione nella prossimità iniziale che significa un limite della stessa. La giustizia significa il sorgere della coscienza, della tematizzazione e, dunque, anche la necessità del “detto” i quali, tuttavia, riposano sulla prossimità pre-originaria. Naturalmente, Levinas non ritiene che l’ingresso del terzo sia un fatto empirico che accade dopo la prossimità iniziale. Il terzo, precisa Levinas, non è lì accidentalmente, ma nella prossimità di Altri viene già reclamata la giustizia, Altri è di colpo fratello di tutti gli altri uomini.[97] Infatti, si vive in un mondo dove il terzo è sempre presente. Dunque, è richiesta una uguaglianza fra i membri della stessa società che “corregga” l’asimmetria della prossimità e renda possibile la giustizia, in modo che il soggetto sia altri per tutti gli altri.
Non posso affrontare nello specifico il rapporto fra prossimità e giustizia, tema complesso e problematico che richiederebbe lunghe riflessioni e mi porterebbe troppo lontano dall’argomento della presente tesi. Tuttavia, mi serviva mettere in luce come la fraternità umana, dalla quale procede la giustizia, venga non più ricondotta da Levinas all’elezione paterna, ma direttamente riportata alla prossimità, vulnerabilità, ospitalità, sensibilità, maternità dell’umano, come se l’umanità stessa non fosse pensabile che attraverso una prospettiva “al femminile”.
Infine, non ci si può esimere dal ricordare che la metafora della maternità ha generato alcune perplessità fra i lettori di Levinas. L’aspetto maggiormente contestato dai critici è la riuscita piena del senso della metafora e, significativamente, le preoccupazioni riguardano prevalentemente il ruolo della “donna”.
A titolo esemplificativo, suggerisco le riflessioni di Adamiak che fa notare come siano possibili due interpretazioni della metafora levinassiana della maternità, entrambe fallaci. Da una parte si potrebbe sostenere come Levinas non dichiari mai apertamente un rapporto di identificazione tra donna e madre, per cui in realtà la maternità viene spogliata dal suo riferimento più propriamente concreto alla donna in modo da poter essere estesa anche all’uomo, al fine di cambiare lo statuto “virile/attivo” del soggetto. Ricorda Adamiak che questa inversione era attestata già nella figura del profeta Elia in Difficile libertà che, come si è visto, assume tratti femminili, accarezzando e cullando i figli di Israele. In questo modo, però, la donna ricade sotto due categorie che non la valorizzano mai “in quanto donna”, ovvero la dimensione “virile” dell’io sovrano e, nella prossimità, la “Soggettività/Maternità” sessualmente neutra.
D’altra parte, fa notare la studiosa, se invece si ipotizzasse che Levinas intenda richiamarsi al materno come tratto tipico della donna empirica, quest’ultima sarebbe nuovamente relegata al ruolo tradizionale di madre e, solo rispetto alla passività di questo compito, introdotta nella società[98].
Sulla stessa linea di pensiero, Chanter ritiene che il femminile, nelle sue molte sfaccettature, venga relegato da Levinas quasi esclusivamente ai ruoli tradizionalmente associati alla donna: l’erotico, l’accoglienza domestica e, in Altrimenti che essere, la maternità. In breve, il femminile sarebbe esclusivamente ristretto ad uno stereotipo di genere e non avrebbe altra possibilità di estensione[99]. Ancora, Adams nota come il concetto levinassiano di maternità sia limitativo perché l’identità della donna dipende dal “bearing children”:
What about women who are childless by choice, by chance, or because of infertility? What about adoptive mothers who did not gestate the other within? Are they not models of the “proper” sense of oneself ? Are women not to be as valued for their other achievements and abilities? Is their independence only a barrier to their ethical responsiveness?[100]
Ciò che viene assunto, in queste critiche, è il presupposto che la maternità abbia un legame indissolubile con la donna empirica, in virtù del fatto che la gestazione è legata ad uno stereotipo socio-culturale che, nonostante l’uso metaforico del termine presente nelle intenzioni di Levinas, emergerebbe e limiterebbe il ruolo e le caratteristiche della donna al prototipo della madre. Prima di affrontare più puntualmente la questione, mi sembra opportuna una ulteriore osservazione. Ci si potrebbe chiedere, analogamente a quanto avveniva per il discorso sulla “paternità”, se parlare di “maternità” non possa destare preoccupazioni circa eventuali limitazioni di genere del concetto.
Infatti, se il modello della maternità fornisce per Levinas il “prototipo” dell’umano, si potrebbe temere che ciò significhi che ci troviamo di fronte ad una inversione per cui, mentre prima si aveva il timore che le donne fossero escluse dalla prospettiva etica, adesso sarebbero gli uomini a non farne parte. Infatti, se il “gemito delle viscere” è simbolo di una sensibilità sofferente, esposta e vulnerabile, potrebbe sorgere il dubbio che non sia possibile estendere all’uomo un’immagine che poggia così profondamente su un evento concreto della sfera biologica della donna.
