CAPITOLO 2 – L’apogeo del femminile: filosofia ed ebraismo
2.1. Il contesto di un mutamento.
Continuando a seguire lo sviluppo del femminile nel pensiero di Levinas è necessario in questo capitolo focalizzarsi sulle riflessioni prodotte tra la fine della prima metà degli anni Cinquanta e la pubblicazione del testo del 1961 che gli procurerà grande notorietà oltreché l’abilitazione necessaria all’insegnamento universitario: Totalità e Infinito. Ad una prima lettura della produzione levinassiana di questo periodo si potrebbe avere la sensazione di essere di fronte ad una semplice riproposizione, in forma più ampia, di concetti che il filosofo aveva già trattato nelle opere precedenti. In effetti, temi affrontati da Levinas in passato come il godimento, il femminile, la paternità e la fecondità sono motivi importanti anche negli anni successivi.
Tuttavia, la prospettiva nella quale queste riflessioni si inseriscono ha indubbiamente subito una certa evoluzione. Levinas negli anni precedenti aveva dato grande importanza alla relazione erotica come luogo della socialità originaria e il femminile era stato la manifestazione più ricorrente dell’Alterità di Altri nei suoi primi scritti. Non è certo l’unico rapporto che Levinas aveva preso in considerazione e, come dicevo nello scorso capitolo, da alcuni passaggi delle conferenze inedite si evince già un certo interesse orientato verso una direzione più specificamente etica. Proprio quest’ultima prospettiva diventa, adesso, il centro della riflessione levinassiana e procede attraverso una sempre maggiore centralità del Volto come rivelazione per eccellenza dell’esteriorità di Altri, rispetto alla quale il concetto del femminile – come le tematiche a questo correlate – ha subito una notevole evoluzione, tanto da complicarsi ulteriormente rispetto alla sua già complessa fisionomia originaria. Per seguirne il cambiamento, naturalmente, si rende necessario non soltanto delinearne le caratteristiche fondamentali, ma anche avere sempre presenti in parallelo i tratti del Visage. È solo guardando ad entrambi i concetti che risulta più chiaro cercare di inquadrare il femminile, le relazioni nelle quali è coinvolto e in che posizione queste si collochino rispetto alla dimensione etica.
Ho scelto di focalizzare l’attenzione in questo capitolo, oltre che su Totalità e Infinito, anche su alcune riflessioni prodotte nello stesso periodo sotto forma di saggi, annotazioni e trascrizioni di conferenze. Userò lo stesso metodo ad intreccio della sezione precedente, tornando anche a considerare alcuni passaggi di conferenze già menzionate. Relativamente a queste ultime, farò riferimento a parti di testo che i curatori ritengono essere databili negli anni successivi. Infatti, grazie ad un’attenzione al supporto cartaceo sul quale gli appunti sono stati scritti, emerge come alcuni fogli o aggiunte non dattilografate non facessero parte del testo delle conferenze originali e risentano della elaborazione del pensiero più maturo che Levinas ha poi proposto in Totalità e Infinito.
Non potrò, inoltre, non soffermarmi sul terzo orizzonte di ispirazione del pensiero di Levinas, oltre la letteratura e la filosofia, menzionato brevemente all’inizio del capitolo precedente e lasciato in ombra, ma ora indispensabile per inquadrare in modo più preciso lo sviluppo della fisionomia del femminile. Si tratta della matrice ebraica del suo pensiero, elemento che si lega esplicitamente al tema della presente tesi in un articolo del 1960 dedicato al rapporto tra giudaismo e femminile – che esaminerò più nel dettaglio nell’ultimo paragrafo di questo capitolo – ma anche indispensabile per comprendere la categorie filosofiche che Levinas mette in campo per dirigersi ormai verso un pensiero maturo orientato sul primato della dimensione etica.
2.1.1. Ontologia della guerra e rottura della totalità.
Per sviluppare adeguatamente il tema del femminile seguendolo nei molteplici nodi ai quali si intreccia è necessario un breve inquadramento del contesto nel quale Levinas inserisce le proprie riflessioni al fine di mettere in luce come, da un certo momento in poi, la dimensione etica sia diventata il cardine delle riflessioni del filosofo. Credo che un modo adeguato di introdurre la questione sia quello di chiarire i due termini che costituiscono il titolo dell’opera levinassiana più nota di questo periodo, appunto i concetti di “Totalità” e di “Infinito”.
Da questo punto di vista, proprio l’incipit di Totalità e Infinito offre uno spunto importante per comprendere il significato del tentativo di Levinas. L’opera si apre con una frase eloquente che riesce, secondo Peperzak, ad assolvere il compito per eccellenza di una prefazione: «A preface ought to state without detours the meaning of the work undertaken! The preface to Totality and Infinity does this, but in a surprising way»[1]. Aggiungerei che, oltre ad essere sorprendente, la frase iniziale dell’opera sconvolge, perché parte da una considerazione apparentemente riferita al “senso comune”, mentre in realtà giunge a ribaltare le aspettative dei lettori: «Tutti ammetteranno facilmente che la cosa più importante è sapere se non si è vittime della morale»[2]. Sembrerebbe strano ammettere che si possa diventare vittime della morale perché proprio questa è importante per la civiltà in quanto offre delle riflessioni sul senso dell’agire e dei criteri che orientano il comportamento umano.
Tuttavia, Levinas introduce la possibilità che gli imperativi della morale siano in pericolo. Anzi, il grande compito della verità – lucidità come apertura dello spirito sul vero[3] – consiste nella capacità di rintracciare una possibilità sempre presente, quella della guerra. Questa non è semplicemente una prova fra le altre per la morale, ma ciò che la neutralizza e la rende vana. La guerra è strettamente legata alla politica, esplicitamente definita da Levinas come “l’arte di prevedere e vincere la guerra” e identificata con l’esercizio della ragione, di modo che la politica così intesa è opposizione alla morale stessa[4].
Nel chiamare in causa l’esercizio della ragione, Levinas introduce l’idea secondo la quale la stessa esperienza che si realizza nella guerra si è manifestata nell’istanza fondamentale che ha guidato il pensiero filosofico occidentale lungo tutto il corso del suo sviluppo: «l’esperienza pura dell’essere puro»[5]. La ragione tradizionalmente intesa è un pensiero che ferisce direttamente l’umanità dell’uomo, un “pensiero della guerra”.
La guerra e la violenza secondo Levinas non si limitano solo a ferire o uccidere fisicamente le persone ma ne interrompono la continuità[6] perché le assoggettano ad un ordine comune che fa mancare la loro stessa sostanza. Le persone non sono più persone, vengono sacrificate alla “totalità” intesa come un ordine razionale portatore di senso aderendo al quale soltanto è possibile che l’essere umano abbia un proprio significato.
È da questo pensiero che è necessario distanziarsi per cercare una pace che non può stagliarsi nell’orizzonte storico, palcoscenico della politica della guerra. È necessaria per Levinas una escatologia della pace messianica[7], una pace finale che non si compia come fine ultimo della storia, ma ne evada gli orizzonti. Levinas, infatti, ritiene che il sacrificio dell’individuo alla Totalità si realizzi come partecipazione ad un tempo universale, quello della storia. Il tempo degli storiografi costituisce una presunta trama cronologica dell’essere in sé all’interno della quale gli individui vengono assorbiti senza che la loro nascita e la loro morte abbiano un significato autentico[8]. Invece, la possibilità di un’esistenza personale consiste nel fatto che ciascun soggetto esiste separatamente ed ha un proprio tempo particolare, unico che è la dimensione dell’interiorità. Se ogni essere ha un proprio tempo che non coincide con quello storico, questo rende possibile il dispiegarsi di nuove possibilità per il soggetto, fra le quali quella che la morte non sia semplicemente una fine attestata dai superstiti[9]. Ritornerò nei prossimi paragrafi sia sul modo in cui concretamente si produce la separazione che sulle nuove possibilità che al di là della storia si dischiudono per il soggetto.
Adesso occorre chiarire i due più importanti punti di riferimento che orientano Levinas nella propria opposizione alla Totalità. Il primo è un’opera riconosciuta come fin troppo presente fra le pagine di Totalità e Infinito per essere continuamente citata: La stella della redenzione di Franz Rosenzweig[10]. Infatti, come fa notare Ciglia, Levinas è stato colui che proprio agli inizi degli anni Sessanta ha costretto a prestare attenzione a questo filosofo fino ad allora praticamente dimenticato e si può collocare fra i pensatori di matrice ebraica che continuano il suo tentativo di “nuovo pensiero” volto a contrapporsi all’impronta totalitaria dei sistemi filosofici tradizionali[11]. Il tentativo fondamentale di Rosenzweig che Levinas riprende è quello di contrapporsi al concetto di verità che regge la filosofia occidentale fin dalle proprie origini, ovvero il Tutto che ingloba gli altri elementi del reale sopprimendoli. Il riduzionismo è tratto fondamentale di questo pensiero ovvero la tendenza ad elevare un elemento del reale a Sistema.
Rosenzweig, come Levinas sottolinea, prende le distanze da una “filosofia senza filosofi” che rende l’essere umano solo una parte del tutto, ma senza rinunciare alla filosofia[12]. Si tratta di pensare un nuovo sistema filosofico rappresentato da un simbolo che rimanda ad un’esperienza diversa da quella occidentale tradizionale, appunto l’orizzonte dell’ebraismo richiamato dalla stella di Davide che dà il titolo all’opera. L’influenza di Rosenzweig su Levinas è molto presente ed egli può dire esplicitamente che proprio a questo pensatore si deve la capacità di riconoscere che l’esistenza ebraica non è soltanto un insegnamento religioso, ma un avvenimento essenziale dell’essere e, infatti, la Stella della Redenzione è molto più di un libro perché apre le porte della vita[13].
Oltre alla presenza di numerosi riferimenti all’opera di Rosenzweig, la seconda fonte di ispirazione del pensiero levinassiano di questo periodo rimane il metodo fenomenologico che, come si è già detto, guida da sempre il suo modo di filosofare in quanto messa in luce degli orizzonti di senso dell’esperienza.
Nondimeno, Levinas va anche oltre Husserl perché la fenomenologia ricade nella stessa tradizione di pensiero, la filosofia della guerra, dalla quale egli vuole prendere le distanze.
Si può adesso dire più precisamente che per Levinas il pensiero della guerra è un annullamento dell’alterità dell’altro. Da questo punto di vista, Husserl mantiene la differenza tra oggetto rappresentato e atto rappresentativo, ma il prezzo della chiarezza dell’oggetto è il suo essere un’opera del soggetto, una completa adeguazione all’orizzonte intenzionale che annulla l’esteriorità dell’altro[14].
Questa prospettiva di adeguazione dell’Altro al Medesimo non riguarda soltanto gli esiti della fenomenologia di Husserl, ma tutta una linea di pensiero che si è concretizzata nei momenti fondamentali della storia della filosofia occidentale che, mentre si presenta come orizzonte della libertà del soggetto, si rivela essere un pensiero della tirannia.
Infatti, il pensiero occidentale per Levinas è caratterizzato nelle sue molteplici manifestazioni da un’unica prospettiva fondamentale: la metafisica come ontologia. Il pensatore osserva come la metafisica, intesa come movimento che va al di là del mondo immediato e verso la conoscenza della verità dell’essere, sia stata l’aspirazione fondamentale della filosofia. Da questo punto di vista è comprensibile secondo il filosofo che la relazione teorica sia stata il modello privilegiato del pensiero occidentale per avere accesso all’essenza del reale perché con teoria si tende ad indicare un atteggiamento di contemplazione, di pura conoscenza che non incide sulla realtà osservata e ne lascia emergere l’essere. Tuttavia, è proprio questa “purezza” della teoria che Levinas contesta apertamente: «teoria significa anche intelligenza – logos dell’essere – cioè un modo tale di affrontare l’essere conosciuto che la sua alterità rispetto all’essere conoscente svanisce»[15]. La conoscenza indica sempre una certa prevalenza del soggetto conoscente rispetto all’essere conosciuto che si realizza attraverso la frapposizione di un concetto fra l’Io e l’Altro che rende l’alterità intelligibile. Intelligibilità diventa, per Levinas, sempre sinonimo di riconduzione dell’Altro all’orizzonte del Medesimo in modo che l’alterità è del tutto annullata.
Dunque, Levinas ritiene che il pensiero occidentale, da Platone a Heidegger, abbia seguito questa strada di soppressione dell’alterità dell’Altro.
Naturalmente, il potere del soggetto professato dal pensiero tradizionale è solo apparente perché se l’Altro viene soppresso e inglobato nell’orizzonte del Medesimo anche l’Io finisce per mancare alla propria sostanza e a non essere più se stesso. Se la volontà del soggetto si esprime nell’adesione ad un concetto comune in realtà non è più una libertà personale. Chiede, infatti, Levinas: «ridurre la volontà come volontà al suo posto in una totalità, {ontologica o politica – non è un’altra maniera di misconoscerla e di sprezzare una specie di tirannia dell’universalità}?»[16].
A partire da queste considerazioni, il tentativo di Levinas di prendere le distanze dalla filosofia tradizionale consiste nel porsi una domanda radicale: L’ontologia è davvero fondamentale?[17] Si può trovare un significato per la metafisica che non si riduca ad un annientamento dell’Altro ed al primato egoistico della libertà del Medesimo?
Si tratta di assumere una nuova ottica[18], di spostare il baricentro della questione del senso dalla conoscenza dell’essere all’etica perché proprio nell’autentica relazione con l’Altro si compie la verità. Questo conduce a prendere in considerazione il secondo termine che, come prima anticipavo, insieme a “Totalità” costituisce il tema fondamentale delle riflessioni di Levinas in questo periodo: l’Infinito.
2.1.2. Infinito e nudità del Volto.
La relazione con l’Infinito permette di dare un vero senso alla metafisica poiché recupera il significato del meta, dell’essere “oltre”. Questo consiste nella trascendenza rispetto al mondo che l’esteriorità di Altri realizza e che, non a caso, è anche termine chiave del sottotitolo di Totalità e Infinito, ovvero Saggio sull’esteriorità.
Il punto di partenza delle riflessioni di Levinas è proprio l’esteriorità alla quale la metafisica aspira. Il suo senso è, infatti, che «“la vera vita è assente”. Ma noi siamo al mondo»[19]. Levinas parafrasa una frase di Rimbaud[20] per sottolineare come il movimento metafisico sia una tensione che ci porta altrove. Il filosofo intende dire precisamente che l’assente, l’altrove è chi rimane radicalmente esteriore perché trascende il mondo in modo che il movimento metafisico autentico è desiderio costante, mai appagato, perché tende verso qualcuno che è Assolutamente Altro [Autrui].
Qualificando la relazione metafisica come Desiderio inestinguibile, Levinas chiarisce che non si tratta di una nostalgia, del ritorno del soggetto a sé che si consuma nel bisogno, inteso come un vuoto da colmare appropriandosi di ciò manca. L’altro che viene desiderato nel movimento metafisico non manca al soggetto perché egli non lo ha mai posseduto: «il desiderio metafisico non aspira al ritorno perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo nati»[21]. Il desiderio metafisico è, dunque, autentica relazione con l’Infinito proprio perché desidera ciò che non può possedere, un’alterità assoluta che non è nel mondo, inteso come insieme di forme solide, oggetti d’intenzionalità della coscienza. Altri, infatti, non può mai ricevere un senso dalla soggettività intenzionale poiché il suo essere eccede sempre l’Idea che di lui si può avere. Nel pensare l’Infinito come ciò che evade i limiti del pensiero soggettivo Levinas fa riferimento a Cartesio e alla terza Meditazione nella quale è contenuta una prova dell’esistenza di Dio fondata sulla presenza nell’io di un’idea particolare: l’Infinito. Si tratta di un’idea sui generis perché, diversamente dalle altre, non proviene dal soggetto ma è frutto di una rivelazione, una immiizzazione (mise en moi, “messo in me”) di ciò che è esteriore[22]. Infatti, l’Idea dell’Infinito è l’unica idea che può restare sempre e solo un’idea perché l’essere cui si riferisce non gli corrisponde e rimane sempre inadeguato e trascendente. È proprio Cartesio che insegna che l’essere non può cedere alla totalità, perché l’Idea dell’Infinito prospetta «una intimità senza contatto, {intimità a infinita distanza}[23]». Si delinea così la possibilità di una relazione autentica in quanto rapporto con chi rimane altro ed esteriore.
Tuttavia, il tentativo di Levinas di deposizione del soggetto sovrano della conoscenza non si traduce in una “scomparsa totale” dell’io. Si tratta, piuttosto, di esplorare la possibilità di un io che non si riduca ad essere il soggetto eroico della tradizionale occidentale, pensato come potere e che, pur nelle molteplici forme che ha assunto, è sempre stato “allergico” all’alterità. Levinas cerca piuttosto una soggettività essenzialmente passiva, aperta all’Infinito, ospitale, che accoglie Altri[24] che gli rimane inadeguato ed esteriore.
Rispetto ad un soggetto così inteso, la rivelazione della verità si concretizza nel Volto [Visage]. Nel riferirsi alla manifestazione per eccellenza dell’alterità come “Volto”, Levinas non intende l’insieme delle parti che costituiscono un viso in quanto oggetto plastico, forma visibile che si offre allo sguardo. La rivelazione del visage è espressa nel kath’auto platonico, nel suo “parlare”, ovvero nel dirsi immediatamente e al di là di qualsiasi forma o pensiero. Il linguaggio del Volto, naturalmente, assume un senso più originario rispetto al pensiero filosofico tradizionale.