Tuttavia, credo che ci siano elementi per scongiurare contemporaneamente sia il timore di trovarsi di fronte ad una dimostrazione (l’ennesima, direbbero i critici più severi) dell’androcentrismo patriarcale di Levinas, sia la strana constatazione, non meno problematica della prima, di trovarsi di fronte ad una inversione di ruoli per cui, mentre prima l’etica levinassiana era “per soli uomini” adesso sarebbe “per sole donne”.
Infatti, esplicitamente, Levinas parla di un uso metaforico del termine maternità/gestazione, diversamente dalle espressioni maggiormente enigmatiche che riguardavano il femminile: «l’evocazione della maternità in questa metafora ci suggerisce il senso proprio del se stesso»[101]. A questa dichiarazione si può aggiungere l’osservazione che, parlando della maternità, Levinas non si riferisce mai apertamente alla donna, termine che negli scritti degli anni precedenti ricorreva nelle descrizioni del femminile e ne caratterizzava un’ambiguità fondamentale, pur con le molte aperture possibili che sono state riscontrate negli scorsi capitoli. Naturalmente, l’immagine della maternità si ispira alla madre e all’evento della gestazione, ma quello che Levinas intende con questo termine ha un significato molto più ampio, che non riguarda soltanto la donna.
Si può sostenere che, come il femminile negli scritti precedenti e anche con maggiore evidenza rispetto a questo, la “maternità” non corrisponda alla donna empirica, tanto più che la soggettività etica descritta da Levinas, finanche nei suoi aspetti più corporei, non ha una connotazione sessuale. Inoltre, il termine “virile” evocato alla fine di Altrimenti che essere non indica un modo di essere dell’uomo, ma più in generale dell’io come attività, interessamento ed egoismo, senza alcun riferimento diretto ad un sesso o all’altro.
Dunque, la maternità, elemento che potrebbe sembrare il più dipendente da una connotazione di genere, è utilizzato in senso figurato per indicare l’umanità dell’essere umano. Tutti possono essere come una madre, anche gli uomini perché l’umanità dell’essere umano risiede nella prossimità, vulnerabilità, esposizione, sensibilità e, per usare l’immagine che riassume in sé tutte queste caratteristiche, nella maternità del soggetto.
Come fa notare Bradley: «However, maternity is successful as a trope because it is gender-neutral in a way that the feminine is not. Maternity is not reserved purely for women, the way the feminine is purely representational of the woman»[102]. Nonostante, come questa tesi ha cercato di mostrare, non sia possibile questa identificazione così netta fra femminile e donna empirica che Bradley sostiene, si può effettivamente riscontrare come la maternità non corrisponda ad un genere specifico e, dunque, sia “sessualmente neutra”. Ciò non significa che la soggettività etica della quale la maternità è metafora, si possa, senza ulteriori accorgimenti definire, neutra.
Il neutro è, essenzialmente, ciò da cui Levinas ha sempre voluto allontanarsi, ovvero l’il y a che riempie anche la negazione dell’essere. Tutta la sua filosofia può essere considerata un tentativo di evitare la neutralità dell’essere, che significa anche l’impersonalità dell’essere umano come adesione ad esso. La soggettività etica di Altrimenti che essere non è “neutra”, intendendo con questo termine una categoria generale, perché non è né «una trasformazione della natura, né un momento del concetto, né un’articolazione della “presenza dell’essere vicino a noi della parusìa”»[103]. Piuttosto, si tratta di individuare, attraverso la responsabilità per l’altro, l’unicità e l’insostituibilità di ogni essere umano.
Queste considerazioni fanno, naturalmente, sorgere una questione. Il soggetto non è “neutro” e, tuttavia, al contempo non è “caratterizzato sessualmente”. Come è possibile, dunque, sostenere la sua “femminilità”?
Forse, per evitare fraintendimenti, si dovrebbe parlare più propriamente di un soggetto “al femminile”, accogliendo un suggerimento di Orietta Ombrosi[104], escludendo, naturalmente, dal termine un riferimento alla donna empirica .
Si tratta, piuttosto, di ritrovare una “femminilità” nel nucleo dell’umano, intendendo con questo termine la vulnerabilità, la debolezza, l’accoglienza e la maternità che, coerentemente con le intenzioni di Levinas, sono tratti che si riferiscono all’umanità al di là della differenza di genere e realizzano quel «necessario allentamento senza viltà della virilità per il poco di crudeltà che le nostre mani ripudieranno»[105]. Forse uno sguardo ulteriore al rapporto fra “femminile” e “giudaismo” in Levinas permetterà di chiarire maggiormente questa ricerca levinassiana di un senso dell’umano molto più originario della distinzione fra uomo e donna.
3.4. Ancora ebraismo: l’umanità oltre la differenza di genere.
Come dicevo negli scorsi paragrafi, il femminile scompare da una trattazione esplicita nelle opere filosofiche levinassiane successive a Totalità e Infinito. Tuttavia, indicazioni importanti sul tema sono contenute in due letture talmudiche pubblicate nel 1973 e tenute durante i Colloqui degli intellettuali ebrei di lingua francese presso la Sezione Francese del Congresso Mondiale Ebraico.
La prima si intitola Desacralizzazione e liberazione dalla magia e si concentra, appunto, sul tema della magia come ciò che opera all’ombra del “sacro”, il quale per Levinas si oppone al “santo”. La santità è intesa dal filosofo come sinonimo della relazione etica, del dovere infinito verso l’altro: «essa è esigenza di santità. Nessuno può mai affermare: ho fatto tutto il mio dovere. Tranne l’ipocrita […] quando in presenza degli altri dico “Eccomi!”, questo “Eccomi!” è il luogo attraverso il quale l’Infinito entra nel linguaggio, ma senza darsi a vedere»[106].
In realtà, come Levinas chiarisce sin dall’inizio della lettura, il testo che commenta (Trattato Sanhedrin, 67a-68a), non parla del sacro. Tuttavia, il filosofo intende la magia come una pratica vicina ad esso. Come fa notare Cavalletti, proprio il binomio sacro/santo che guida questa lettura talmudica offre un importante esempio dell’atteggiamento levinassiano di fronte al testo, perché il filosofo vuole “desacralizzare” il Talmud, ampliandone gli orizzonti e dispiegandone tutta la ricchezza al di là dei confini del culto religioso e recuperando il senso più propriamente umano, etico della scrittura[107]. Dunque, non è nella dimensione del sacro che si incontra il divino, ma nella relazione con gli uomini, nella quale per Levinas si compie autenticamente il significato dell’ebraismo.
Al di là del tema generale della lettura, ciò che è interessante in questa sede non riguarda tanto il seguirne l’andamento specifico, che giunge a considerazioni e tematiche che vanno oltre il tema della presente tesi, quanto piuttosto una considerazione che Levinas elabora brevemente nelle prime pagine del testo e che riguarda direttamente il tema del femminile.
Il filosofo commenta, come dicevo, un brano che identifica la magia con una pratica avente una parentela con il sacro e, punto centrale della questione, prevalentemente esercitata dalla donna. La Bibbia condanna, dunque, la magia ritenendo che chi la pratica debba essere chiamato “maga” perché la maggior parte delle donne si occupa di magia.
Identificando le caratteristiche della maga, Levinas ripropone quasi alla lettera i tratti di ambiguità che avevano caratterizzato la trattazione del femminile nell’erotico:
incanto o subdolo spostamento del Senso, nascita dell’ambiguità stessa, dell’espressione che rinnega il pensiero; la grazia del volto che già si decompone nel ghigno orribile delle streghe nei loro covi nel Macbeth o nel Faust, ove i discorsi si dissolvono, incapaci di contenere un senso corrente, e si smarriscono in allusioni, in rime senza ragione, in sghignazzamenti, in non-detto[108].
Dunque, la magia è una forma di “apparenza”, di “non-significato” e di degradazione del femminile, indicazione importante perché non è più il femminile in quanto tale, come avveniva nella fenomenologia dell’erotico, ad essere ambiguo, ma la magia è una sua possibile degradazione. Ci si potrebbe chiedere se, commentando un passo che fa della donna un’esercitatrice di incanti, effettivamente, Levinas identifichi il femminile con la donna empirica.
A sostegno di questa tesi, si potrebbe osservare che il filosofo si preoccupa immediatamente di chiarire che la dignità della donna in generale non viene affatto compromessa da queste considerazioni, riproponendo gli esempi delle grandi figure bibliche di Sara, Lia, Ruth e Betsabea già presentate nell’articolo Le Judaisme et le féminin. Tuttavia, una considerazione che Levinas elabora poche pagine dopo sembrerebbe smentire questa identificazione. Infatti, commenta il filosofo, la maga nell’Esodo viene condannata a morte per lapidazione e l’espressione “Tu non la lascerai vivere” somiglia molto ad un altro passaggio del testo, dove si dice che gli Israeliti riuniti ai piedi del Sinai vengono minacciati di lapidazione per aver oltrepassato i limiti della Rivelazione. Nel secondo passaggio, oltre al riferimento alla stessa pena per lapidazione attribuita alla maga, si legge “Cesseranno di vivere”. Dunque, le illusioni della magia non sono tanto un problema relativo alla natura della donna, quanto piuttosto la tentazione del popolo ebraico, il depositario della rivelazione divina[109]. Vi è in questo passaggio un riferimento alla necessità di rimanere sensibili di fronte al mistero, di non violare il segreto del divino, di non “Proiettare un fascio di luce”[110] su cose che vanno pudicamente avvicinate. Si potrebbe sostenere che questa idea sia conforme alla presentazione dell’ambiguità dell’erotico presente in Umanesimo dell’altro uomo e Altrimenti che essere, testi nei quali, come si è visto, l’erotico non è tanto riportato alla sfera sessuale in quanto tale, ma piuttosto alla tentazione del male che consiste nell’anteporre il proprio egoismo alla responsabilità per altri, nel far sì che il “fascino luciferino” dell’irresponsabilità turbi l’obbedienza an-archica al bene. L’immagine del “fascio di luce proiettato sul mistero” può essere riportata alla coscienza che, pretendendo di essere origine e principio, riduce l’altro a proprio tema e turba il mistero, allontanandosi dalla traccia nella quale l’Infinito si segnala.