Non si tratta di un insieme di segni che rimandano ad un significato o una designazione di un oggetto primariamente dato al pensiero e, solo successivamente, enunciato. Il linguaggio così inteso ritornerebbe all’ontologia della guerra, all’inglobamento dell’Altro nell’orizzonte di pensiero del Medesimo. Si tratta di restituire alla parola il suo vero significato perché parlare implica sempre la presenza di un faccia a faccia, di un interlocutore ed è un movimento che si rivolge a qualcuno.
Il volto non dice qualcosa, non si offre come un oggetto al pensiero che lo coglie. Si dice, nella sua ineludibile e totale alterità. La sua verità, il suo senso è offerto dalla sua stessa espressione, franca presenza che non dipende dall’orizzonte del soggetto e che, proprio per questo modo diretto di presentarsi, compie un evento originale e straordinario che il filosofo indica con termini come “sfolgorio” o “epifania” e che si realizza come un’espressione[25].
Il Volto, nella sua espressione, è nudo. Levinas indica la nudità come caratteristica del volto proprio perché sempre disfa ogni adeguazione al Medesimo, ogni forma che lo renderebbe oggetto solido e tangibile offerto all’appropriazione. Si tratta di un nudo più autentico di quello della pelle in quanto radicale esposizione che non si sottopone al potere avvolgente dello sguardo come ciò che circoscrive e oggettiva. Semplicemente, «il volto si è rivolto a me – e questa, appunto, è la sua nudità. È per se stesso e non in riferimento ad un sistema»[26]. Di fronte al volto che si esprime ci si ritrova al cospetto di una presenza significante di per se stessa, nuda di una nudità più nuda di tutte le altre e, tuttavia, dignitosa[27]. Ritornerò più avanti sulla possibilità che esista anche, rispetto alla nudità dignitosa del Volto e come suo “rovescio”, una esibizione non dignitosa.
Adesso è necessario sottolineare meglio una tensione interna al Volto nudo che Levinas riconosce. Da una parte, il Visage si colloca in una posizione asimmetrica rispetto al Medesimo, è Trascendente, Libero, Maestoso, perché è l’Egli che proviene da un “al di là del mondo” dell’intenzione soggettiva e comanda al soggetto l’imperativo etico per eccellenza: “non uccidere”.
D’altra parte, la nuda esposizione del volto è anche debolezza tale che l’Egli Maestoso è anche misero e supplicante, ha il viso dello straniero, del povero, della vedova e dell’orfano[28] in quanto è colui che si espone alla minaccia dell’omicidio. Concretamente, scrive Levinas, io posso annientare certamente l’Altro, «si offre alla punta della spada o al proiettile della pistola […], scompare non appena la punta della spada o il proiettile abbiano toccato i ventricoli o le orecchiette del suo cuore. Nella struttura del mondo è quasi niente»[29]. Tuttavia, nel supremo atto di annientamento dell’omicidio si cela una verità più originaria: posso uccidere Altri, ma non posso appropriarmene. Anzi Altri è l’unico essere che si possa desiderare di uccidere perché, diversamente dagli oggetti, non si sottopone mai al possesso. L’Altro rimane un Altro per cui il tentativo estremo di soppressione, l’omicidio, rivela il patetico dell’impossibilità di compiersi perché chi può essere fisicamente ucciso resiste infinitamente e, nella propria alterità, rimane inaccessibile.
Levinas, in un’intervista del 1986, potrà specificare meglio il senso del “non uccidere” che l’espressione del Volto reca con sé. La solennità del comandamento sinaitico non ha, infatti, solo un’accezione negativa, il senso di un divieto che può tradursi concretamente nell’indifferenza di un semplice “lasciar essere l’Altro” ma contiene tutta la profondità positiva di una convocazione alla responsabilità personale :
«non uccidere» che è tutto un programma, che vuol dire «tu mi farai vivere». Ci sono mille modi di uccidere altri, non solo con una pistola; si uccide altri restandogli indifferenti, non occupandosene, abbandonandolo. Di conseguenza, «non uccidere» è la cosa principale, è l’ordine principale nel quale l’altro uomo è riconosciuto come ciò che si impone a me[30].
Concretamente, la relazione etica realizza un’uscita dall’orizzonte di egoismo e solitudine dell’Io e la possibilità di non essere soltanto egoisticamente per sé, ma anche responsabile per Altri.
Non si tratta di una relazione che consiste nel conoscere Altri ma, dice Levinas, nel fatto che conosciamo che ci conosce, un evento straordinario nel quale siamo guardati da uno sguardo, ci rivolgiamo a qualcuno che non si lascia imprigionare dalle categorie del pensiero ma ci mette in questione portandoci un insegnamento, una verità che coincide con la sua espressione[31]. Se l’espressione del volto è l’insegnamento fondamentale e la rivelazione della verità, Altri è il nostro maestro al quale possiamo parlare e porre domande solo perché si è già presentato nella franca nudità del suo volto.
Levinas si chiede se questo parlare del Visage in termini di maestria, altezza, insegnamento non sia in qualche modo divinizzare Altri. In effetti, il Dio di Levinas e della tradizione ebraica si rivela proprio mediante la parola pur non offrendosi mai allo sguardo e, se Altri si espone come espressione nuda del suo volto nella parola che dice “Non uccidere”, Altri è Dio.
Paragonando l’espressione del Volto al divino si tratta, secondo il filosofo, non tanto di divinizzare il Volto, ma del fatto che la religione autentica consiste proprio nell’essere in relazione con chi infinitamente si sottrae. La relazione mediante la parola è precisamente il modo nel quale il Dio monoteista si è rivelato al popolo ebraico senza diventare mai oggetto di un pensiero[32]. Per questo il giudaismo è una religione per adulti – per parafrasare il titolo di un famoso articolo levinassiano – e cioè perché fa propria l’idea che l’etica sia un’ottica, che il rapporto con il trascendente si realizzi nella parola e che il viso dell’Altro sia manifestazione della trascendenza che si rende prossima pur rimanendo ad un’infinita distanza[33]. In questo senso, il modo autentico per incontrare Dio è proprio l’esperienza della nudità del volto dell’altro essere umano che ci guarda convocandoci alla responsabilità.
2.2. Dal soggetto ateo all’accoglienza.
2.2.1 Ateismo e godimento.
Il Volto parla e, come spesso Levinas sottolinea, parlare implica sempre un rivolgersi a qualcuno. Tuttavia, per rivolgersi ad Altri il soggetto deve poter essere un interlocutore, un punto di ingresso libero e separato nella propria esistenza rispetto all’Essere con il quale entra in rapporto. Se, infatti, l’altro e l’io esistessero in un orizzonte comune si ricadrebbe nella totalità.
Levinas qualifica l’esistenza del soggetto come “ateismo” proprio per indicare la radicalità della sua separazione rispetto alla totalità, «lo sradicamento stesso, una non partecipazione e, di conseguenza, la possibilità ambivalente dell’errore e della verità»[34]. Levinas può utilizzare l’immagine di un soggetto ateo proprio ad indicare l’autenticità della separazione ed il fatto che l’Io che entra in rapporto con il Trascendente non viene compromesso nella propria integrità di soggetto.
Infatti, l’io non scompare e non si identifica con il trascendente come avviene nella mistica e nelle religioni tradizionali. L’ateismo, anzi, secondo Levinas precede l’affermazione o la negazione di Dio, è la condizione di un io che esiste per sé mentre le religioni pensano il soggetto come «visto e comandato fin nei suoi intimi pensieri»[35]. Invece, la gloria del divino è proprio aver dato vita ad una creatura capace di libertà. Il filosofo ritiene infatti che, se l’Infinito deve rivelarsi e la rivelazione è parola, allora il soggetto deve poterlo accogliere da autentico interlocutore senza eclissarsi nella relazione.
Levinas identifica la separazione con l’identità, definita anche nei termini di psichismo e vita interiore. Il soggetto saldo nell’identità è paragonabile a Gige, personaggio di un famoso mito della Repubblica platonica che aveva la capacità di rendersi invisibile grazie ad un anello. Come Gige, l’io vede senza essere visto, è un soggetto solo che vive senza essere riconosciuto ed in un pieno sradicamento, perché non partecipa a nulla ma esiste per conto proprio[36]. L’identità viene descritta da Levinas come “evento” e “processo” perché la coscienza dell’io singolo non è da riferirsi ad una sostanza immobile. Secondo una prospettiva già inaugurata negli scritti degli anni precedenti, il filosofo non sostiene una riduzione della soggettività ad un’entità statica ma ne parla in termini di posizione e attività, specificando apertamente che «l’ipseità non si ottiene con il possesso di un predicato unico che si nega ad ogni relazione»[37].
Come puntualizza Francesca Nodari, infatti, l’ “Io sono” della vita interiore per Levinas è costituito, essenzialmente, da alcune situazioni nelle quali il soggetto vive e attraverso le quali si ritrova[38].
La più originaria di queste situazioni è il godimento. Scrive Levinas: «noi viviamo di “grana”, d’aria, di luce, di spettacoli, di lavoro, di idee, di sonno ecc… Non si tratta di oggetti di rappresentazione. Ne viviamo»[39]. Il vivere di… del godimento è un modo innocente di muoversi nel mondo, indipendente nella misura in cui gli elementi dei quali godiamo non sono strumenti utilizzati per un fine, ma sono i contenuti della vita stessa. Il godimento, infatti, non ha altro fine che se stesso.
Tuttavia, ciò che riempie la vita non si aggiunge semplicemente ad essa come se ci fosse un’esistenza come categoria vuota preesistente da riempire. È vivendo di…, godendo che esistiamo e vivere è gioia, amore della vita.
Si tratta di una prima forma di identificazione, un isolamento felice che però, specifica Levinas, non è ancora il raccoglimento, la solitudine in senso proprio perché, come dirò fra poco, per il filosofo la solitudine è intimità che già presuppone una prima rivelazione di Altri[40].
Dunque, il godimento è l’inizio di un’esistenza indipendente, ma in un’indipendenza di tipo particolare perché contraddistinta da bisogni nella misura in cui il soggetto dipende dalle cose di cui vive. Il bisogno, tuttavia, non è per Levinas una semplice mancanza come nella filosofia platonica e questo essenzialmente per due ragioni. La prima è che il bisogno trova sempre soddisfazione e diventa felicità in quanto l’altro che alimenta la vita viene assimilato, diventa la forza del soggetto. L’egoismo del godimento è un’appropriazione dell’altro e Levinas parla di alimentazione proprio perché noi non riportiamo a noi semplicemente col pensiero gli oggetti dei quali abbiamo bisogno, ma questi nutrono l’esistenza, viviamo di essi e sono la felicità della nostra vita. In secondo luogo, il bisogno non è mancanza perché, mettendoci a una prima distanza da ciò di cui abbiamo bisogno, ci rende indipendenti anche se non ancora abbastanza, perché nel puro godimento il soggetto è ancora immerso nel mondo del quale gode.
Appare chiaro dalle precedenti considerazioni che l’Io al quale Levinas fa riferimento si distanzia già notevolmente dal soggetto tradizionale, inquadrato prevalentemente in termini di pensiero e rappresentazione. Non è l’io libero ed astratto dell’Idealismo, soggetto questo che è causa di se stesso e che non ha relazione con nulla di esterno perché l’Io del godimento è nutrito da un ambiente in cui si muove[41]. Si tratta di un soggetto sensibile, io che gode ed è felice sulla terra e in questo processo il corpo ha un ruolo fondamentale. Levinas infatti, come si è già detto nel capitolo precedente, considera il corpo come un evento, la posizione e lo slancio del soggetto.
Tuttavia, l’io del godimento non incontra degli oggetti veri e propri, delle cose intese come mezzi adatti all’esistenza, come gli utilizzabili per Heidegger, ma un contesto che ha una propria consistenza, un fondo avvolgente che Levinas definisce elementale e che ricalca alcuni tratti che il pensatore aveva attribuito nelle opere di fine anni Quaranta all’ il y a, il brusio anonimo e senza volto, il c’è. Il mondo sensibile del godimento è la pura qualità di elementi naturali come la terra, l’acqua, il mare, il vento. Levinas ne parla come qualità aventi un formato mitico, divinità senza volto alle quali non si parla, un’impersonalità che non viene da nessun luogo[42].
È necessario, a questo punto, porsi una domanda fondamentale: com’è possibile che ad un io gaudente immerso nell’elementale l’esteriorità possa rivelarsi? L’io del godimento freme nel proprio egoismo, è chiuso nel compiacimento quindi si deve risalire al punto in cui si realizza una ripresa del rapporto con l’esteriore. Tuttavia, l’apertura del soggetto ad Altri non può prodursi come un’opposizione violenta che ne interromperebbe l’individualità. È necessario, dunque, secondo Levinas che nella stessa interiorità del soggetto del godimento si realizzi un evento che conduca oltre la felice chiusura in sé e realizzi la separazione. Dice Levinas, «l’interiorità deve, ad un tempo, essere chiusa ed aperta»[43].
Questa apertura è rintracciata a partire dall’insicurezza dell’elementale del quale il soggetto gode. Infatti la sua indeterminazione, questo essere un puro elemento costituisce la sua fragilità. La qualità non ha un avvenire ed insinua una minaccia, la preoccupazione del domani. Il soggetto, di fronte all’insicurezza dell’avvenire, arretra, prende una distanza dall’elementale e si ritira. Questo ritirarsi assume il significato concreto dell’essere a casa propria, presso di sé, ovvero proprio l’interiorità che rende possibile la separazione dell’essere umano.
A partire dalla casa, sono possibili il possesso e il lavoro che sono, naturalmente, dinamiche che realizzano un’appropriazione, una conquista del mondo che viene modellato in forme solide ed estirpato rispetto al fondo elementale. Proprio per questo la mano che possiede e lavora è qualificata da Levinas come organo di presa per eccellenza che può appropriarsi delle cose e modellare la materia[44].
È alla luce di queste modalità della soggettività, il godimento ed il suo aggiornamento mediante il possesso e il lavoro che, adesso, si può capire più precisamente quando Levinas sostiene che solo se l’esistenza è economica, se la separazione si realizza nel mondo, è autenticamente possibile una fenomenologia della vergogna: «la vergogna non si concepisce che se sono responsabile della mia indegnità. Ho vergogna di essere […] perché ho l’aria di affermare il diritto ai miei bisogni che tuttavia sono la causa della vergogna»[45]. La relazione etica, infatti, realizza una messa in questione del mondo posseduto, un capovolgimento per cui l’Io scopre l’esteriorità autentica che non può ridurre a sé e possedere come gli oggetti che ha e lavora. Egli scopre come ingiustificata la sua libertà e di essere non solo il soggetto che vive del mondo, che lo possiede e lo lavora ma anche colui che è chiamato alla responsabilità nel faccia a faccia con il Volto[46].
Non mi è possibile seguire in questa sede tutte le riflessioni levinassiane sul lavoro ed il possesso come approfondimenti del godimento, ma è stato necessario richiamarli brevemente per chiarire che il turbamento dell’elementale non annulla la felicità dell’io, ma come egli trovi un modo per aggiornarla. Tuttavia, questo è possibile, come dicevo, prendendo distanza dall’elementale e compiendo la separazione in un’extraterritorialità rispetto agli elementi[47]. Questo significa, concretamente, abitare una Casa.
2.2.2. Il discreto femminile nella Dimora: l’origine dell’accoglienza.
Il soggetto che si ritira nella dimora non si rifugia semplicemente in un edificio. Per Levinas la casa non è uno strumento fra gli altri, ma ha un ruolo essenziale. Rappresenta una base, una dimensione di intimità nella quale l’io è presso di sé. Si potrebbe dire che la casa garantisca possibilità di andare verso l’esterno a partire da un interno. Solo a partire da essa è possibile che la terra che sostiene il soggetto sia qualcosa di diverso dall’ambiente elementale che si prolunga senza avvenire. Distanziandosi dall’elemento e ritirandosi nella dimora il soggetto può, come si diceva, lavorare e possedere garantendosi la sicurezza dell’avvenire. Dunque, è a partire dalla dimora che l’ambiente si muta in mondo perché «si ha bisogno di un tempo e di un luogo per prendere tempo ed organizzarsi nei confronti di ciò che ci inquieta»[48]. La casa, quindi, non è un oggetto utilizzabile come gli altri ma svolge un ruolo più essenziale in quanto inizio e condizione di ogni attività umana.
La casa, però, è anche qualcosa di più, il luogo di una prima rivelazione dell’alterità: il femminile.
Vorrei sottolineare preliminarmente come il ruolo “esplicito” del femminile nella dimora sia quasi esclusivamente limitato a poche pagine nella seconda sezione di Totalità e Infinito e al saggio del 1960 dedicato al rapporto fra giudaismo e femminile. Nelle conferenze coeve non si fa pressoché riferimento al tema in questi termini e pochi accenni si ritrovano anche in alcune note sparse relative al periodo di riflessione che ha condotto Levinas alla produzione di Totalità e Infinito riunite insieme ai Quaderni di prigionia nel primo tomo degli scritti inediti. Tuttavia, sebbene il femminile nella dimora riceva in effetti poca trattazione, è possibile asserire che abbia un ruolo essenziale nella riflessione levinassiana che permette di mettere in luce elementi importanti non solo relativamente all’evoluzione del concetto in se stesso, ma anche rispetto alla nuova visione della soggettività che Levinas sta cercando di rintracciare. Cercherò di chiarire entrambi questi aspetti, concentrandomi principalmente su Totalità e Infinito e rimandando all’ultimo paragrafo, specificamente dedicato al rapporto tra giudaismo e femminile, il chiarimento degli elementi dell’ebraismo che si ritrovano nel discorso levinassiano.