Un altro elemento favorevole alla possibilità di non sovrapporre il femminile alla donna empirica riguarda il particolare contesto nel quale Levinas evoca le figure bibliche precedentemente menzionate. Infatti, egli sta proponendo un’interpretazione di un brano del Talmud, quindi il contesto dell’esegesi della scrittura giustifica questo accostamento, essendo il femminile nell’ebraismo, come si è già visto, rappresentato da caratteristiche della donna e, in particolare, della grandi figure dell’Antico Testamento.
Tuttavia, come si era già detto relativamente all’articolo del 1960, non si può intendere il rapporto fra la filosofia di Levinas e l’ebraismo in modo rigido, come se le categorie del secondo si riversassero semplicemente nella prima. Lo stesso Levinas non si rivolge al giudaismo parlando di “filosofia ebraica”, espressione complessa e che riunisce due orizzonti culturali in parte diversi, appunto la filosofia occidentale e l’esperienza dell’ebraismo[111], ma preferisce il termine pensiero ebraico:
Car la vie intellectuelle du judaisme resté juif ne se présente pas, et ne se juge pas, à partir des principes. L’exégese des textes, l’assomption – comme on dit aujourd’hui – de sa propre historie […]. Aujourd’hui, come toujours, la pensée juive est par excellence un dialogue avec l’autre que soi[112].
Dunque, si può parlare di una interpretazione ed estensione da parte di Levinas di alcune categorie tratte dall’orizzonte culturale e religioso del giudaismo.
Per riferirmi al tema specifico della presente tesi, il concetto del femminile, pur traendo ispirazione da alcuni elementi fondamentali dell’esegesi talmudica relativi a caratteristiche proprie delle figure femminili bibliche, è emerso negli scorsi capitoli come molto più complesso della semplice riconduzione alle caratteristiche della donna empirica.
Tuttavia, se si ritorna al tema della magia, una considerazione di Levinas fa sorgere qualche perplessità riguardo la condizione della donna. Il filosofo ammette che, dovunque gli uomini dominano, la donna risulta equivoca, sensuale, erotica, per cui la sua umanità diventa ambigua, si duplica a causa di una compresenza di pudore e oscenità. Certo, Levinas continua le proprie riflessioni ammettendo che il dominio maschile possa essere contingente, ma chiedendosi anche se la donna debba emanciparsi entrando, a pieno titolo, in un’universalità della quale gli uomini hanno fissato una forma più significativa rispetto alla sessualità per definire l’essenza umana[113].
Si tratta di elementi che potrebbero far pensare alla possibilità che la donna, per emanciparsi, debba in qualche modo rinunciare al proprio “essere donna” e diventare maschile. Senza ulteriori precisazioni, dunque, l’accusa di maschilismo rivolta contro Levinas potrebbe sembrare fondata.
È necessario, a questo punto, rivolgersi alla lettura talmudica E Dio creò la donna, testo che costituisce un commento al racconto della creazione della Genesi e, in questo modo, chiarire il senso del passaggio enigmatico nel quale il filosofo si riferiva alla necessità di un ingresso delle donne in un’universalità della quale gli uomini hanno fissato la forma.
Levinas prende in considerazione un testo, il Trattato Berakhoth 61 a, un commento al racconto della creazione dell’uomo e della donna.
Tuttavia, prima di parlare della differenza dei sessi, Levinas commenta tre enunciati che rimandano alla natura umana in generale, notando che la differenza sessuale compare soltanto alla fine e, precedentemente a questa, una dualità viene già riscontrata dai commentatori nell’umano senza che intervengano le differenze fra uomo e donna.
Il commentatore scrive che Dio “ha creato due inclinazioni, quella buona e quella cattiva”, traducendo jetzer come “inclinazione” anche se, nota Levinas, il termine significa anche “creatura”[114]. Nello stesso essere umano, si tratta di rintracciare due creature diverse, una buona ed una cattiva.
Le tue tendenze che si ritrovano nell’essere umano non sono, come si potrebbe pensare, l’animalità e la coscienza perché Levinas osserva che l’animale può obbedire e, dunque, ha una qualche forma di coscienza e di ragione. Perciò, il tratto distintivo dell’umano rispetto alle altre creature va cercato altrove e non nella coscienza.
La seconda osservazione riguarda la risposta di Rav Shimon ben Pazzi che dice: “Guai a me da parte del mio Creatore, guai a me da parte della mia cattiva inclinazione”. Levinas commenta facendo osservare che la tensione interna all’essere umano è quella fra la Legge che proviene da Dio e la propria esistenza, quello che si può chiamare erotismo nel significato più ampio che ricordavo precedentemente, ovvero l’egoismo, il vivere unicamente per se stesso. Levinas riprende in questi passaggi l’idea, presente anche nei testi filosofici più importanti di questi anni, che quella della creatura sia una condizione severa, costretta, non votata alla libertà, ma vincolata al rispetto della legge divina.
Il terzo detto che Levinas commenta giunge a trattare il problema della creazione, senza riportare però il passo della Genesi che vuole che Dio abbia creato l’uomo come maschio e femmina. Invece, il testo del Talmud ricorda che Dio ha creato nel primo uomo due volti, serrando dietro e davanti l’uomo e passando su di lui la sua mano. Si tratta di una citazione del Salmo 139 che rappresenta un importante punto di riferimento relativamente alle descrizioni levinassiane della soggettività etica. Infatti, per Levinas si può ritrovare proprio in questo salmo ciò che distingue l’umanità dell’essere umano. Si tratta di pensare l’interiorità del soggetto come apertura radicale fino ad essere attraversato totalmente da Dio e toccato dalla sua mano. Le due facce significano che, se la prima è l’interiorità, il pensiero e il rifugio del soggetto, la seconda è espropriazione dell’intimità: tutto è aperto e tutto deve rispondere a Dio. Sono termini analoghi a quelli con i quali, in Altrimenti che essere, viene descritta l’interiorità come espropriazione radicale del soggetto, esposizione ad altri e sostituzione fino all’espiazione per le loro colpe. Infatti, Levinas ritiene che questa doppia faccia del primo essere umano significhi portare un altro in sé, portare il viso di un altro che non si lascia vedere, come se la sua invisibilità provocasse insonnia nel soggetto[115].
È interessante notare come, sin da subito, Levinas ponga l’attenzione sull’assenza della donna, in quanto l’essere umano creato non è contraddistinto dalla differenza sessuale. Infatti, nei commenti del Talmud è solo dopo questi tre detti, che riguardano l’umanità in generale, che si parla per la prima volta della creazione della donna.
Il volto originario è un volto “continuo”, scrive Levinas, le sue due “facce” non indicano la distinzione fra uomo e donna, ma le due inclinazioni dell’umano: l’egoismo e l’apertura ad Altri. Che la differenza sessuale sia considerata in secondo piano rispetto alla questione dell’umanità dell’essere umano è evidente anche dal commento dei dottori del Talmud al brano della Genesi che parla della creazione della donna. I commenti sono diversi e, come Levinas ricordava anche nell’articolo del 1960, ci sono due racconti della creazione che vogliono uno che la creazione di uomo e donna sia contemporanea (“maschio e femmina li creò”), l’altro che la donna sia nata da una costola e, quindi, dopo l’uomo. In quel contesto, Levinas aveva dato, come si è visto, maggiore rilevanza al primo racconto.
In questa lettura, invece, il pensatore propende per la seconda interpretazione. La donna fu tratta dalla costola di Adamo, “costola” che alcuni commentatori traducono come “coda”, ovvero non una vertebra portante dello scheletro, ma un accessorio, qualcosa di trascurabile. Ciò significa che Levinas intenda, effettivamente, sostenere un’inferiorità della donna rispetto all’uomo? In realtà, sottolinea Levinas, i due racconti della Genesi hanno un significato più profondo.
Propendere per la contemporaneità della creazione di maschio e femmina significa sostenere che la differenza sessuale è una distinzione fondamentale dell’essenza umana. Invece, considerare la donna “in quanto donna” un’appendice, significa che la particolarità del “femminile” è secondaria, che il rapporto fra i sessi deve essere subordinato al rapporto fra persone: «in primo piano sono i compiti che perfezionano l’uomo come essere umano e la donna come essere umano»[116]. Infatti, il dovere dell’essere umano è essere per gli altri, l’umanità autentica è nella responsabilità etica che precede i rapporti fra i sessi. Dunque, una rivoluzione sessuale da sola, per Levinas, non è sufficiente e, di più, con una espressione dai toni severi il filosofo ritiene che non sia degna della specie umana.
Un’indicazione interessante, a proposito, è contenuta in una riflessione del filosofo sul “maggio francese” del 1968. Levinas ritiene che il sentimento dominante della rivoluzione fosse il rifiuto della vulnerabilità dell’umano, del debito verso l’altro e il tentativo di far trionfare l’appagamento e la gerarchizzazione di una società colma di essere, priva di aneliti religiosi: sotto il capitale in avere, pesava un capitale in essere[117]. Dunque, qualsiasi rivoluzione meramente sessuale, politica, economica, che cioè non si fondi sulla riscoperta dell’umanità dell’uomo come sua pre-originaria responsabilità per altri, non è una “rivoluzione umana”.
Tuttavia, nonostante queste considerazioni di Levinas, il problema della “donna” non sembra, fino a questo momento, trovare una soluzione soddisfacente. Di più, Levinas elabora alcune considerazioni che potrebbero addirittura aggravare le accuse di maschilismo. Infatti, il pensatore richiama il libro dei Proverbi dove si dice che la donna rende intima la dimora degli uomini, ma il marito ha anche una vita pubblica, siede nel Consiglio cittadino a servizio dell’universale. Avrebbe, dunque, apparentemente ragione Chanter quando critica Levinas ritenendo che riproponga l’androcentrismo tipico dell’ebraismo tradizionale, contesto nel quale alla donna è interdetto l’esercizio di funzioni pubbliche[118]. Di più, le considerazioni di Levinas si spingono fino a considerare esplicitamente una priorità dello spirito maschile.