Focalizzando l’attenzione sulla dimora, si delinea una fisionomia più complessa del femminile rispetto a quella proposta da Levinas nelle opere di fine anni Cinquanta. Credo che una complicazione sia individuabile sin da subito e si tratta del contesto nuovo nel quale il femminile fa la propria apparizione, diverso rispetto a quello prevalentemente erotico delle opere precedenti. Certamente la relazione erotica non solo non scompare dalle riflessioni di Levinas, ma riceve una trattazione molto ampia, come si vedrà nel prossimo paragrafo. Tuttavia, il femminile si incontra in Totalità e Infinito prima di tutto in un’altra veste, non è più solo l’alterità di Altri quale emerge nel rapporto erotico. Anzi, come si vedrà fra poco, sembrerebbe che il “femminile” qui evocato non si riferisca alla differenza sessuale, ma ad un evento più essenziale.
Il filosofo introduce il femminile nella dimora legandolo all’intimità, la quale viene descritta nei termini di un delizioso cedimento dell’ordine ontologico[49] che permette il raccoglimento dell’essere separato grazie al fenomeno originario della dolcezza. Per comprendere questa prospettiva bisogna aggiungere a quanto si diceva prima della dimora, ovvero che il ritiro dagli elementi ed il raccoglimento del soggetto consistono concretamente nell’abitazione che realizza possesso e lavoro, che questo arretramento non conduce l’io che vive a casa propria ad una solitudine come «in uno di questi interstizi dell’essere in cui si situano gli dei epicurei»[50]. Si tratta di un’interiorità che si realizza grazie ad una prima rivelazione di Altri, per cui dolcezza e intimità sono «un fatto nell’ecumenicità dell’essere»[51].
Levinas si riferisce in questo passaggio al fatto che intimità e dolcezza non vanno intese come emozioni o percezioni relative del soggetto, ma assumono il significato “universale” di un evento della soggettività che si realizza grazie a un modo di rivelarsi di Altri e di incontrare l’io nella dimora. Questa portata più ampia dell’evento rispetto ad una semplice sensazione soggettiva sembra suggerita dal significato stesso della parola “ecumenicità”. “Ecumenico” è un termine che ha origini tardo latine e deriva dal greco oikouménē, che si riferiva alla “terra abitata”[52]. La grafia francese, œcuménie, ricalca più vistosamente l’etimologia del termine rispetto all’italiano. Non ritengo improbabile che Levinas possa aver scelto di usare il termine “ecumenicità” in riferimento alla dolcezza e all’intimità per rafforzare l’idea che la casa come “abitazione” non sia semplicemente un oggetto, ma compia un evento essenziale per la separazione del soggetto.
Infatti, il soggetto che si raccoglie nella dimora può prestare maggiore attenzione a se stesso rispetto a quanto avveniva nell’immersione nell’elementale che caratterizzava il godimento grazie ad una solitudine che si situa in un mondo abitato, che è già umano[53]. Come ricordavo in precedenza, infatti, certamente il godimento è una prima forma di individuazione dell’io ma non è ancora propriamente una solitudine perché questa riguarda la dimensione dell’intimità che presuppone una prima rivelazione dell’Alterità. Altri che si rivela nell’intimità della dimora è proprio il femminile del quale è necessario, a questo punto, mettere in luce le caratteristiche fondamentali.
Il femminile viene qualificato da Levinas, come fa notare Derrida[54], in termini prevalentemente negativi, intendendo con questo termine non un giudizio di valore, ma una fisionomia che emerge mediante un insieme di “privazioni”. Essenzialmente, le qualifiche positive del concetto sono solo due, ovvero la dolcezza e la grazia[55] di un irradiamento che provoca la separazione. Il resto della descrizione del femminile è caratterizzato, invece, attraverso il richiamo ad un insieme di “mancanze”.
Questi tratti negativi sono relativi all’essenza stessa del femminile che è la discrezione, ovvero una contemporaneità di presenza ed assenza, un ritiro che fa della donna l’accoglienza ospitale che costituisce il campo dell’intimità e del raccoglimento del soggetto nella casa: «la donna è la condizione del raccoglimento, dell’interiorità della Casa e dell’abitazione»[56]. Tornerò fra poco sulle complicazioni che derivano dall’uso esplicito del termine “donna” in questo contesto, non prima di aver però sottolineato quella che sicuramente rappresenta agli occhi dei lettori la mancanza più vistosa dell’alterità femminile.
L’abitazione secondo Levinas non è più l’immersione nell’elemento, ma non è ancora la trascendenza del linguaggio e il femminile non coincide con l’Egli maestoso che si presenta nella nuda espressione del Volto. L’alterità femminile che s’incontra nell’intimità è il tu della relazione descritto da Buber, il compagno di una familiarità intima. Questi passaggi sono complessi e contengono delle oscillazioni interne perché Levinas riconosce che il femminile si situa su un piano diverso da quello del linguaggio e che non ne rappresenta una forma ancora elementare o mutila. Tuttavia, come fa notare Derrida[57], viene anche sottolineato da Levinas che il femminile parla un linguaggio umano, non è relegato alla condizione animale, sebbene si tratti di «un linguaggio silenzioso, intesa senza parole, espressione nel silenzio»[58].
A questa ambiguità di un “linguaggio senza trascendenza” si aggiunge che la discrezione, tratto che si è visto essere la caratteristica fondamentale del femminile, viene descritta come se fosse una delle modalità della rivelazione di Altri distinta dal Volto. È un’operazione che suggerirebbe, ad una prima lettura, la possibilità che la donna sia un essere umano “senza volto”. Scrive Levinas:
perché l’intimità del raccoglimento possa prodursi nell’ecumenicità dell’essere è necessario che la presenza di Altri non si riveli soltanto nel volto che si fa strada attraverso la propria immagine plastica, ma che si riveli, contemporaneamente a questa presenza, nel suo ritiro e nella sua assenza. Questa contemporaneità non è una costruzione astratta della dialettica, ma proprio l’essenza della discrezione[59].
È necessario comprendere le ragioni di questa ambigua contemporaneità di presenza e assenza che Levinas riconosce al femminile. Ritengo che sia comprensibile alla luce dell’indicazione che il filosofo dà all’inizio di questo passaggio, ovvero che il raccoglimento deve potersi realizzare nell’ “ecumenicità” dell’essere. L’ecumenicità, come prima ricordavo, rimanda all’abitare e al raccoglimento del soggetto.
Dunque, se il soggetto deve potersi raccogliere, essere presso di sé, a casa propria, e se la separazione deve prodursi, è necessario che l’io abbia lo “spazio” per realizzare questa condizione. Ciò richiede un evento diverso dall’immersione nell’elementale, una presa di distanza che si può realizzare solo incontrando qualcosa che non rientra nella modalità del vivere di e che però non può coincidere con il “trauma” dell’incontro con il Volto. Il Volto, pur essendo non-violento per eccellenza perché non si oppone al Medesimo restando sul suo stesso piano – che significherebbe realizzare uno scontro fra due libertà – ,si rivela dall’Alto e mette in questione la libertà e la solitudine del soggetto.
Nel contesto della dimora, invece, la solitudine deve prodursi, il soggetto deve raccogliersi ed avere un’intimità per poter possedere e lavorare e solo così potrà poi essere messo in discussione dal Volto che si sottrae al possesso. Proprio a questo proposito, Tina Chanter individua nell’incontro con Altri femminile nella dimora un evento fondamentale nell’intera architettura di Totalità e Infinito:
The whole of Totalité et Infini can be read as an elaboration of this situation, where the I both exists as a separated being and is called into question by the Other in the relation of the face-to-face. Here we find an expression of that situation; the I is caught up in the life of enjoyment and yet it is in relation to the Other, the feminine Other […]. It is not the feminine but the I of enjoyment whom Levinas characterizes as the one who gives. It is the I of enjoyment who gives to the Other when called upon in the face-to-face relation. But until the I has learnt to identify itself as an I and as distinct from that which it enjoys, there can be no bread to give to the Other. The feminine being is the one who encourages the I to break from its life of pure enjoyment and conserve its goods. It is in this sense that the feminine is presupposed by the face-to-face. [60]
Il raccoglimento si produce concretamente come intimità con qualcuno, presuppone una simmetria di rapporti, una familiarità e una vicinanza tale che l’altro nella dimora non può presentarsi nella Maestosità e nella Trascendenza del Volto. Si può, dunque, comprendere meglio quando Levinas parla del femminile come di una rivelazione dell’Idea dell’Infinito che provoca la separazione con tutta la grazia femminile del suo irradiamento[61].
A partire da queste considerazioni emergono naturalmente non pochi problemi. Viene spontaneo chiedersi perché Levinas abbia scelto di indicare questo modo discreto di manifestarsi di Altri nella dimora come “donna” e che cosa intendesse con l’utilizzo di questo termine. Infatti, ad una prima lettura che si focalizzi unicamente sulle principali caratteristiche del femminile che emergono da queste poche pagine potrebbe sembrare giustificato il sospetto che Salmeri esprimeva relativamente a Il Tempo e l’Altro[62], ovvero che Levinas stia semplicemente mettendo in campo una visione stereotipata, dogmatica ed anche molto conservatrice della donna. In effetti, quale visione è più maschilista e conservatrice di quella che individua nella donna il “sesso debole” ovvero un essere discreto, dolce, relegato esclusivamente all’ambito domestico? Ancor di più perché il soggetto è connotato, almeno fino a questo momento, da una dimensione di potere che ricalca dei tratti “virili” secondo l’accezione che già Levinas aveva dato al termine negli anni precedenti (è un io che si pone come egoismo, godimento, possesso, lavoro ecc.). In più, se la “donna” parla un linguaggio silenzioso, se viene riconosciuta come essere umano ma il suo linguaggio non ha la Trascendenza dell’espressione del Volto, sorge il timore che ciò significhi, concretamente, che la donna non sia ammessa alla dimensione più piena dell’umanità: l’etica.
Sono impressioni forse comprensibili ad una prima lettura del testo ma non credo sostenibili fino in fondo. Prima di dire qualcosa sul genere sessuale della “Femme” che con il suo silenzioso andirivieni fa risuonare dei propri passi le segrete profondità dell’essere[63] è necessario focalizzazione l’attenzione su una caratteristica del femminile che avevo solo accennato all’inizio del paragrafo e che permetterà di chiarire meglio la posizione di questo concetto nel contesto nel quale viene evocato e, forse, di scongiurare i timori di essere di fronte ad un’ “etica per soli uomini”.
Il femminile, dice Levinas, è accoglienza ospitale per eccellenza e ciò rende la casa un luogo particolare. Questa, come dicevo, è condizione dell’attività umana perché consente al soggetto di possedere e lavorare il mondo. Levinas sottolinea però che la casa, condizione del possesso, non diventa a propria volta un oggetto di possesso allo stesso titolo degli altri. Piuttosto, viene posseduta perché è luogo ospitale per il suo proprietario, lo accoglie come in una terra d’asilo[64].
Derrida, che ritiene che Totalità e Infinito non sia altro che un “trattato sull’ospitalità” sottolinea un legame fra queste affermazioni e le posizioni di Rosenzweig, il quale definiva come tratto distintivo del popolo ebraico il fatto di non possedere la terra che abita. Questa è solo di Dio ed il popolo vi si ritrova ad abitare come straniero e ospite. A partire dal confronto fra Rosenzweig e Levinas, Derrida può sottolineare che in Totalità e Infinito il padrone di casa si trova in una situazione molto particolare. È padrone perché ospite in due sensi diversi: in quanto host che riceve ed invita nella sua casa, ma anche come guest invitato nella propria casa[65]. Infatti, la condizione stessa della dimora, come Levinas sottolinea più volte, è il suo primo abitante, colui che la abita prima che il soggetto si raccolga in essa e che è «accogliente per eccellenza», ovvero il femminile. È perché il soggetto è accolto a casa propria da qualcuno che si può raccogliere, che può essere presso di sé e che potrà poi accogliere a propria volta.
Questo conduce ad affermare che esiste un legame fra il femminile e l’epifania del Volto. Infatti, Levinas riconosce che il rivelarsi dell’alterità femminile come accogliente è la condizione imprescindibile per accogliere l’Infinito del Volto: «l’accoglienza del Volto […] si produce originariamente nella dolcezza del volto femminile, nella quale l’essere separato può raccogliersi e grazie alla quale esso abita, e nella sua dimora attua la separazione»[66] . Sembrerebbe, dunque, potersi delineare una prospettiva “etica” ulteriore rispetto a quella dell’accoglienza del Volto o, più precisamente, un’origine dell’etica costituita dall’accoglienza del femminile che pone le condizioni perché la relazione etica sia possibile. Da questo punto di vista, Orietta Ombrosi sottolinea che, sebbene tutto il senso della dimora e dell’intimità del soggetto abbia come direzione ultima l’accoglienza del Volto, non ci possa essere accoglienza senza raccoglimento e, naturalmente, senza l’alterità femminile che ne è conditio sine qua non[67]. Quindi è la silenziosa accoglienza di Altri-femminile a creare le condizioni perché ci sia un soggetto separato che potrà accogliere il Volto.
Alla luce di queste considerazioni si potrebbero anticipare i termini di una questione che affronterò più puntualmente nel prossimo capitolo. Come ho già detto, il tentativo di Levinas è, sin dall’inizio di Totalità e Infinito, quello di pensare la soggettività in modo diverso rispetto alla libertà autoreferenziale e al potere del soggetto tradizionale. Si tratta di un’inversione che porta il soggetto dall’essere io attivo a soggettività passiva e accogliente, chiamata alla responsabilità etica. Se si considera in parallelo la definizione levinassiana del femminile come “accogliente in sé e per eccellenza”, si può sostenere che sia possibile rintracciare già all’inizio degli anni Sessanta l’origine del tentativo che, nel periodo successivo, impegnerà tutti gli sforzi del filosofo: pensare un soggetto la cui fisionomia complessiva risulta “accogliente”, ovvero femminile. Mi soffermerò più a lungo su questi problemi nel prossimo capitolo.
Occorre adesso, dopo aver sottolineato il legame indissolubile fra femminile e accoglienza, cercare di rispondere alla questione che prima accennavo, ovvero la necessità di chiarire come mai Levinas indichi la prima rivelazione dell’Alterità nella dimora alternativamente come femminile o donna [Femme] e se con quest’ultimo termine intenda riferirsi esclusivamente alla donna empirica. In questo secondo caso, avendo distinto il linguaggio “senza insegnamento”, silenzioso del femminile da quello del Volto si giustificherebbe, come dicevo, un’esclusione della donna dalla dimensione etica.
I termini della questione sono complessi per due ragioni. La prima è che Levinas, in effetti, dichiara esplicitamente che l’Alterità che descrive il campo dell’intimità è la Femme, la Donna e rinforza nel lettore l’evocazione di un’immagine di donna distinguendo il Femminile nella dimora dalla disturbante immagine felina che ispira le poesie di Baudelaire[68]. In secondo luogo, è difficile contestare il fatto che le caratteristiche principali del femminile (dolcezza, discrezione, linguaggio silenzioso, ritiro) siano, in effetti, quelle che nello stereotipo tradizionale tendevano a designare la donna come relegata all’ambito domestico.
Vorrei preliminarmente soffermarmi su quest’ultimo punto, ritornando sul “ritiro”, sulla discrezione di questa manifestazione dell’alterità, tratto che potrebbe essere interpretato ad una prima impressione come indizio di un evidente maschilismo di Levinas. Mi sembra chiaro, come avevo in parte anticipato, che questa condizione sia presentata come necessaria affinché nella dimora ci possa essere un’intimità. L’intimità è, in sé, una realtà che richiede una posizione simmetrica di coloro che sono coinvolti in essa. Come fa notare Salmeri, «il rapporto con l’Infinito che si annuncia nell’altro consiste proprio nel fatto che questo si «contrae» per lasciare all’io la possibilità di esistere senza essere inglobato. Questa esistenza separata è a sua volta quella che permette che vi sia qualcosa come un’interiorità»[69]. Da ciò non è possibile concludere che l’alterità “contratta” che nella dimora si incontra come femminile non possa rivelarsi in altri modi e che non abbia, quindi, alcun accesso all’etica. Certo, la rivelazione di Altri nel modo della “femminilità discreta” si incontra solo in questa dimensione preliminare, non è il modo dell’interlocutore dell’etica ma ciò non significa che la persona che concretamente si rivela come “femminile” nella dimora non abbia un Volto e non possa essere l’Egli maestoso che si esprime. Semplicemente, il Volto non si rivela nel contesto della dimorare. Nel momento in cui Altri si rivela come Volto siamo già nell’etica e fuori dalla dimensione simmetrica della familiarità intima.
Questa prospettiva condurrebbe fuori dai sospetti di maschilismo, naturalmente a patto che il “femminile” non coincida del tutto con la donna empirica e che, dunque, la dimora non risulti essere il solo contesto nel quale la donna in quanto tale si manifesta. Altrimenti si dovrebbe concludere che la donna è destinata a rimanere relegata alla dimensione dell’accoglienza ospitale della casa senza poter mai accedere all’etica. Non credo, comunque, si possa giungere a conclusioni di questo tipo.