Infatti, trovandosi di fronte alle due letture della creazione, il filosofo si chiede come sia possibile conciliare l’idea che uomo e donna siano stati creati insieme con l’altro racconto, dove la donna viene tratta da una costola, ovvero da un’appendice. Dunque, si deve conciliare l’idea che ci sia un’umanità comune a uomini e donne con quella di una certa subordinazione del femminile al maschile, quest’ultimo identificato con la spiritualità: «domanda ardita: come può l’uguaglianza dei sessi derivare dalla priorità del maschile?»[119]
Ci sono, ad una prima lettura, degli elementi a forte sostegno dell’idea che il femminile si identifichi con la donna empirica e che non riceva adeguata considerazione da parte del filosofo. Infatti, per entrare a far parte della spiritualità umana, la donna dovrebbe “maschilizzarsi”.
Tuttavia, ritengo che il significato delle espressioni spiritualità del maschile e priorità del maschile risieda nella interpretazione del termine Ish con il quale, nella Bibbia e nel Talmud, si indica il primo essere umano, antecedente alla differenza sessuale. Come fa notare Sandford, infatti, il filosofo si starebbe riferendo al
conventional Hebrew usage, where ‘Ish’ apparently refers not only to the masculine gendered person and the husband, but also to a person generically, without emphasis on gender, or to each person, everyone, or someone. ‘Ish’ can also mean ‘a mortal’, and it was of course the curse of all mortals that they should know death as their proper punishment for disobedience[120].
Sandford ritiene, comunque, che Levinas non riesca a restituire “neutralità” ad Ish per via del fatto che, sovente, nel corso del commento ed anche nelle sue opere più propriamente filosofiche, il femminile è associato all’erotico e al rapporto fra i sessi e viene indicato come “donna”[121]. In effetti, nel corso della lettura Levinas parla della “femminilità della donna” e anche nelle opere dove il femminile veniva affrontato come modo dell’alterità dell’intimità e dell’erotico Levinas vi si riferiva, a volte, con il termine “donna” e attraverso immagini bibliche o letterarie di donne.
Si può osservare, tuttavia, che l’ambiguità del femminile è una questione ineludibile, alla luce del fatto che, come si è visto negli scorsi capitoli, nonostante ci siano molti elementi a favore di un’interpretazione metaforica del concetto come modo dell’alterità non sovrapponibile ad un sesso o all’altro, quando un pensatore maschile esercita il metodo fenomenologico risulta difficile la possibilità di estraniarsi completamente da un punto di vista di genere. Tuttavia, Levinas stesso parla sovente del femminile come “modo di Altri”, “altri in quanto femminile”, “Amato che è amata” fino a dire esplicitamente, nelle pagine di Totalità e Infinito dedicate alla dimora, che risulta ridicolo pensare che un rapporto di intimità in una casa sia impossibile senza una donna empirica al suo interno.
Si potrebbe, forse, ribattere che Levinas nella lettura E Dio creò la donna avrebbe potuto essere più chiaro o scegliere di evitare espressioni come “la femminilità della donna viene dopo”
[122] e parlare, piuttosto, di “sessualità dell’umano come secondaria”. Tuttavia, come ricordavo anche in precedenza, è necessario contestualizzare le riflessioni del filosofo. Infatti, in questo caso specifico, sta commentando dei brani del Talmud in un congresso di intellettuali ebrei, di “specialisti” di studi ebraici e, per l’ebraismo, la “femminilità” è caratterizzata attraverso i tratti della donna, soprattutto delle figure dell’Antico Testamento. Dunque, il più frequente riferimento al femminile come donna può essere comprensibile.
A ciò si aggiunga che, come dicevo, la “maschilità” dello spirito traduce il termine ebraico Ish, che si riferisce ad un essere umano non sessualmente caratterizzato. Si può accogliere l’idea che, probabilmente, non sia stata una scelta di termini riuscita pienamente e sarebbe stato, forse, preferibile usare espressioni meno ambigue, ma non credo sia sostenibile che Levinas stia proponendo una discriminazione della “donna in quanto donna”.
Piuttosto, è ormai chiaro che la differenza sessuale è un aspetto secondario dell’umanità perché, se fosse stata una differenza originaria, se uomo e donna fossero stati creati insieme già sessualmente diversificati, l’umanità dell’essere umano non sarebbe stata più una. Questo ci riporta alla domanda rimasta in sospeso all’inizio del discorso, ovvero la strana espressione usata da Levinas sulla necessità che la donna entri a pieno titolo in una società della quali gli “Uomini” hanno dettato la forma universale. Il “dominio maschile” e gli “uomini” non sono gli esseri umani di sesso maschile, ma gli esseri umani in quanto tali. Infatti, ricorda Levinas, l’espressione “camminare dietro una donna” usata nel Talmud non va assunta letteralmente, ma interpretata e significa scegliere la pace dell’intimità amorosa, che non è il rapporto per eccellenza che si stabilisce fra esseri umani[123]. L’umanità dell’essere umano consiste, infatti, nel rispondere di tutto l’universo, nell’essere ostaggio di tutti, in una dignità che viene da una responsabilità illimitata piuttosto che dalla preoccupazione egoistica del proprio essere. L’intimità erotica è, ancora, il luogo della chiusura in sé, mentre l’umano è apertura per eccellenza e impossibilità di sottrarsi allo sguardo insonne di Dio[124] che ci guarda nel volto dell’umanità intera.
[1] M. di Bernardo, Emmanuel Levinas: la metamorfosi del femminile come via che conduce all’«altrimenti che essere»?, op. cit.
[2] Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica [1964], in J. Derrida, La scrittura e la differenza [1967], trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Milano 1990, p. 138.
[3] Cfr. Ivi, p. 142.
[4] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito. Prefazione all’edizione tedesca [1987], in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit., pp. 263-264.
[5] Cfr. S. Petrosino, Introduzione, in E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza [1974], trad. it. di M. T. Aiello e S. Petrosino, Jaca Book, Milano 2006, p. XIV.
[6] Cfr. Ivi, p. 6.
[7] R. Burggraeve, Violence and the Vulnerable Face of the Other: The Vision of Emmanuel Levinas on Moral Evil and Our Responsibility, in «Journal of social philosophy», 30/1 (1999), p. 30.
[8] E. Levinas, Ermeneutica e al di là [1977], in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit., p. 99.
[9] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 29.
[10] Cfr. Ivi, p. 7.
[11] Cfr. Ivi, p. 51.
[12] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo [1972], trad. it. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 1985, pp. 24-27.
[13] G. Salmeri, L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, op. cit.
[14] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 8.
[15] Cfr. Ivi, p. 60.
[16] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 101.
[17] Ivi, p. 105.
[18] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 139.
[19] Cfr. S. Petrosino, Nota di traduzione, Ivi, p. XXXI.
[20] Ivi, pp. 10-11.
[21] Cfr. G. Ferretti, Emmanuel Levinas, in A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, op. cit., p. 231.
[22] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 17.
[23] Cfr. E. Levinas, La traccia dell’altro [1963] e Enigma e fenomeno [1965] in E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., pp. 215-254.
[24] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 110.
[25] Cfr. Ivi, p. 118.
[26] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 91.
[27] E. Levinas, Di Dio che viene all’Idea [1982], trad. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 13.
[28] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 229. Il corsivo è mio.
[29] Cfr. P. Ricoeur, Autrement. Lecture d’Autrement qu’être ou au de là de l’essence d’Emmanuel Levinas, Presses Universitaires de France, Parigi 1997, p. 3.
[30] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 70.
[31] Ibidem.
[32] Ivi, p. 15.
[33] B. Hofmeyr, Radical Passivity: Ethical Problem or Solution?, in B. Hofmeyr (a cura di), Radical Passivity. Rethinking Ethical Agency in Levinas, Springer, Berlino 2009, p. 19.
[34] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 60.
[35] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 279. Scrive Levinas: “Il turbamento del soggetto non è assunto dalla sua signoria di soggetto, ma è la sua commozione, la sua effeminatezza, di cui l’io eroico e virile si ricorderà come di una di quelle cose che sporgono dalle «cose serie»”.
[36] O. Ombrosi, L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, op. cit., p. 156.
[37] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 101.
[38] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 128.
[39] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 110.
[40] Cfr. E. Levinas, Dieu, la mort et le temps [1975-76], Grasset & Fasquelle, Parigi 1993, p. 163.
[41] Cfr. P. Birtolo, La nuova concezione della soggettività in Emmanuel Levinas, in «Idee», 42 (1999), p. 154.
[42] J. Hansel, L’asimmetria del volto. Un’intervista, op. cit.
[43] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 266.
[44] Cfr. Ibidem.
[45] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 127.
[46] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 64.
[47] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 167-168 e pp. 229-240.
[48] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 64.
[49] Cfr. Ivi, p. 81.
[50] Ivi., p. 70.
[51] F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, op. cit., p. 210.
[52] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 127.
[53] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., pp. 89-93.
[54] Ivi, p. 93. Il corsivo è mio.
[55] Cfr. Ivi, p. 98.
[56] Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, op. cit., p. 105.
[57] E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 132.
[58] M. di Bernardo, Emmanuel Levinas: la metamorfosi del femminile come via che conduce all’«altrimenti che essere»?, op. cit.
[59] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., pp. 97-98.
[60] Ivi, p. 112.
[61] Cfr. Ivi, p. 113.
[62] Cfr. Ivi, p. 115.
[63] Ivi, p. 15, nota 7.
[64] Cfr. Ivi, p. 155 e E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 112.
[65] Cfr. E. Levinas, Filosofia, giustizia e amore, in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit., p. 148.
[66] Cfr. C. E. Kats, Levinas between Agape and Eros, in «Symposium», 11/2 (2007) p. 338.
[67] E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, op. cit., p. 115.