In effetti, Levinas stesso anticipa questa critica chiarendo che non sta affatto suggerendo che il femminile coincida con la donna empirica perché significherebbe giungere all’affermazione estrema secondo la quale ogni casa come luogo di accoglienza ha bisogno, concretamente, della presenza di una donna. Invece, anche in assenza di un essere umano di “sesso femminile”, la dimora rimane accogliente, aperta ad una dimensione di femminilità[70]. Levinas sembra prendere le distanze da un’interpretazione del femminile come attributo esclusivo della donna.
Il femminile nella dimora non è l’essere di sesso femminile che accoglie il soggetto di sesso maschile, la brava moglie che accoglie l’uomo dello stereotipo tradizionale, sebbene si possa avere questa impressione. Infatti, “Femme” in francese può anche essere tradotto come “moglie” e il fatto che Levinas ne parli come del tu di familiarità di Buber potrebbe generare il sospetto che si stia parlando di un rapporto coniugale per via del fatto che lo stesso riferimento all’Io-Tu di Buber si ritrova anche nella sezione dedicata al rapporto erotico.
Tuttavia, questo stesso richiamo potrebbe essere usato per scoraggiare tale interpretazione del femminile nella Dimora. Ciò dipende dal fatto che quando Buber parla di rapporto Io-Tu lo intende in senso molto più ampio del rapporto amoroso. Non solo ritiene che l’amore non sia l’unica relazione possibile fra esseri umani, ma riconosce che si può dare del tu anche alla “natura” ed alle “essenze spirituali” oltreché alle persone[71]. Non è, quindi, del tutto scontato che un rapporto “Io-Tu” sia un rapporto fra amanti. Dunque, si può sostenere che l’intimità della quale Levinas parla nella dimora non si identifichi con quella del rapporto d’amore perché il femminile qui non coincide con l’Amata la cui ambiguità emerge così chiaramente nella fenomenologia dell’Eros. Di più, Levinas qualifica apertamente questo legame in termini di amicizia: «dolcezza che deriva da un’amicizia nei riguardi di questo io. L’intimità che è già presupposta dalla familiarità è un’intimità con qualcuno»[72].
Il “femminile” nella dimora, dunque, è il tu dell’intimità familiare che può non coincidere né con la moglie né, più in generale, con un essere umano di sesso femminile. È, in senso più ampio, il compagno della sfera intima, qualcuno che abita la dimora e che la rende un luogo accogliente per eccellenza.
È preferibile, dunque, un’interpretazione metaforica che rimandi a quanto “di femminile” ci sia nell’essere umano (uomo o donna che sia), che con la sua dolcezza e discrezione nella dimora rende possibile al soggetto (uomo o donna che sia) avere una propria intimità, un raccoglimento come condizione imprescindibile per essere un interlocutore nella relazione etica.
Propendere per l’interpretazione metaforica, naturalmente, non scioglie completamente tutti i nodi. Di fronte alla scelta di designare il femminile come femme, come nota Stella Sandford, non ci si può accontentare semplicemente di riconoscere che si tratta di una metafora senza chiedersi perché proprio questa immagine sia stata utilizzata:
It seems to me that it would be reasonable to ask of any metaphor how it derives its force and what the implications are of its presence in a philosophical text. To fail to ask this of a metaphor as complex and loaded as that of the feminine is more than careless. An insistence on the metaphorical status of the feminine is also forced to overlook the fact that Levinas speaks just as often of la Femme. The alterity which opens the dimension of interiority only does so, he says, ‘on the ground of the full human personality which, in the woman, can be reserved’. This is a statement that it is very difficult to read metaphorically[73].
Non si può negare che le immagini metaforiche abbiano sempre un “fondo di verità”, un’ispirazione reale. Tuttavia, seguendo questo stesso ragionamento si potrebbe sottolineare a favore di Levinas che quando parla del Volto usa spesso le immagini bibliche del povero e dello straniero, ma anche della vedova, una figura di donna. Se avesse voluto sostenere una rigida prospettiva androcentrica e concludere che le donne non hanno accesso alla dimensione etica, probabilmente si sarebbe curato di non fare questo riferimento. Inoltre, ritengo che ci possano essere delle spiegazioni ragionevoli rispetto all’uso del termine “donna” che non implichino l’attribuzione a Levinas di una visione maschilista e stereotipata.
È probabile che Levinas abbia indicato il femminile in alcuni passaggi come “donna” per dare maggiore concretezza all’immagine accogliente dell’essere umano che rappresenta la condizione della dimora. Non bisogna dimenticare che il pensatore riconosce apertamente che il metodo di indagine, la presentazione e lo sviluppo delle nozioni di Totalità e Infinito sono fenomenologiche[74]. Trattandosi di un metodo che parte dalle situazioni concrete, se viene esercitato da un uomo non può del tutto prescindere da un punto di vista di genere. Riflettendo sull’accoglienza nella dimora è possibile che fosse più facile per Levinas immaginare una donna come fenomeno originario della dolcezza e della discrezione, tanto più che questa immagine gli proviene dalla propria formazione ebraica. Come si vedrà più nel dettaglio parlando del rapporto tra femminile ed ebraismo, nel Talmud si dice che “la Donna è la Casa”.
Tuttavia, va sottolineato l’uso più frequente del termine “Féminin”, il quale si presta ad un uso più ampio relativo a caratteristiche generali dell’essere umano piuttosto che a rigide divisioni di genere, nonché la già citata precisazione di Levinas stesso riguardo l’impossibilità di far coincidere donna empirica e femminile. Si tratta di elementi che rafforzano, pur non sciogliendo tutte le difficoltà, le possibilità di un uso metaforico del termine. Ciò significherebbe che, concretamente, anche un uomo può essere “il femminile accogliente e discreto” che rende la dimora un luogo ospitale.
Alla luce di quanto detto sino a questo momento, ritengo che questa immagine del femminile sia diversa da quella che il filosofo andrà ad esaminare nel contesto erotico e che ricopra un ruolo di primo piano in quanto tu accogliente che rende concretamente possibile l’apertura alla dimensione etica.
Il femminile così inteso, inoltre, rende possibile superare l’alternativa fondamentale che molti lettori di Levinas, tra i quali Derrida, ritengono si presenti agli interpreti leggendo la parte di Totalità e Infinito dedicata alla dimora: propendere per giudicarla come una teoria androcentrica o, invece, una prospettiva femminista[75]. Certo, Derrida suggerisce la possibilità di non scegliere effettivamente fra queste due letture e condurre l’indagine cercando di tenere presente che, da questo momento in poi, l’accoglienza sarà femminile e non più neutra[76].
Si tratta di una prospettiva che può essere accolta nella misura in cui si rilegga radicalmente l’espressione “femminile”. Non è più necessario rimandare alla dimensione biologica del termine perché si tratta di una metafora per indicare una manifestazione dell’Alterità che non si sovrappone ad un genere sessuale. Tale immagine, inoltre, viene elaborata in un contesto nel quale l’umanità dell’essere umano va ormai oltre la differenza di genere. È chiaro, infatti, che Levinas si è pienamente diretto verso la riscoperta di una differenza fra individui più originaria di quella offerta dalla sessualità secondo una prospettiva annunciata già nel 1948: «lo stesso rapporto erotico è possibile solo se l’altro è umano […] necessità di un volto umano dietro la differenza del sesso»[77]. Se da una parte queste riflessioni tranquillizzano circa il ruolo della Femme nella dimora, dall’altra non esauriscono la problematicità del concetto perché questo si manifesta anche nei nodi ancora più intricati del rapporto erotico nel quale presenta caratteristiche diverse da quelle sin qui delineate.
2. 3. Al di là della morte.
Il femminile si incontra, in Totalità e Infinito e più in generale nella produzione levinassiana di questo periodo, in un secondo contesto, più familiare ai lettori del filosofo rispetto all’accoglienza ospitale della dimora. Si tratta, come anticipavo alla fine dello scorso paragrafo, della relazione erotica. Questa è uno degli elementi centrali della quarta sezione di Totalità e Infinito, intitolata significativamente “Al di là del Volto”, ma ritorna anche in alcune annotazioni del periodo ed in una conferenza intitolata “Al di là del possibile”.
Potrebbe sembrare paradossale l’idea di un “al di là” del volto, alla luce della centralità che l’etica ha assunto nella filosofia di Levinas e, tuttavia, questo tentativo assume un significato fondamentale per restituire una speranza infinita alla soggettività responsabile di poter avere un avvenire positivo.
Si può comprendere adeguatamente questa esigenza se si considera che le riflessioni levinassiane sugli eventi della soggettività (godimento, interiorità, lavoro, possesso) delineano la fisionomia di un io essenzialmente temporale. Sin dall’inizio di Totalità e Infinito il filosofo chiarisce che l’esistenza separata degli individui rende possibile a ciascuno avere un proprio tempo che non coincide con il tempo universale della storia. Il tempo è dimensione fondamentale dell’interiorità del soggetto, ma è un tempo finito. Secondo Levinas, infatti, i principali eventi della soggettività si rivelano come aggiornamenti della scadenza inevitabile dell’esistenza: quella della morte.
Il soggetto è libero perché ha ancora del tempo e questa libertà si realizza concretamente grazie al lavoro ed al possesso del mondo. L’essere che lavora è allo stesso tempo anche l’essere che ha una volontà, che può fronteggiare la minaccia che è insieme inevitabile e non ancora sopraggiunta. Dunque, l’essere separato è un essere temporale nella misura in cui il tempo significa esistere a distanza dalla morte, aggiornare la propria esistenza: «tutta l’esistenza dell’essere mortale – offerto alla violenza – non è l’essere per la morte, ma il “non ancora” che è un modo per essere contro la morte, un ritiro nei confronti della morte nel seno stesso del suo inesorabile avvicinamento»[78]. La volontà soggettiva così delineata, dunque, è essenzialmente già in scacco nella misura in quanto consiste in un distanziarsi temporaneo dall’inevitabile.
Tuttavia, Levinas non ritiene che la volontà sia minacciata dalla morte come se si trovasse di fronte al nulla. Il filosofo, in una prospettiva analoga a quella delle opere degli anni precedenti, rilegge il concetto tradizionale della morte ritenendo che non sia qualificabile come nulla perché l’idea del passaggio al “niente”, della scomparsa può essere sperimentata solo in quanto morte dell’Altro che viene a mancare dal mondo. È stata questa, secondo Levinas, una delle intuizioni di Rosenzweig, l’idea che la morte è il fatto degli Altri e che a morire è essenzialmente l’altro[79]. Il soggetto, invece, non sperimenta concretamente la propria morte quanto piuttosto la “minaccia dell’avvenire”, un avvenire che non si colloca in nessun orizzonte. Da questo punto di vista, Levinas sottolinea una similitudine fra la relazione sociale e la morte nella misura in cui in entrambi i casi si è in relazione con un al di là che non si lascia ridurre al possesso. Il soggetto che teme la morte non ha paura del niente ma di Qualcun Altro, di una volontà estranea. Levinas continua, dunque, la presa di distanza dal pensiero di Heidegger che aveva caratterizzato già le opere della fine degli anni Cinquanta.
La morte non rivela l’angoscia del nulla è ma un rapporto con Altri Assoluto, l’alienazione della volontà dell’io, una rivelazione della pura passività del soggetto. Egli non può, la morte non si colloca nella dimensione dei suoi progetti, è un mistero, ciò che è inevitabile e ciò che, al contempo, è ancora a distanza e lascia all’io spazio per un aggiornamento che consiste nel fatto che, per il momento, egli è ancora.
Tuttavia, il fatto che la volontà contenga in sé il proprio tradimento in quanto mortale, non getta la vita nel mondo nella più completa privazione di senso di un’esistenza votata esclusivamente all’inevitabile. Può esserci un significato più profondo per il soggetto di quello dell’essere-per-la morte che risiede nella pazienza, la condizione di passività alla quale è chiamato nel contesto del faccia-a-faccia con il Volto. Ciò consentire il realizzarsi di una situazione per cui il soggetto, chiamato personalmente alla responsabilità per l’altro, arriva a temere l’omicidio più della propria morte. È l’io singolo, separato ad essere sottoposto al giudizio, nessuno può rispondere all’appello etico al posto suo. Dunque, può esserci un senso per una volontà temporale nella misura in cui «la soggettività alienata del bisogno e della volontà che pretende di possedersi da sempre ma di cui la morte si prende gioco, si trova ad essere trasfigurata dall’elezione che la investe richiamandola alle risorse della sua interiorità»[80]. L’io può essere per Altri, realizzarsi come bontà e, grazie a questa relazione, fare in modo che Altri sia più importante di sé. Tuttavia, l’essere per Altri introduce anche la possibilità che, concretamente, la soggettività non venga fatta scomparire dalla morte. Ciò significa andare al di là del possibile, della dimensione della propria libertà già tradita dalla mortalità e rispetto alla quale l’io dovrebbe, infine, scomparire[81]. Non si tratta di andare verso l’impossibile, che significa ancora avere come punto di riferimento il potere, in un estremo desiderio di convertire l’impossibile in possibile.
La prospettiva che si dischiude è quella di un tempo infinito, grazie ad una relazione inalienabile rispetto alla morte per cui il soggetto non cessa di essere se stesso e, tuttavia, allo stesso tempo non ritorna su di sé perché ciò vorrebbe dire consegnarsi all’invecchiamento e alla morte. Levinas ritiene che si possano soddisfare queste esigenze grazie ai due movimenti dell’eros e della fecondità. Il femminile ritorna, intrecciandosi a questi movimenti e mostrandosi in tutta la propria complessità.
2.3.1 L’equivocità del femminile nell’erotismo.
Il femminile nell’erotico è circondato da un’aura di ambiguità che caratterizza il tentativo levinassiano di pensare il rapporto amoroso sin dalle prime pagine di Totalità e Infinito. Questo tipo di relazione viene introdotta nel contesto della distinzione tra il Desiderio, che è Infinito, mai soddisfatto perché tende verso Altri in senso Assoluto e il Bisogno, che rappresenta invece un ritorno dell’Io a sé in quanto soddisfazione di una mancanza. Già in queste poche righe l’amore si annuncia come ambiguo, non ha una fisionomia univoca ma è come se oscillasse fra i due termini. Infatti, Levinas riconosce un’impurità nel desiderio amoroso, un suo essere turbato da una forma di soddisfazione che, allo stesso tempo, viene costantemente delusa ed esasperata[82].
Questa non chiarezza, appena accennata all’inizio di Totalità e Infinito, diventa tratto caratteristico dell’intera trattazione dell’erotico come rapporto che si muove tra l’immanenza e la trascendenza. Tutte le descrizioni di Levinas intrecciano costantemente i due piani, la cui simultaneità è essenzialmente il tratto originale dell’equivoco erotico. Dunque, non si può non tenere conto di questo continuo intreccio di prospettive del quale il femminile è il nodo fondamentale. A partire da questa premessa è necessario sottolineare sin da subito che affrontare un discorso sul femminile nell’erotico volendo sciogliere ogni ambiguità è impossibile senza tradirne l’essenza, tenendo conto che la non chiarezza e la polisemia, per riprendere un’espressione usata da di Bernardo[83], costituiscono il nucleo stesso del concetto. È solo tenendo presente questa ambiguità di fondo che è possibile inquadrare le caratteristiche dell’eros e dell’alterità-femminile che si incontra in questo rapporto.
Proprio il mistero è il tratto caratteristico del femminile o, più precisamente, di un’alterità che subito sembra mutarsi in femminile, un Amato che è Amata, metamorfosi che è necessario sottolineare sin da subito perché permetterà, alla fine del discorso, di trarre qualche conclusione sul “genere” di questa insolita figura.
Il femminile è la caratteristica propria della persona amata, un amato che è Amata che sorge come nell’Aurora[84]. Si tratta di un’espressione che richiama il Cantico dei Cantici[85], peraltro riferimento importante anche in un testo che, come si è già detto, Levinas indica come sin troppo presente in Totalità e Infinito per poter essere costantemente citato: La stella della redenzione di Franz Rosenzweig. Infatti, Rosenzweig qualifica chi viene amato come amata, intendendo con questo termine l’uomo destinatario dell’amore divino. Kats fa notare come proprio la rilettura di Rosenzweig del Cantico influenzi Levinas in quanto
the beloved in the Song of Songs frequently drifts from a male to a female voice. Rosenzweig’s appropriation of the Song of Songs takes note of this shift in voice, as demonstrated by his own depiction of the roles of lover and beloved. The movement of lover and beloved is significant for Rosenzweig’s description of love[86].
È necessario, a questo punto, capire perché Levinas indichi la manifestazione della persona amata proprio come “femminile”. Un’indicazione interessante in proposito è contenuta in una conferenza del 1959 dal titolo Al di là del possibile. In questo contesto Levinas riconosce esplicitamente nell’Amore il realizzarsi un mutamento dell’amato dal maschile al femminile, mentre l’oggetto e il Tu sono maschili o neutri[87]. Non credo che il “Tu” cui Levinas si riferisce in questo contesto sia il partner della relazione Io-Tu. Infatti, in Totalità e Infinito Levinas preciserà questo concetto riconoscendo che l’amato è femminile e si differenzia sia dall’oggetto che dal Tu che sono preliminarmente dati o incontrati al neutro[88]. La dimensione “maschile” o “neutra” è quella della Totalità, l’orizzonte dell’egologia nel quale la libertà è il senso ultimo del soggetto e l’altro si riduce o ad un oggetto posseduto e/o compreso o ad un compagno che partecipa ad un unico senso, «una causa comune di cui [tutti] sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinviano allo stesso conio che le ha battute»[89]. Risulterà più chiaro, approfondendone le caratteristiche, che il femminile rompe completamente con questa logica di possesso o partecipazione ad un orizzonte comune.
Il femminile è modalità particolare dell’epifania dell’Amato che è anche lo stesso termine con il quale il filosofo designa la rivelazione del Volto. Tuttavia, l’epifania del femminile è da subito caratterizzata diversamente da quella del Visage. Infatti, la sua modalità è quella della tenerezza com-mossa. La tenerezza in questo caso non indica una sensazione soggettiva ma il modo stesso dell’alterità di Altri da intendersi come debolezza, fragilità e vulnerabilità. Infatti, amare è temere per la debolezza di Altri, la persona amata sembra troppo debole e il mondo troppo crudele per lei[90]. Si evoca, forse, già a partire da queste precisazioni l’idea di una complicità, di una “particolarità” della persona amata rispetto al resto del mondo che spinge alla chiusura degli amanti nel rapporto di coppia, tema importante per chiarire la fisionomia della relazione erotica in Levinas che riprenderò fra poco.
Tuttavia, il modo della tenerezza commossa viene evocato dal filosofo anche in un secondo senso che richiama il tendre della tenerezza[91], il movimento verso un’Alterità che è definita “vulnerabile” non solo perché debole, ma anche perché evanescente. L’immagine complessiva del femminile è, infatti, circondata da mistero, si manifesta e nasconde insieme, collocandosi tra essere e non-essere. Le metafore che Levinas utilizza sono volutamente ambigue e, a tratti, rarefatte come nel caso del richiamo alle “Ninfe” del Pomeriggio di un fauno di Mallarmé, proprio per delineare tutta la misteriosità di questa figura che abita una terra di nessuno[92]. Il femminile nell’erotismo è una figura dai contorni non delineati che oscilla costantemente fra una serie di caratteristiche: un Volto nascosto, il nudo lascivo e un avvenire misterioso senza alcuna possibilità di districare i nodi dell’intreccio. È l’equivoco stesso di questa figura a recare con sé tutti questi enigmi.
Da una parte, Levinas sottolinea che c’è nell’eros una materialità e un’esibizione di nudità lasciva, un’impudicizia e una mancanza di significato. Proprio quest’ultima espressione mi sembra particolarmente importante alla luce del fatto che l’espressione e il significato sono riconosciuti come tratti fondamentali del Volto. Essendo presente nell’amore una componente di bisogno, c’è un’assenza di significato nella misura in cui Altri non si esprime nella nudità del suo Volto ma diventa, in certo senso, oggetto di godimento. Tuttavia, d’altra parte, la nudità lasciva dell’erotico, la sfrontata esibizione della pelle come parossismo di materialità[93] ha un legame con la dignitosa nudità del Volto. Infatti, secondo Levinas, la nudità del corpo che suscita desiderio rimanda sempre al nudo del Volto: «solo un essere assolutamente nudo nel suo volto può arrivare anche a denudarsi impudicamente»[94]. È necessario un Volto perché il lascivo assuma un senso in quanto quest’ultimo è un significato alla rovescia, autentico “non-significato” che rimanda a un’espressione. La femminilità inverte il Volto, la sua è una sfigurazione che si riferisce al volto[95] , ma si tratta di una rinuncia all’espressione e alla parola.
La nudità dell’espressione è, come dicevo nel primo paragrafo di questo capitolo, diretta, debolezza e maestosità al contempo proprio per questa mancanza di ambiguità. Il volto nel femminile, invece, è appesantito dall’equivoco, dal ghigno, dall’inquietudine del riso, allusivo come gli sghignazzamenti delle streghe del Macbeth[96]. Come fa notare Orietta Ombrosi: «questo “riso” rimane inquietante e non smette di inquietare. Infatti, quando si tratta del femminile, l’appello al rispetto e alla responsabilità dovute al volto dell’altro uomo tout court si trasforma in invito voluttuoso ed indecente»[97]. Il linguaggio di Levinas è, a tratti, molto ambiguo, fino all’uso di termini che potrebbero sembrare molto “forti” perché indica il femminile come alterità che ha lasciato il suo statuto di persona, un bambino o un animale con il quale si gioca una specie di gioco come si fosse insieme ad un cucciolo e in una completa mancanza di serietà[98]. Alcuni critici non hanno mancato di sottolineare questi aspetti, arrivando a sostenere una possibile identificazione tra donna empirica e femminile che condurrebbe ad affermare che la donna, che è ghigno, beffa e non-significazione, non abbia un Volto e non partecipi, dunque, alla relazione etica[99]. Ritornerò più distesamente su questo concetto alla fine di questo paragrafo, dopo aver esaminato le ulteriori caratteristiche del femminile che emergono nel contesto erotico.
Questa figura riceve, infatti, anche dei connotati “positivi”, oltre l’esibizionismo lascivo, che annunciano nell’erotico una dimensione altra rispetto alla soddisfazione del bisogno. Da questo punto di vista, una caratteristica particolarmente rivelatrice del femminile nell’erotismo è la profanazione. La profanazione significa per Levinas che nella manifestazione dell’alterità-femminile l’esibito e il clandestino sono simultanei proprio perché insieme all’impudore lascivo si scorge la vertigine di un segreto che sempre si sottrae, un avvenire e un mistero infinito.
In questo senso, la manifestazione fisica per eccellenza dell’amore, la carezza è ben più di un contatto sensibile. È la realizzazione della profanazione stessa perché cerca qualcosa che non si risolve nel nudo della pelle e che, nonostante l’esibizione irriverente, non viene alla luce e si ritira. Il significato autentico della carezza è una trascendenza rispetto al sensibile, il non afferrare niente, un desiderio che continuamente rinasce perché tende all’avvenire, ciò che non è ancora.
Il corpo nella nudità erotica, dunque, non viene mai “afferrato” come ente solido e tangibile e l’alterità non diviene oggetto dell’io. Nodari riconosce che, se si può ritrovare nella carezza un’intenzione, questo dinamismo è del tutto sui generis perché il corpo della persona amata non diventa un tema e non è neanche propriamente un “corpo biologico”. Il rapporto erotico con il femminile è, anche nelle manifestazioni fisiche come la carezza, un modo di temporalizzarsi, ovvero l’apertura all’avvenire[100]. Rimane così preservata la dualità dei soggetti coinvolti nel rapporto perché la carezza non significa una presa definitiva sull’essere verso il quale il movimento si rivolge, dal momento che questa non ricerca il contatto con la pelle ma un “non ancora” che si ritira pur annunciandosi. Scrive Levinas:
la caresse ne cherche pas à posseder. Il est vrai cependant qu’elle cherche. Cette recherche de la caresse qui se manifeste dans son mouvement même, en costitue l’essence; mais un recherche qui ne tend pas à une possession – elle est comme un jeu avec quelque chose qui se dérobe. Son essence est précisement dans la recherche: quand l’étreinte devient dans son paroxysme comme une possession, elle est morte, come si elle avait saisi ce que’elle ne cherchait pas[101].
Alcuni elementi, come si evince da questi passaggi, sono in diretta continuità con l’immagine del femminile già apparsa nelle opere degli anni precedenti: il mistero, il ritrarsi dal mondo della luce (orizzonte di intenzionalità del soggetto e modo della “presa” sugli oggetti), l’impossibilità di porre fine alla ricerca della carezza. Tuttavia, nonostante in passato fosse già presente in abbozzo l’idea che la relazione erotica non si limiti al godimento presente, Levinas pone maggiormente l’accento sull’ “al di là del possibile” che in essa si annuncia.
Proprio questo è il significato di un nuovo tratto associato al femminile che è la verginità. Il femminile, “l’Eterno femminino” è sempre vergine, non perde mai il proprio statuto che rimane tale pur nell’esibizione del nudo perché rimanda ad un segreto inviolabile che evade dai limiti dell’erotismo puro[102].
Queste considerazioni permettono di chiarire un secondo senso dell’in-significanza del femminile prima evocata, diversa dal semplice “appesantimento della carne” e rimando al lascivo che turba la dignitosa nudità dell’espressione del Volto. Il femminile può essere descritto in termini inquietanti come riso, ghigno, beffa, “allusioni a vuoto” e significato di “men che nulla” perché il nudo erotico esibisce la pelle, ma sottrae il segreto del futuro che si annuncia. Il femminile esibisce un “non-significato”, ciò che essenzialmente non è anticipabile.
Dunque, l’equivoco del femminile si gioca tutto attraverso due piani temporali diversi. L’amore può diventare il più materiale dei bisogni se si radica nel presente; in questo caso non sancisce un vero allontanamento dall’egoismo dell’io che, sottolinea Levinas, cerca nell’altro un alter ego, compie un incesto come si fossero riunite le due metà dell’androgino del mito di Aristofane nel Simposio platonico[103].
Tuttavia, l’amore è anche trascendenza, ovvero tensione verso il futuro che conduce al di là della chiusura del rapporto fra gli amanti. Prima di chiarire in cosa consista esattamente questo futuro, è necessario sottolineare che la “non-socialità” degli amanti presenta per Levinas un’intrinseca complessità.
Ha un aspetto negativo, inteso appunto come complicità, intimità e isolamento rispetto al resto del mondo. L’Io-Tu di Buber, chiamato già in causa nel contesto della dimora, viene qui nuovamente evocato per indicare che il rapporto intimo fra gli amanti è appunto una società duale che isola i due innamorati senza che tale relazione avvenga in pubblico. Non a caso, la clandestinità viene evocata da Levinas a più riprese come uno dei tratti fondamentali dell’erotico. L’amore non ha la trascendenza del linguaggio perché è un “assentarsi a due” rispetto a tutto il resto del mondo[104].
Si intravede qui una problematica che in questa sede mi è possibile soltanto accennare, ma che occorre richiamare per indicare maggiormente le differenze fra la relazione erotica e quella etica.
L’incontro con il Volto non ha nulla della clandestina complicità con l’amante, un essere che viene preferito a tutti gli altri perché ciò che accade fra due è, allo stesso tempo, completamente scoperto, accade anche in pubblico. La relazione etica avviene al cospetto del Volto ma anche del “terzo”, dell’umanità intera e fonda una società di fratelli. Si evince proprio a questo punto una differenza fondamentale rispetto alle opere di fine anni Cinquanta perché in quei contesti la socialità originaria era rappresentata dal rapporto erotico, dalla differenza ineludibile che questo offriva mentre adesso è il linguaggio del Volto ad offrire la possibilità di un autentico pluralismo e a permettere di realizzare una prospettiva di giustizia per l’umanità. È, dunque, ormai evidente la centralità dell’etica come ottica nel pensiero di Levinas. Ciò significa in senso assoluto che l’erotico non abbia più alcuna parentela con la giustizia, che è condizione necessaria alla comunità? Cercherò di dare esaminare più nel dettaglio le problematiche legate a questo concetto nel prossimo paragrafo.
Adesso è necessario concludere la trattazione dell’Eros e del femminile ritornando al dualismo dell’esclusività del rapporto erotico del quale ho sottolineato in precedenza solo il primo aspetto, quello negativo della chiusura rispetto al mondo, dell’egoismo a due che Levinas definisce “amoreggiamento”[105].
Tuttavia, la chiusura a due del rapporto d’amore ha anche un aspetto positivo che Levinas indica come comunione del senziente e del sentito, amore dell’amore dell’altro come se fosse comune agli amanti il medesimo sentimento. Questo concetto non nega, come si potrebbe pensare ad una prima lettura, che gli esseri coinvolti nella relazione erotica siano due. Piuttosto, rimanda ad un evento più essenziale, una trasfigurazione del soggetto che si realizza nell’erotismo tale che questo diventa effeminato, come riconosce esplicitamente Levinas, nella misura cui non si colloca più in una dimensione di potere nella quale l‘unico riferimento è il proprio sé. Nella voluttà erotica scopre di essere il sé di un Altro, ama di essere amato ed è in relazione con un Altro pur nell’equivoco in cui Altri può allo stesso tempo essere un’altra persona e un oggetto di godimento[106].
Inoltre, la passività dell’io nell’erotismo si spinge al punto che il soggetto sperimenta un rapporto che lo turba in quanto apertura all’avvenire assoluto sul quale egli non può, un avvenire senza forma, una “notte dell’erotico”: «un non-io amorfo trascina l’io in un avvenire assoluto in cui esso evade e perde la sua posizione di soggetto […]. Totalmente passione»[107]. In questo senso, si potrebbero “tollerare” le immagini apparentemente dissacranti dell’amato femminile, a tratti presentato come infantile ed animale perché queste espressioni, che si riferiscono all’ambiguità dell’eros, hanno un senso in un orizzonte più generale in cui Levinas sta conducendo un indebolimento della “virilità” del soggetto, disturbando la sua autoreferenzialità e la sua presa sui propri possibili[108]. Infatti, la relazione erotica non si riduce ad un piacere, il puro godimento di Altri, ma in un rilancio che si realizza al di là di entrambi gli amanti nel figlio che questi generano. Il Medesimo e l’Altro non si confondono fra loro, ma si realizza una “tran-sustanziazione”.
Prima di affrontare più dettagliatamente il tema della fecondità e del rapporto con il figlio è necessario rispondere ad un’ultima questione fino ad ora rimasta in sospeso. Come ho accennato all’inizio, l’ambiguità di fondo che caratterizza il femminile ha generato diverse perplessità tra i lettori di Levinas. Naturalmente, le critiche al femminile nell’eros sono state molte e seguirle tutte nel dettaglio richiederebbe un’analisi particolare che in questa sede non mi è possibile realizzare. Mi limiterò, dunque, a mettere in luce alcuni punti che mi sembrano fondamentali per fornire una caratterizzazione più completa del femminile e delle sue ambiguità.
Il primo problema riguarda il genere sessuale del “femminile”, quesito ineludibile quando si cerca di approcciarsi a questa particolare tematica del pensiero di Levinas. Infatti, ciò che emerge in molte critiche è un’idea diffusa che Levinas nella “Fenomenologia dell’Eros” si riferisca prevalentemente, se non esclusivamente, ad un essere umano di sesso femminile. Basti ricordare le famose pagine dedicate alla “fecondità della carezza” in Totalità e Infinito di Luce Irigaray, dove a più riprese la pensatrice declina l’amata come donna che custodisce in sé il segreto del figlio («anch’esso maschile, ma perché non figlia? Il suo altro se stessa?» si chiede la Irigaray»)[109].
A questa osservazione si unisce spesso il pensiero che la donna, caratterizzata con termini irriverenti che rimandano all’infanzia e all’animalità, non abbia un Volto e non sia, dunque, ammessa alla dimensione etica, ma svolga solo il ruolo secondario di consentire al soggetto maschile di ritrovarsi nel figlio. Per citare qualche esempio, Marzena Adamiak scrive, relativamente al “parossismo di materialità” che Levinas evoca all’inizio della Fenomenologia dell’Eros: «A woman unceremoniously attacks with her naked body, despite the fact that it is fragile and helpless. Thus, the female paroxysm consists in a certain type of hysteria, a neurotic act consisting in a violent unveiling of her presence»[110], aggiungendo che, in certa misura, si tratta di una figura caratterizzata da “mancanze” e senza Volto, oscillante fra essere (soggetto) e non-essere (oggetto)[111].
Sulla stessa linea di pensiero, Sebbah fa notare che la sessualità, considerata dal punto di vista del soggetto maschile (male), non è abbastanza seria da diventare parte dell’esperienza etica e si spinge al punto da ritenere che:
the woman in her flesh is designated as compromising the ethical rectitude of the Face. It appears then that, more and more, femininity not only appears to Levinas as an unaccomplished figure or moment of the alterity — and also as a legitimate moment of it — but as a menace to the ethical experience of the Face[112].
Ho già sottolineato come Levinas ritenga che il nudo lasciavo sia essenzialmente supportato da un Volto perché solo chi è nudo nell’espressione del suo viso può denudarsi impudicamente.
La questione, tuttavia, richiede un approfondimento nella direzione del rapporto tra “femminile” e “donna empirica”[113] affinché diventi più chiara la posizione apparentemente irriverente di Levinas e le sue espressioni a tratti severe rispetto a questa manifestazione dell’alterità. Queste problematiche sono molto difficili da affrontare perché il linguaggio levinassiano è ambiguo, ma credo ci siano elementi che, come avviene nel caso della dimora, facciano propendere per un’interpretazione metaforica del concetto del femminile. Sin da subito, Levinas presenta delle espressioni che lasciano intendere che il femminile possa essere un modo di manifestarsi dell’alterità nell’erotico che non si sovrappone al genere sessuale di appartenenza. Mi riferisco ad espressioni come “l’Amato che è Amata”, “Epifania dell’Amato, il femminile”, “il femminile è l’Altro refrattario alla società”, rispetto alle quali non sembrerebbe che Levinas stia parlando esclusivamente di una donna empirica.
Sono sicuramente caratteristiche come verginità e profanazione a indirizzare verso un’interpretazione maschilista tradizionale, ma non credo sia possibile affermare univocamente che questi tratti implichino il riferimento al sesso femminile. Profanazione e verginità non sono presentate come caratteristiche relative alla donna, il livello di analisi è diverso e fa riferimento al fatto che nell’esibizionismo del nudo erotico il mistero, ovvero la trascendenza possibile offerta dal figlio, non si rivela e non si offre al potere dell’anticipazione o del possesso e rimane sempre a venire.