[68] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 287.
[69] Cfr. G. Salmeri, L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, op. cit.
[70] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 84.
[71] Ivi, p. 94. La sottolineatura è mia.
[72] Cfr. Ivi, p. 96.
[73] Cfr. Ivi, p. 94.
[74] Cfr. Ibidem e E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., p. 128.
[75] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo. op. cit., p. 151, nota 10.
[76] Cfr. E. Levinas, Filosofia, giustizia e amore, in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit., p. 142.
[77] Ibidem.
[78] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 114.
[79] Cfr. O. Ombrosi, L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, op. cit., pp. 156-157, nota 37.
[80] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 2.
[81] Cfr. Ivi, pp. 130-131.
[82] Cfr. Ivi, p. 127.
[83] Ivi, p. 130.
[84] Ivi, p. 132.
[85] Ivi, p. 145.
[86] E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., p. 96.
[87] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 183, nota 11.
[88] Ivi, p. 147.
[89] Cfr. E. Levinas, Dieu, la mort et le temps, op. cit., p. 158.
[90] Cfr. C. Chalier, Éthique et féminin, in «Les Cahiers du GRIF», 32 (1985), p. 128.
[91] Pensare alla maternità in questi termini, in una realtà attuale che ha fatto propria l’idea della riproduzione consapevole e, finanche, della decisione programmata di diventare genitori, mediante l’ausilio di nuove tecnologie di intervento sull’inizio della vita, rende di difficile applicazione il senso della metafora levinassiana. In particolare, relativamente al dibattito attuale sull’aborto, l’idea di una inalienabile responsabilità per l’altro può entrare in contrasto con il principio di autodeterminazione del soggetto. A tal proposito, Gambino evoca questo controverso tema, suggerendo la possibilità di ripensare il concetto di maternità riscoprendone l’originaria matrice di accoglienza e sottraendolo alla “perversa logica dei diritti”. Per approfondire la questione si rimanda a G. Gambino, Il moderno diritto al figlio. Riflessioni biogiuridiche a partire dal Giudizio delle due madri di Re Salomone, in «Medicina e morale», 2 (2013), pp. 311-328.
[92] S. Labate, La nascita latente del soggetto. Uno studio su Altrimenti che essere, op. cit., pp. 192-193.
[93] Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., pp. 131-134.
[94] Cfr. Ivi, p. 187.
[95] Ivi, p. 148.
[96] Cfr. Ivi, p. 157.
[97] Cfr. Ivi, p. 197.
[98] Cfr. M. Adamiak, The Grey Zone of Subjectivity. Phenomenology of the feminine body in Emmanuel Levinas’s thought, op. cit., pp. 21-22.
[99] Cfr. T. Chanter, Ethics of Eros: Irigaray’s Rewriting of the Philosophers, Routledge, Londra & New York 1995, pp. 198–99.
[100] S. LaChance Adams, MAD MOTHERS, BAD MOTHERS & WHAT A “GOOD” MOTHER WOULD DO, Columbia University Press, New York 2014, pp. 81-82.
[101] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., pp. 130-131. Il corsivo è mio.
[102] M. Bradley, Levinas, the feminine and the maternity, in «Critical theory and social justice journal of undergraduate research», 6 (2016), p. 48.
[103] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 24.
[104] Cfr. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, op. cit., p. 157.
[105] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op. cit., p. 229.
[106] E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., pp. 101-102.
[107] Cfr. S. Cavalletti, Introduzione, in E. Levinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, op. cit., p. 9.
[108] E. Levinas, Desacralizzazione e liberazione dalla magia, Ivi, p. 89.
[109] Cfr. Ivi, pp. 91-92.
[110] Cfr. Ibidem.
[111] Per approfondire la complessa questione legata al rapporto fra ebraismo e filosofia si rimanda a A. Fabris, Introduzione, in A. Fabris, (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, op. cit., pp. 9-21.
[112] E. Levinas, Hour sujet, Fata Morgana, Montpellier 1987, p. 15.
[113] Cfr. E. Levinas, Desacralizzazione e liberazione dalla magia, in E. Levinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, op. cit., p. 89.
[114] Cfr. E. Levinas, E Dio creò la donna, Ivi, p. 116.
[115] Cfr. Ivi, pp. 119-120.
[116] Ivi, p. 122.
[117] Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, op. cit., pp. 151-152, nota 13.
[118] Cfr. T. Chanter, Ontological difference, sexual difference, and time, in C. E. Kats e L. Trout (a cura di), Emmanuel Levinas. Critical assessments of leading Philosophers (Vol. IV – Beyond Levinas), op. cit., p. 114.
[119] E. Levinas, E Dio creò la donna, in E. Levinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, op. cit., p. 127.
[120] S. Sandford, The Metaphysics of Love. Gender and Transcendence in Levinas, op. cit., pp. 55-56.
[121] Cfr. Ibidem.
[122] Cfr. E. Levinas, E Dio creò la donna, in E. Levinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, op. cit., p. 127.
[123] Cfr. Ivi, p. 130.
[124] Cfr. Ivi, p. 119.