Mi sembra significativo a tal proposito ricordare che, quando Levinas parla della fecondità come relazione che richiede l’incontro con l’Altro che è Amata per potersi realizzare nel figlio, sottolinea che è “possibilità” di entrambi i partners della relazione erotica e, dunque, al di là del possibile inteso come esercizio di potere da parte del soggetto singolo[114]. Considerando che Amata non indichi il riferimento ad una donna concreta ma il modo di essere “femminile” dell’Amato e che il figlio rappresenti anche una sua possibilità di essere fecondo, non soltanto dell’amante, si potrebbe interpretare in senso più ampio il segreto che la pudica femminilità cela in sé. Infatti, tenendo ferma una caratterizzazione rigidamente di genere, questo segreto rimanderebbe alla possibilità biologica di una gravidanza, fatto che renderebbe la donna solo “un ponte fra figlio e Padre”, per usare un’espressione di Luce Irigaray[115].
Se, invece, il femminile fosse il modo equivoco della persona Amata, l’altro in quanto femminile[116] in tutte le sue complesse sfaccettature, ciò significherebbe che il segreto che cela è non tanto un fatto biologico quanto un evento ontologico. Levinas si starebbe riferendo alla trascendenza possibile della soggettività verso un futuro con un movimento che rompe la logica di ritorno dell’io a sé non solo perché il figlio è insieme sé e un altro da sé, ma anche perché si tratta di un futuro che richiede una relazione con Altri (femminile) per realizzarsi. Piuttosto che leggere le categorie che Levinas utilizza come stereotipi di genere, si potrebbe porre la questione se usare il termine “femminile” sia stata una scelta azzeccata e se la metafora abbia avuto una buona riuscita, come suggerisce anche Peperzak. Egli ritiene a tal proposito che:
The loved one is essentially frail, tender, carnal, ambiguously naked and nude, and, thus, “feminine,” whether he or she is a man or a woman. Still, one might maintain that Levinas’s description of love, the beloved, and the lover are typically masculine. This would certainly not offend an author who does not swear by the neutrality of “formal logic.” As for the femininity of the house, which was thematized in Levinas’s phenomenology of dwelling in section 2 (cf. 127-29/ 154-56 and 157-58 above), there, too, “the feminine” was used in a metaphorical sense (which, of course, does not yet answer the question of whether it is a good metaphor, and why or why not)[117].
Si può, dunque, contestare la riuscita piena dell’uso metaforico del termine da parte di Levinas ma non si può altrettanto facilmente accettare senza riserve una completa sovrapposizione fra “Donna concreta” e “Femminile”. Certamente queste considerazioni non diminuiscono affatto l’equivoco della femminilità. Basti pensare che Levinas, mentre usa delle espressioni che si prestano ad un’interpretazione metaforica del termine, apertamente in un passaggio parla di una figura di donna:
l’equivoco costituisce l’epifania del femminile – ad un tempo interlocutore, collaboratore e guida sommamente intelligente, che domina così spesso gli uomini della civiltà maschile in cui è entrato, e donna che deve essere trattata come donna secondo le regole imprescrittibili della società civile[118].
È difficile se ci riferisce a passaggi di questo tipo negare che le descrizioni del femminile nell’erotico, almeno a tratti e relativamente all’evocazione di certe immagini, rivelino un punto di vista maschile. Adamiak nota che nella versione originale del testo Levinas usa i termini “interlocutore, collaboratore e guida” declinati al maschile nonostante esistano i corrispettivi femminili. Con ciò si intenderebbe questo passaggio riferendosi al fatto che la donna, quando costituisce la propria identità secondo l’egoismo della soggettività che domina, dell’io “maschile”, assume lei stessa dei tratti “maschili” pur restando una donna che deve essere trattata come tale, inevitabilmente assegnata al proprio genere di appartenenza[119]. Se la prima parte di questo ambiguo passaggio sembra più facilmente accordarsi alla lettura di Adamiak, peraltro accompagnata dal riconoscimento levinassiano che la donna entrata nella società maschile spesso “domina”, credo che la seconda parte possa interpretarsi anche diversamente. Si potrebbe ipotizzare non tanto la necessità di trattare la donna in modo consono al proprio genere e, quindi, in modo particolare e diverso rispetto all’uomo, quanto piuttosto il fatto che la donna in quanto donna nel momento in cui è in società è sottoposta all’imprescrittibilità della legge tanto quanto l’uomo, il che porterebbe ad affrontare il problema della giustizia e del nuovo modo di concettualizzare la società che affronterò più nel dettaglio nel prossimo paragrafo.
Come dicevo, è difficile in passaggi come questo ignorare che un certo punto di vista maschile è presente nelle descrizioni. A tal proposito, Dubost ipotizza che il discorso filosofico levinassiano in generale non possa liberarsi del tutto da questo tipo di impronta. Infatti, dando centralità al corpo e alle esperienze sensibili, Levinas non può eludere completamente dalla realtà di un corpo situato che è anche un corpo sessualmente situato, con la maggiore facilità di immedesimarsi in un’esperienza maschile:
Or l’ego de l’auteur est masculin et hétérosexuel. Lévinas ne peut donc écrire qu’en homme. De même qu’il ne peut jamais se mettre à la place d’autrui, de même ne peut-il se penser femme […]. Son androcentrisme n’est donc pas tant la marque d’une faiblesse ou le fruit d’un préjugé qu’une nécessité factuelle de pensée et d’écriture. Il ne peut prétendre parler à la place d’autrui, et parmi ces autres il y a des femmes. Son androcentrisme est même nécessaire car s’il faut chercher des situations concrètes dans lesquelles la relation éthique s’entraperçoit sensiblement, alors il ne le peut que d’un point de vue masculin[120].
Sicuramente, come ho sottolineato più volte nel corso di questa tesi, l’esercizio del metodo fenomenologico da parte di Levinas non può del tutto liberarsi dal suo punto vista “maschile” e allo stesso tempo il discorso levinassiano mi sembra suggerire molte aperture rispetto alla limitazione strettamente letterale dei termini “maschile” e “femminile”. Ignorare questa prospettiva più ampia non è possibile senza semplificare troppo i concetti che il filosofo ha delineato.
Naturalmente, non è possibile sciogliere del tutto le ambiguità del femminile, operazione che porterebbe tra le altre cose a snaturare il mistero e l’equivoco del concetto stesso. Le opacità ne costituiscono il contenuto essenziale e proprio questo aspetto colloca l’erotico in una dimensione diversa da quella etica.
Vorrei, tuttavia, concludere sottolineando di nuovo che, nonostante l’Epifania dell’Amato che si incontra nell’eros si realizzi nell’equivoco, ciò non significa che la persona amata non abbia un volto in senso assoluto.
Ciò che risulta chiaro è che la relazione erotica non fornisce più, secondo Levinas, il contesto nel quale è possibile realizzare l’incontro con l’alterità esteriore nel senso più pieno del termine. Il femminile (la persona amata) è debolezza ma non è vulnerabilità maestosa, è allusione e non espressione, invito all’irresponsabilità (del lascivo) mentre invece il volto è insegnamento responsabile per eccellenza. Non credo si possano leggere le pagine dedicate alla fenomenologia dell’eros senza tenere conto del fatto che la prospettiva che apre all’umanità dell’uomo è quella etica. Dunque, da questo punto di vista si può sostenere che la persona è per Levinas, prima di mostrarsi come l’amato che è Amata dell’erotismo, un Volto che solo nel contesto della relazione etica può rivelarsi pienamente. Infatti, per Levinas, perché l’Eros sia possibile deve esserci stato un Volto: «l’Eros stesso è possibile solo tra Volti»[121].
Al contempo, solo l’Eros (il vero eros come Desiderio) assicura all’etica un tempo infinito per compiersi grazie alla paternità e al rapporto con il figlio.
2.3.2. Transunstanziazione ed elezione: tempo infinito e comunità di fratelli (e sorelle).
La relazione con il figlio, secondo Levinas, si attua già a partire dall’erotismo. Come si è già visto, infatti, nella manifestazione per eccellenza dell’amore, la carezza, non si tende verso un corpo. Ciò che viene cercato non è un qualcosa e nemmeno un qualcuno, ma un vertiginoso “non ancora” che, sottolinea Levinas, non è semplicemente un contrario dell’essere perché non ha nessuna parentela con il soggetto come fosse un avatar, un’idea o un progetto anticipabile[122]. Si tratta di un “men che nulla” che realizza una trascendenza totale dell’io, così radicale che Levinas può parlarne in termini di trans-sustanziazione. Ciò che emerge dalle riflessioni del filosofo relativamente al rapporto con il figlio è, infatti, del tutto in linea con il tentativo di ripensamento della soggettività tradizionale che, come si è visto, attraversa costantemente il suo pensiero. La fecondità dell’io conduce ad una relazione particolare, ancora riguardante il soggetto pur non realizzandosi come suo potere. La relazione con il figlio richiede, ancor più di quanto avvenisse con il femminile, una passività assoluta nei confronti dell’avvenire:
questo avvenire non è né il germe aristotelico (men che l’essere, un essere inferiore), né la possibilità heideggeriana che costituisce l’essere stesso, ma che trasforma il rapporto con l’avvenire in potere del soggetto. Ad un tempo mio e non-mio, possibilità mia ma anche possibilità dell’Altro, dell’Amata – il mio avvenire non rientra nell’essenza logica del possibile. Noi definiamo fecondità la relazione con un avvenire di questo tipo, irriducibile al potere su dei possibili[123].
Come si è visto, infatti, il potere del soggetto, la sua volontà e libertà si esplicano come aggiornamento del tempo in attività indirizzate verso il mondo, come il possesso e lavoro. Il mondo è l’orizzonte dei possibili dell’io. L’aggiornamento dell’esistenza come tempo è, tuttavia, già in scacco in quanto mortale e rende necessario un al di là del possibile tale che l’io non si comprende più solo come eroismo in lotta contro la morte, ma come passività rispetto ad un avvenire reso possibile dal figlio, un Altro che non è un’idea, un progetto o un oggetto prodotto e posseduto dal padre: egli è il proprio figlio.
Questa prospettiva si spiega in quanto fuoriuscita dalla logica di un soggetto sovrano ed identico a se stesso e inversione verso un io che non è più soltanto collocato nella dimensione del potere e dell’attività, ma che ha con l’alterità del figlio un rapporto irriducibile alle categorie del pensiero tradizionale. Come fa notare Oliver, il punto centrale della fecondità non è tanto il figlio quanto il padre, perché la transustanziazione non è semplicemente un movimento che parte dal padre e ha termine nel figlio, ma è il soggetto stesso ad essere mutato dal proprio interno. La sostanza che si altera, prima di realizzarsi nel figlio, è quella dell’io. Non è più il soggetto di Husserl, di Sartre, di Ricoeur, l’io “virile” che ha presa sui propri possibili e si realizza nella direzione del pensiero e dell’attività. La fecondità dà nuova vita al padre che si scopre unico in rapporto con il proprio figlio[124]. Si realizza, come anticipavo nello scorso paragrafo, una certa “femminilizzazione del soggetto”, nella misura in cui la sua signoria eroica si muta in passività per cui gli è possibile liberarsi dal potere che gli garantiva una libertà provvisoria e già tradita, perché destinata alla vecchiaia e alla mortalità. L’io fecondo può dirigersi verso un futuro al di là del possibile che egli non avrà ma sarà.
Questo movimento fuori dal soggetto “dei possibili” non significa una ricaduta nell’impersonale o nell’ordine della totalità. A tal proposito, Levinas chiarisce che il tempo dischiuso dalla fecondità è molto diverso dal tentativo di preservare la volontà garantito dalla inclusione nella totalità. Infatti, un modo fallace di tutelarsi rispetto alla precarietà della volontà è rappresentato dalla sottomissione alle leggi e alle istituzioni. Tuttavia, ciò significa collocare l’esistenza personale in una dimensione “oggettiva” nella quale la singola persona diventa un fatto puramente numerico[125] destinato ad eclissarsi in rapporto alla morte e a rimanere solo come memoria attestata dai superstiti. La fecondità, invece, dischiude un nuovo senso per l’individuo, un soggetto che attraverso il Desiderio può liberarsi dallo scacco della propria volontà e può ricominciare nel figlio.
Naturalmente, è chiaro che Levinas sta mettendo in campo delle categorie molto complesse che non possono essere appiattite sul mero significato biologico dei termini. Il filosofo dichiara esplicitamente, come aveva già fatto anche nelle opere precedenti, di prendere le distanze da Freud e da tutta la filosofia del biologico che, considerando l’erotico dal mero punto di vista del piacere, non arriva neanche a scorgere gli insospettati orizzonti futuri che si celano nella fecondità[126]. “Fecondità” e “paternità” sono categorie che vanno molto oltre il semplice significato biologico della sopravvivenza della specie, rispetto alla quale l’unicità dell’individuo viene sacrificata all’astrazione di un concetto del quale egli è un aspetto contingente. Parlando della paternità, Levinas vi si riferisce come ad evento ontologico, un avvenimento rispetto al quale il soggetto s’è-vertue. Questo ad-operarsi dell’io significa tutta l’importanza del mantenersi come inizio, proprio il fatto che nella fecondità il soggetto può essere ancora un’origine senza che ciò significhi la ricaduta su di sé, movimento che lo renderebbe invischiato fatalmente nel destino della mortalità.
Se la fecondità, dunque, dischiude una prospettiva “Universale” per il genere umano, non è quella della specie studiata dalle scienze e neanche un concetto neutro al quale gli individui aderiscono sacrificando la loro personalità, ma il vero fondamento della molteplicità, ciò che concretamente la genera[127].
Dunque, è chiaro che la fecondità e la paternità sono categorie ontologiche: l’ “al di là del possibile” ritorna frequentemente come espressione fra le pagine levinassiane dedicate all’erotico e alla fecondità, proprio ad indicare la portata di “evento” della fecondità, ovvero la possibilità per un essere di avere un destino diverso dal proprio. Essere fecondo significa, concretamente, l’evasione dalla prigionia dell’identico, la rottura della tautologia del Medesimo senza che, tuttavia, il soggetto sia destinato a sparire per sempre.
La relazione padre-figlio, tuttavia, dischiude una prospettiva molto più ampia della semplice transustanziazione del singolo io nel proprio figlio. Infatti, il significato fondamentale della fecondità consiste nella realizzazione di un tempo infinito poiché fra padre e figlio si apre un intervallo, una discontinuità che rende possibile l’infinizione del tempo.
Naturalmente, è chiaro che l’infinito non significa per Levinas garantire al soggetto singolo un tempo eterno che concretamente non lo faccia invecchiare e morire. L’infinizione del tempo si muove discontinuamente attraverso gli intervalli che separano le generazioni, si realizza nella giovinezza sempre nuova dei figli.
Si tratta di realizzare autenticamente il perdono, di redimere con un nuovo inizio, il quale è il significato più profondo del tempo. “Perdonare” significa ricominciare senza cancellare il passato, concezione che apparterrebbe per Levinas al tempo volgare nel quale il soggetto perdonato è colui che compie una colpa morale che viene cancellata come se il passato non fosse mai esistito. La fecondità, invece, realizza l’autentico perdono del passato, conservandolo e rinnovandolo nel presente.
Il rinnovo è un autentico cominciare sempre di nuovo proprio perché non può fare a meno della soggettività, perché l’io fecondo parte da sé ma non per ricadere sul proprio destino[128]. Dunque, contro la finitudine del Dasein heideggeriano, l’essenza del tempo è l’infinito che procede attraverso intervalli di morte e resurrezione che segnano la discontinuità delle generazioni.
Questa prospettiva è possibile perché il figlio non rappresenta la fine del Desiderio ma un suo rilancio ulteriore. Il figlio è a propria volta fecondo. La paternità, dunque, non si compie una volta sola, ma rinasce perché è dono della fecondità e di una sempre nuova trascendenza. È possibile, oltre la bontà correlativa al Volto, una Bontà della Bontà che realizza un dono del dono, un dono della fecondità: il Desiderio genera Desiderio[129] e, in questo modo, un tempo senza fine.
Il rapporto fra padre e figlio viene definito come “amore” da Levinas e questo potrebbe sembrare apparentemente strano se si considera che in un’intervista del 1982 il filosofo potrà riconoscere di aver sempre preferito riferirsi poco alla parola “amore”, della quale troppo si abusa e che è ambigua[130]. In effetti, fra gli anni Cinquanta e Sessanta la parola “amore” viene quasi sempre associata da Levinas all’erotico che, come si diceva, è una relazione che in certo senso si radica nell’immanenza e prevede che amato e amante siano come soli al mondo. Da questo punto di vista, il rapporto amoroso non può essere l’origine della società perché ci si trova in una relazione in cui si è in complicità con la persona preferita. L’amore non contiene la realtà sociale[131].
Invece, la fecondità realizza un rapporto di “elezione” del figlio da parte del padre che significa anche l’apertura all’umanità intera e proprio per questo il rapporto col padre può diventare un esempio per ogni altra forma di amore[132].
Il figlio è eletto in due sensi diversi. Il primo riguarda il fatto che ogni figlio è sempre figlio unico per il proprio padre. Egli è anche il proprio padre proprio perché la sua esistenza si concretizza come essere separato che tuttavia è in relazione con un Altro. La fecondità, come ha spiegato Bernhard Casper nel corso di alcuni seminari dedicati a Levinas, realizza la situazione per cui il soggetto sin dalla propria origine è in rapporto con l’altro, padre (ma anche madre) che lo lascia libero di essere qualcuno che esiste per sé, ma che è anche “debitore” della propria esistenza[133].
Tuttavia, l’elezione del figlio ha un secondo e più ampio significato che permette di ritornare alla domanda lasciata in sospesa nel discorso relativo all’erotismo, ovvero la possibilità che fra i due orizzonti dell’amore e dell’etica non intercorra una cesura assoluta.
Adesso si può precisare che la fecondità realizza per Levinas il punto di incontro tra l’eros (la trascendenza dell’erotico nel Desiderio) e la prospettiva etica. Infatti, il filosofo sottolinea che un figlio eletto dal padre può essere educato, comandato e può obbedire[134]. Si tratta, non casualmente, di termini che rievocano la prospettiva della relazione etica con il Volto. Infatti, essere un figlio eletto significa essere unico per il proprio padre, ma anche non assolutamente unico nel mondo. Il figlio è eletto fra altri eletti, fra fratelli. La fraternità si apre all’umanità intera e ai Terzi che erano rimasti esclusi dal rapporto amoroso perché la paternità elegge un figlio unico, ma si produce in modo innumerevole e tale che nel mondo ci sono molti altri figli, tutti unici e al contempo fratelli. Dunque, come fa notare Kelly Oliver, proprio la paternità può rappresentare un punto di giuntura tra intimità e socialità:
The father/son relationship is characterized not by law-bound recognition but by outlaw singularity. What Levinas calls “paternal election,” which chooses from among equals, makes the subject unique precisely by recalling the nonuniqueness of the equals from which this one was chosen[135].
La paternità apre all’umanità perché l’individuo è unico ma fa parte di un universo più ampio accanto ad altre unicità. Sorge, dunque, il problema della giustizia che per Levinas è un correlato dell’epifania del Volto. Infatti, come si è già visto, il Volto che ci guarda non invita al compiacimento di un rapporto a due poiché si riferisce al terzo, ovvero all’umanità Dunque, l’unicità dell’io non è mai arbitraria e assoluta perché il figlio ha anche un posto in un’universalità più grande, la quale, non realizzandosi come totalità ma come comunità del padre, conserva la singolarità dei suoi membri invitando alla rettitudine, alla posizione di fronte all’altro come Volto. Una società di fratelli, di eguali è possibile per Levinas solo in quanto società di Volti.
Naturalmente, l’influenza del giudaismo relativamente all’uso di queste metafore è chiara. La centralità della figura del padre, l’elezione del figlio, l’importanza della discendenza sono tutti elementi fondamentali dell’ebraismo come riconosciuto anche da Levinas stesso quando sottolinea che la comunità fraterna rimanda proprio al monoteismo nel suo significato di straordinaria parentela fra gli uomini[136].
La vera religione, intesa come rapporto con il trascendente per Levinas non è un rapporto amoroso, intimo ed esclusivo con l’amato, ma non può essere pensata indipendentemente dal Terzo. Come ho già detto nello scorso paragrafo, nell’intimità dell’Eros il Volto non si mostra, non viene garantita l’esteriorità radicale dell’Infinito e l’essere umano non può essere un interlocutore. Per Levinas questo non è possibile a meno che il terzo come testimone non si inserisca tra i due dell’intimità e renda pubblica la clandestinità della relazione[137].
Naturalmente, i problemi che questi rimandi religiosi recano con sé sono diversi. Il primo concerne una questione meno centrale ai fini della presente tesi, ma alla quale è necessario dare brevemente risposta per giustificare l’orizzonte dal quale Levinas può trarre le metafore fin qui messe in campo. Si tratta del rapporto fra il particolarismo della religione ebraica e la possibilità di applicare dei concetti derivati da questo orizzonte in una prospettiva più universalmente volta al genere umano. Avevo già accennato, parlando del Volto, che del giudaismo Levinas apprezza le nuove categorie etiche che offre. È adesso necessario approfondire questi temi per capire perché e in che modo, quando parla di fraternità e comunità del padre, (immagini appunto ispirate dall’ebraismo) il filosofo non si sta riferendo soltanto agli ebrei, ma a tutta l’umanità. Bisogna, dunque, chiarire brevemente le possibilità di questa estensione concettuale.
Il secondo problema, legato al primo e più direttamente relativo al tema della presente tesi, è il ruolo delle donne nell’orizzonte comunitario della fraternità. Sorgono, infatti, spontaneamente alcune domande circa lo status riconosciuto alle figlie: sono anche loro elette? Possono compiere la transustanziazione del padre? Il padre è solo un uomo o la fecondità è propria anche della madre? Infine, se partecipare all’umanità intera significa esistere nella fraternità, le sorelle sono umane allo stesso titolo dei fratelli?
Prima di rispondere a tali questioni è necessario giustificare la possibilità di estendere metafore tratte dall’orizzonte ebraico ad un discorso filosofico come quello che Levinas conduce in Totalità e Infinito e nella produzione coeva. In un saggio del 1960, Laicità e pensiero giudaico, il filosofo riconosce che il particolarismo della religione ebraica ha portato al mondo un messaggio di portata molto vasta. Da una parte, il popolo ebraico ha una posizione particolare in quanto eletto da Dio e destinatario della rivelazione.
Tuttavia, specifica Levinas, l’ebraismo non si fonda sulla volontà di convertire tutti gli uomini alla medesima fede, integrandoli dunque in una Totalità. La pace alla quale il giudaismo aspira consiste nell’ottenere un accordo fra gli uomini con la fraternità, un ideale che implica la laicità perché il diritto non si fonda sull’adesione al culto religioso. Da questo punto di vista, è centrale la figura talmudica del “noahide”, discendente di Noah (Noé), che è un termine impiegato per indicare l’essere morale la cui moralità non dipende affatto dal diventare parte della comunità ebraica intesa come culto religioso.
Lo straniero è del tutto ammesso nello Stato a patto che osservi le leggi morali: «l’umanità dell’uomo comincia con la morale»[138]. Dunque, la partecipazione alla società non prevede la conversione al culto, ma il rispetto della giustizia. Si comprende, dunque, pienamente il fatto che Levinas ponga l’accento sull’amore di Dio per lo straniero del Deuteronomio che per il filosofo è una definizione stessa di Dio[139] e anche il fatto che una delle immagini costantemente associate al Volto nelle opere filosofiche sia quella dello straniero.
Il messaggio fondamentale del giudaismo è, dunque, la rettitudine morale, il rapporto con gli uomini nel quale si realizza l’unico, vero rapporto con Dio perché la Trascendenza è la rivelazione del Volto dell’Altro: «i rapporti interumani, indipendenti da ogni comunione religiosa, nel senso stretto del termine, costituiscono in qualche modo l’atto liturgico supremo, autonomo rispetto a tutte le manifestazioni della pietà rituale»[140].
Se si comprende meglio, adesso, tutta la portata etica delle metafore di ispirazione ebraica che Levinas utilizza nelle proprie opere filosofiche, rimane da discutere se le donne possano entrare a pieno titolo nella società dei “fratelli eletti dal padre”. In effetti, come nota Tina Chanter, le metafore del padre, del figlio e della fraternità da una parte compiono concretamente la rottura della vecchia signoria del soggetto tradizionale, ma si tratta di motivi che prendono piede a partire dal patriarcalismo tradizionale del giudaismo, che riconosce un privilegio al padre e alla relazione con il figlio e una certa subordinazione del femminile[141].
Tratterò più dettagliatamente del rapporto tra “femminile” e “giudaismo” nella filosofia di Levinas, nonché del modo di approcciarsi al testo biblico che il filosofo ha fatto proprio, nel prossimo paragrafo, cercando di concentrarmi adesso sulla possibilità che i termini “figlio” e “padre” abbiano un’estensione più ampia di quanto non si possa pensare ad una prima lettura.
In effetti, pur non contestando l’ispirazione ebraica delle immagini della comunità del padre e della fraternità come legame di parentela per eccellenza dell’umanità che Chanter riconosce, ritengo che il rapporto tra giudaismo e filosofia in Levinas non sia da interpretare in senso estremo, nella misura in cui certamente l’ebraismo rimane un orizzonte di significati sempre presente nel pensiero del filosofo. Tuttavia, questo rapporto non deve essere assunto come se Levinas si limitasse a trarre dei concetti dal giudaismo applicandoli rigidamente e senza problematizzarli. Ritengo sia preferibile parlare di ispirazioni, di spunti che possono fungere da motivo d’indagine e assumere una portata più ampia rispetto alla loro origine, offrendo sensi nuovi al discorso filosofico.
Da questo punto di vista, non è plausibile sostenere, relativamente al discorso sulla fecondità e al rapporto con il figlio che Levinas interpreti in senso rigido un certo orientamento “maschilista” dell’ebraismo e intenda escludere le donne dalla prospettiva della giustizia. Come si è già visto, fecondità e paternità non sono per Levinas delle categorie biologiche, ma vanno interpretate in senso metaforico come condizione di possibilità di orizzonti “al di là del possibile” per il soggetto. In effetti, se si riconoscesse il solo valore biologico alla paternità, ci si troverebbe di fronte a diversi problemi come il dover ammettere che per Levinas chi non ha o non può avere dei figli non ha un avvenire positivo. Inoltre, se il padre e il figlio fossero solo individui di sesso maschile, le madri e le figlie non farebbero parte della comunità umana.
Tuttavia, ci sono elementi che suggeriscono la possibilità di distanziarsi da questi timori. Di fronte alla domanda di Nemo circa lo statuto della paternità, Levinas non sostiene del concetto né un’interpretazione biologica né una considerazione in termini di mero “sconvolgimento psicologico”, ritenendo che il suo vero significato risieda nella possibilità di evadere «dalla chiusura della propria identità e da ciò che è assegnato verso qualcosa che non è assegnato ma che comunque è proprio […]. Chi non ha figli non deve leggervi una qualche forma di disprezzo: la filialità biologica è solo la prima figura della filialità»[142]
Levinas riconosce che le metafore tratte dalle relazioni familiari indicano legami umani più che esclusivamente biologici, rapporti fra persone che si situano in una dimensione “al di là del possibile”[143].
Proprio a partire da queste considerazione, non credo si possa risolvere il problema dell’elezione delle figlie come fa Oliver, sottolineando che se una certa “maschilità” è innegabilmente implicata nell’immagine del figlio, «as it is masculine, it is limited. Insofar as it is limited, it is not open to radical alterity. And, insofar as it is not open to radical alterity, the future is finite and must come to an end. If there are no daughters, then there will be no more sons»[144]. Non si tratta di porre l’accento sul fatto che se non ci fossero le donne (madri, figlie e sorelle) non si darebbe biologicamente la transustanziazione del padre nel figlio. Ciò implicherebbe, tra l’altro, una sovrapposizione fra “donna” e “femminile” che, come accennavo in precedenza, è tutt’altro che facile.
La questione rientra all’interno del più ampio tentativo levinassiano di rileggere l’uso tradizionale dei termini “maschile” e “femminile” che, naturalmente, coinvolge anche concetti correlati come “padre”, “figlio” e “fecondità” che hanno una portata maggiore rispetto ad un’identificazione con un genere o con l’altro. D’altronde, Levinas stesso in un’intervista riconosce che anche le figlie possono realizzare la transustanziazione[145]. Se Levinas autorizza a parlare di “figlia” quanto di “figlio”, credo che si possa anche parlare di “madre” allo stesso titolo che di “padre” perché l’io levinassiano non è esplicitamente legato ad un solo genere sessuale, tanto più che quando parla della corporeità Levinas lo fa sempre in termini di evento della soggettività senza riferirsi univocamente ad un sesso o all’altro. La virilità e l’eroismo della volontà del soggetto sono espressioni che si riferiscono al modo in cui l’io è stato concettualizzato tradizionalmente, in termini di potere, pensiero e attività, modo dal quale peraltro Levinas vuole prendere le distanze.
Paradossalmente, come fa notare Stella Sandford[146], è proprio in questo momento che è possibile leggere in senso non strettamente letterale le immagini usate da Levinas e che si possono “sostituire” ai termini padre e figlio quelli di madre e figlia senza snaturare il discorso del filosofo.
Inoltre, paradossalmente sarà proprio quando il concetto di “maternità” prenderà il posto della “paternità” che la metafora, pur avendo un senso figurato, trarrà maggiore ispirazione da un evento biologico avente un legame con un genere sessuale .
Alla luce delle precedenti considerazioni, ritengo non sia possibile asserire che le donne siano escluse dalla fecondità e che le figlie, mai elette, siano destinate ad avere un padre “assente”[147]. Anche le figlie sono sorelle ed eguali e, dunque, possono far parte della “comunità del padre” che è la comunità della giustizia nella quale si è sempre di fronte a dei Volti «per servirli e perché nessuno può sostituirsi ad esso [all’io] per misurare l’estensione delle sue responsabilità»[148].
2.4. Levinas, il femminile e il giudaismo.
Il femminile è un concetto complesso, che ha subito nel corso dell’evoluzione del pensiero di Levinas un cambiamento notevole ed è stato approfondito da diversi punti di vista, intrecciando piani d’indagine, stili e linguaggi diversi. Basti ricordare brevemente quanto è emerso seguendo lo sviluppo del concetto fino a questo momento, ovvero la sua presenza collocata in orizzonti anche molto diversi fra loro, ma in continuo dialogo senza poter stabilire dei confini netti fra l’uno e l’altro: riflessioni letterarie, tentativi di romanzi, appunti, trascrizioni di conferenze ed opere filosofiche più o meno “sistematiche”, applicando questo termine con delle cautele visto il pensiero così vario come stile e ispirazione qual è quello di Levinas.
Nelle opere filosofiche di questo periodo si evince ancora più di prima questa commistione di fonti, allorché nelle riflessioni dedicate al femminile si intrecciano anche metafore che, come ho anticipato in parte negli scorsi paragrafi, sono tratte dall’orizzonte ebraico e si ritrovano esplicitamente in un articolo del 1960, quindi quasi coevo alla pubblicazione di Totalità e Infinito, dal titolo Le judaisme et le féminin. Levinas ritornerà anche diversi anni dopo sul femminile nel giudaismo in due letture talmudiche del 1973, delle quali parlerò nel prossimo capitolo alla luce del fatto che in quegli anni il pensiero del filosofo si è rivolto all’ “Altrimenti che essere” e, quindi, ad un orizzonte diverso rispetto a quello nel quale si inseriscono ancora le sue riflessioni all’inizio degli anni Sessanta. Prima di soffermarmi sul contenuto dell’articolo del 1960 risulta necessario inquadrare brevemente il giudaismo al quale Levinas si ispira. Infatti, “ebraismo” è una categoria troppo generale che, senza ulteriori specificazioni, non rende conto del particolare tipo di approccio di Levinas al testo biblico e alla cultura giudaica.
È quindi opportuno fare un passo indietro e ritornare alla formazione di Levinas che, come dicevo nel primo capitolo, ha risentito di influenze filosofiche, letterarie ma, ancor prima, ebraiche. La provenienza lituana del pensatore è un’indicazione importante dalla quale partire perché, come fa notare Malka, se ci si appresta a diventare Emmanuel Levinas non ci può essere luogo migliore nel quale nascere che Kaunas[149].
Levinas, diversamente da altri pensatori di origine ebraica, per esempio Rosenzweig o Jankélévitch, non ha riscoperto in età adulta le proprie origini perché è stato educato sin dall’infanzia secondo la tradizione. L’ebraismo lituano non aveva subito il processo di assimilazione, ma era rimasto saldo nella propria identità, la quale risultava comunque molto variegata. Infatti, non esisteva un unico ebraismo lituano, ma questa categoria era internamente molto sfaccettata e caratterizzata da una serie di tendenze diverse e contrastanti. Era molto presente a Kaunas e nella vicina città di Vilnius un forte ebraismo ortodosso (ashkenazita) e incentrato sul rigore dell’esegesi biblica, ma anche molti fedeli all’haskalà, l’Illuminismo ebraico al quale nel XVIII secolo Moses Mendelsshon aveva dato vita. Inoltre si realizzarono frizioni anche fra sionisti (che propendevano per una rifondazione dell’identità ebraica a partire dalla nascita di uno stato nazionale in Israele), bundisti (da Bund, il movimento operaio nato a Kaunas, che era favorevole ad un avvicinamento dell’ebraismo alle idee socialiste) e folkisti (che intendevano difendere l’autonomia culturale dell’ebraismo). A queste tendenze si aggiungevano anche gruppi di hassidim, il movimento fondato dal “Baal Shem Tov” (maestro del nome buono) Israel Ben Eliezer nel XVIII secolo e caratterizzato da un fervente culto improntato sulla mistica e l’emozione[150].
Parlando della successiva direzione da parte del filosofo della Scuola Normale Israelita Orientale, Malka inquadra Levinas come un ashkenazita in mezzo a sefarditi[151], riportando anche una testimonianza significativa di un professore della scuola, Émille Amzallag[152], secondo il quale l’importanza dei rituali era per Levinas secondaria. Vi partecipava sempre puntualmente ma, leggendo la Bibbia e il Talmud, dava l’impressione di amare il sapere molto più della pratica religiosa. Sebbene Amzallag avesse aggiunto che poteva trattarsi di un’impressione personale, la sua non è una considerazione lontana dal cogliere lo spirito dell’ebraismo al quale Levinas aderisce, estraneo alle tendenze mistiche ed improntato sul rigore intellettuale di influenza rabbinica, sullo studio della Bibbia e, soprattutto, dei commenti del Talmud.
La lettura della Bibbia è stata iniziata molto presto da Levinas, prima dei classici della letteratura russa mentre si è dedicato più puntualmente all’esegesi talmudica abbastanza tardi grazie all’incontro a Parigi con maestro dalla fisionomia piuttosto sfuggente, uno strano personaggio che si faceva chiamare Mordechai Chouchani e con il quale Levinas ha studiato ininterrottamente per tre anni. La vita di questo personaggio è circondata dal mistero poiché ha vissuto senza dimora fissa, spostandosi da una città all’altra ed impartendo lezioni talmudiche in cambio di vitto e alloggio. Di lui non è mai stata conosciuta né la sua origine né quale fosse il suo vero nome[153]. Tuttavia, aveva molte conoscenze e, come Levinas ammette: «ha mostrato di che sia capace, qui, il vero metodo. Per noi, egli ha reso per sempre impossibile un accesso dogmatico, puramente fideistico, o anche teologico, al Talmùd»[154].
È precisamente questo approccio che Levinas fa proprio, riconoscendo che uno dei maggiori tratti di originalità dell’ebraismo è la possibilità di commento offerta dalla letteratura talmudica, una tradizione che non si distingue per essere un semplice prolungamento della Bibbia, ma piuttosto una possibilità di interrogare il testo in direzione della scoperta di significati ulteriori. Infatti, ricorda Levinas, è curioso che i talmudisti si chiamino Chakhamìm e indichino i filosofi greci come Chakmê Javàn perché i commenti del Talmud usano un tipo di approccio al testo con un andamento particolare, “oceanico”, incessante di andata e ritorno, un’esegesi senza fine[155]. Ciò non significa attribuire “arbitrariamente” al testo dei significati senza alcun rigore, ma esattamente il contrario. Infatti, le scritture sono sacre proprio perché le lettere non vengono mai congedate, sono sempre “significanti” e i talmudisti compiono un’opera continua che consiste nel risvegliare a partire dalle lettere nuove possibilità interpretative. È un lavoro che non si realizza in solitudine, ma accogliendo strati di significati indagati in passato e costantemente interrogati di nuovo[156].
Tuttavia, Levinas inaugura anche una modalità di lettura del testo propria, in parte diversa da quella tradizionale, nella misura in cui, come dicevo nel paragrafo precedente, cerca nell’ebraismo delle verità etiche. Il filosofo attua una “desacralizzazione” di questi testi e, in questo senso può essere definito come un talmudista filosofo proprio perché, pur non dimenticando mai il significato religioso, indaga i testi alla ricerca dei problemi fondamentali dell’uomo[157]. In questo senso per Levinas l’ebraismo può fornire un’ispirazione al discorso filosofico, trattandosi di due tradizioni diverse che, tuttavia, non sono in contrasto fra loro. Infatti, è necessario usare la lingua della tradizione filosofica occidentale, ma anche tornare al senso pre-filosofico, quel punto a partire dal quale il pensiero può iniziare: «il pensiero filosofico riposa sempre su esperienze pre-filosofiche, e nel mio caso la lettura della Bibbia è rientrata tra queste esperienze fondanti»[158].
Credo che alla luce di queste considerazioni si possa sostenere, come anticipavo nello scorso paragrafo, che Levinas non assuma in modo rigido delle categorie dall’ebraismo per poi tradurle in linguaggio filosofico. Si tratta non un’obbedienza ma di un’ermeneutica[159] come il filosofo riconosce apertamente. Se, dunque, il giudaismo fornisce indubbiamente importanti elementi alla visione levinassiana del femminile, non si può tuttavia parlare così semplicemente di un’adesione al maschilismo patriarcale e di una fede cieca nella lettera dei testi biblici. Piuttosto, Levinas considera l’ebraismo come un orizzonte di ispirazione, la cui importanza risiede nella offerta di significati etici.
Alla luce di queste necessarie premesse, è adesso possibile analizzare più nel dettaglio il rapporto tra giudaismo e femminile affrontato da Levinas nell’articolo del 1960 cercando di cogliere gli elementi dell’ebraismo ai quali il filosofo si è ispirato e che hanno influenzato la fisionomia del femminile e le tematiche ad esso affini emerse nelle opere filosofiche del periodo.
Levinas inquadra il problema del femminile nell’ebraismo a partire dalle grandi figure dell’Antico Testamento: Sara, Lea, Rebecca, Myriam, Betsabea, Abigail ecc. Si tratta di donne che, come riconosce Levinas, non sono affatto sottomesse all’arbitrio maschile come avviene nel mondo Orientale ma, anzi, giocano un ruolo attivo e di fondamentale importanza nella storia sacra tanto da poter dire che senza di loro le vicende si sarebbero svolte molto diversamente.
Il modo in cui Levinas conduce la descrizione si realizza a partire dalla considerazione del femminile come un “paradigma morale”, una categoria ontologica che viene riconosciuta essere la possibilità di fondare la dimensione interiore che sola rende possibile la vita pubblica dell’uomo.
La caratteristica fondamentale di tutte queste figure è una presenza segreta, evanescente, dai passi silenziosi capace di costituire la dimensione dell’interiorità e rendere il mondo abitabile: «La Maison, c’est la femme, nous dira le Talmud»[160].
Infatti, la solitudine iniziale dell’uomo è condizione di spaesamento nel mondo che risulta vuoto e freddo come gli interstizi dell’essere che Levinas richiama in Totalità e Infinito[161]. Un mondo del genere è del tutto inabitabile. Ciò che la donna realizza è proprio una défaillance, un “cedimento” attraverso la dolcezza che le consente di illuminare gli occhi dell’uomo e rimetterlo in piedi[162]. La donna risponde alla solitudine dell’uomo, una solitudine ed alienazione che persiste nonostante la presenza di Dio. La solitudine, qui definita come l’essenza maschile dello spirito[163], è una condizione di estraneità sulla terra e solo la Dimora, costituita a partire dalla donna, rende possibile l’intimità, il raccoglimento ed il ritorno in sé necessari perché il grano diventi pane e il lino abito[164]. Il mondo, a partire dall’intimità, non è più ostile all’uomo e questo grazie al fenomeno originario della dolcezza: «le féminin en était la manifestation originelle, le doux en soi, l’origine de toute la douceur de la terre»[165].
È più che evidente che proprio queste immagini offrono a Levinas un’importante fonte di ispirazione per delineare il ruolo del femminile come “accoglienza per eccellenza” nella Dimora nella seconda sezione di Totalità e Infinito.
Relativamente a queste prime indicazioni, sembra che il femminile si sovrapponga totalmente alla donna. Levinas, dopo aver nominato importanti personaggi biblici come Sara, Lea e Rachele parla infatti di “femme”, “fiancée”, “lien conjugal”, peraltro associando al femminile termini come discrezione e dolcezza e indicandolo come il genio del focolare secondo il libro dei Proverbi[166]. Tenendo conto che si tratta di elementi che hanno ispirato le riflessioni di Totalità e Infinito potrebbe risultare apparentemente giustificato il timore di essere di fronte ad uno stereotipo maschilista supportato dalla visione ebraica tradizionale della donna. Tuttavia, come fa notare Cafelato, questa visione apparentemente tradizionalista è usata in modo funzionale da Levinas. Infatti:
la Donna, nel suo richiamare alla Dimora, mostra l’inabilità di un mondo in cui la cultura si è costituita con un gesto crudele, […] l’impersonalità, la violenza. Per l’ebraismo la donna, dice Levinas, risponde alla solitudine interiore dell’uomo – solitudine che permane malgrado la presenza di Dio –, richiama al ritorno a sé, all’interiorità. Anche questo richiamare all’interiorità attraverso l’esteriorità di quella che potremmo definire l’ “altra totale” è un processo che sconvolge valori e dati stereotipati pur attraversandoli, facendoli saltare mentre si percorrono[167].
Levinas fornisce, infatti, importanti indicazioni sul modo di intendere il “maschile” e il “femminile” che sembrerebbero andare già al di là del semplice discorso relativo alla differenza di genere. A tal proposito, il pensatore ricorda che il nome Adamo è stato imposto all’uomo e alla donna insieme come se fossero due elementi di un’unica realtà.
Anzi, proprio questa unicità originaria dell’umano si riflette sul diritto perché nel giudaismo la donna è un essere umano del quale la “feminité” è solo una caratteristica, non l’essenza, allorché le istituzioni le riconoscono la condizione di essere morale. Particolarmente significativo è il trattamento della donna che si sospetta essere adultera nel Libro dei Numeri. La sua persona viene totalmente rispettata lasciando che il giudizio avvenga alla presenza dei preti, del potere pubblico e non nel privato, dove sarebbe sottomessa alla gelosia del marito[168]. La “presenza del Terzo” è qui particolarmente significativa e permette di dare ulteriori elementi a sostegno della questione emersa precedentemente parlando della giustizia e della possibilità che le donne, tanto quanto gli uomini, potessero far parte della “comunità del padre”.
La donna, riconosce Levinas, ha un’essenza umana come evidente dai nomi con i quali l’uomo e la donna sono indicati nella Bibbia e che esprimono il mistero della creazione e una derivazione quasi grammaticale della donna dall’uomo: Ich e Icha indicano non la differenza biologica fra i sessi ma il maschile e il femminile in Adamo stesso, due aspetti della stessa creatura che hanno avuto vita mediante due atti di creazione diversi. Inoltre, precisa Levinas, Eva è interlocutore di Dio e non perderà più lo statuto di persona che significa incontrare faccia a faccia il proprio compagno[169]. Sono tutti elementi che possono rafforzare l’idea che Levinas non intendesse affatto privare la donna di un Volto, nonostante alcune ambiguità nelle descrizioni della Dimora e della Fenomenologia dell’Eros.
Ancora una volta, il rapporto fra persone viene affermato come prioritario rispetto a qualsiasi altro e con un esplicito riferimento ad un incontro fra Volti. Inoltre, Levinas rivendica l’assoluta “originalità” del femminile in rapporto al principio “femmina”[170] come a sottolineare la presa di distanza dal mero significato biologico del termine. Eva, infatti, appare ad Adamo dopo che egli ha nominato tutti gli animali e non per rispondere ad un suo bisogno biologico ma su un piano sociale, che fa sì che uomo e donna non si rapportino tra loro perché manchevoli di qualcosa ma come due esseri completi: sono termini analoghi a quelli con i quali Levinas, a più riprese, parla del Desiderio metafisico di Altri e, a conferma di ciò, può descrivere il loro rapporto come complementarità fra due totalità, «merveille des relations sociales»[171].
A rafforzare l’idea dell’esistenza di una umanità alla quale sia l’uomo che la donna partecipano Levinas invoca un tema di discussione importante fra i dottori del Talmud, secondo cui è significativo che Eva sia stata tratta dalla costola di Adamo. Levinas gioca sulla grafia del termine “costola” ritenendo che si parli un “còté”, che significa “lato”, “aspetto” e non una “côte”, la costola come parte del corpo fisico di Adamo. Da questo punto di vista, il femminile non sarebbe che uno dei due volti del medesimo androgino originario, immagine che Levinas riconosce poter essere stata tratta da Simposio platonico e che ritorna in Totalità e Infinito per indicare che l’amore, quando si realizza come godimento, ricerca un essere connaturale e realizza una sorta di incesto. Infatti, può dire Levinas, l’esistenza separata dei due nell’ebraismo vale molto più dell’iniziale unione mentre per Platone significa una punizione divina.
A partire dall’unità originaria, la separazione realizza uomo e donna come identici per natura e questo è ben espresso nella frase “Carne della mia carne e ossa delle mie ossa”. I due sono pari per dignità e la differenza sessuale è del tutto subordinata al rapporto fra persone che rappresenta l’uguaglianza in se stessa ed è una verità molto più originaria delle lotte moderne per l’emancipazione delle donne[172].
Inoltre, il rapporto amoroso ha un destino a venire che evade dalla gioia della vita familiare[173]. Anche in questa sede Levinas pone l’accento sul prolungamento dell’Eros nell’avvenire della fecondità, con una precisazione interessante e ulteriore rispetto alle considerazioni che si trovano nelle opere filosofiche del periodo. Infatti, egli fa notare come il rapporto amoroso abbia importanza in sé e non solo in vista della procreazione. Tuttavia, il suo significato autentico di gioia nel presente è rappresentato dalla partecipazione di quest’ultimo all’avvenire. Ciò è ben esemplificato dalla nascita dei primi figli, Caino e Abele che sono stati concepiti in Paradiso, insieme alle loro spose, lo stesso giorno della creazione di Adamo ed Eva e molto prima del peccato originale. Questo evento ha separato la voluttà dalla procreazione, realtà che prima avvenivano insieme e realizzavano simultaneamente la gioia presente e l’avvenire, mentre adesso questi momenti si susseguono nel tempo[174].
Levinas presenta le stesse idee che poi ritornano anche nella Fenomenologia dell’Eros, ovvero che il significato autentico dell’amore non è il godimento presente fine a se stesso. Infatti, il significato romanesque dell’amore senza “intenzionalità” (il movimento del “tendre” che la carezza realizza, tendendo verso il non ancora dell’avvenire) non è contemplato dal giudaismo. Neanche l’ “Eterno femminino” di Dante e Goethe è presente nel pensiero ebraico in quanto l’intimità aperta dal femminile non si colloca nella dimensione dell’altezza, anche questo elemento che si è visto essere centrale nelle descrizioni della Dimora relativamente alla simmetria della posizione del compagno dell’abitazione.
Inoltre, sottolinea Levinas, l’amore nel giudaismo è descritto sempre come apertura alla prospettiva messianica: «de l’imminence d’Israel, de l’humanité reflétant l’image de Dieu qu’elle peut porter sur son visage»[175]. Questa indicazione relativa al messianismo e all’avvento di Israele, secondo Kats, è particolarmente significativa perché spiega pienamente il fascino che la fecondità ed il rapporto con il figlio hanno agli occhi di Levinas:
There is a sense in which Levinas sees the birth of each child as the birth of another member of Israel. He characterizes the birth of a child as that which signifies a projection toward the future in terms of messianism—that is, Israel. It signifies fulfilling a commandment that is older than history itself[176].
Se si ritorna a considerare quanto si diceva nello scorso paragrafo, ovvero che l’ebraismo è apprezzato da Levinas in quanto offre delle categorie etiche e si considera anche che la paternità rende possibile un tempo infinito perché l’etica possa compiersi, si comprende perché il filosofo abbia potuto trarre dall’orizzonte messianico dell’ebraismo la metafora della fecondità ed estenderla all’umanità intera. Tuttavia, relativamente alla fecondità, è presente un elemento ulteriore del femminile, anche se appena accennato in questo contesto: la maternità. Infatti, scrive Levinas, senza la donna l’immagine di Dio nel mondo sarebbe diminuita. Dunque, la maternità va pensata in relazione al compito di moltiplicazione dell’immagine di Dio (nei Volti degli uomini): tale considerazione può essere rapportata all’idea che dell’Eros sia evasione dal presente della persona amata e tensione al futuro, movimento che garantisce all’etica un tempo infinito.
È significativo, come si vedrà nel prossimo capitolo, che negli anni Settanta proprio la metafora della maternità verrà ripresa ed assumerà un ruolo di fondamentale importanza per descrivere la soggettività etica.
Occorre, adesso, sottolineare un ultimo elemento del femminile presente nel saggio sul giudaismo e poi riproposto anche nella descrizione fenomenologica dell’eros: la sua equivocità. Levinas ritiene che il femminile sia ambiguo e ambivalente e la donna è presentata come impudica fino al mignolo, esibizione e impurità. Proprio per questo alcuni commenti talmudici vogliono che Satana sia stato creato insieme alla Femme. Dal giorno della sua creazione, quindi molto prima del peccato originale, l’uomo sarebbe stato votato alla morte[177]. Si tratta, analogamente alle descrizioni dell’erotico contenute nelle opere filosofiche del periodo, di immagini che potrebbero far pensare ad un’ingiusta severità nei confronti delle donne.
Sembrerebbe un’ipotesi avvalorata dal fatto che Levinas conclude l’articolo ricordando che per il popolo ebraico il precursore del Messia non è una donna, una madre, una sorella, ma il profeta Elia che è sfuggito alla morte. Tuttavia, mi sembra importante sottolineare alcuni elementi dell’immagine “tradizionale” di Elia: «prophète sans pardon, le prophète des colères et des chatiments, nourrison des corbeaux, habitant des déserts, sans doucer, sans bohneur et sans paix»[178]. Sono termini ricorrenti e importanti nel pensiero levinassiano di questo periodo. Il perdono in quanto nuovo inizio, come si è visto, è l’essenza più profonda del tempo. La dolcezza è il modo originario di Altri che rende possibile l’intimità, condizione fondamentale dell’accoglienza. La pace è concepita come evasione dalla storia e come rapporto autentico con il Trascendente quale si realizza nella relazione etica. Senza considerare che Elia abita i deserti, espressione che può risultare problematica se riportata all’analisi levinassiana del dimorare: abitare non è collocarsi nel vuoto degli interstizi dell’essere[179], è solitudine ma già in intimità con qualcuno.
Mi sembra significativo, inoltre, che Levinas associ allo spirito viril, surhuman e solitaire questa descrizione “severa” di Elia ritenendo che le opinioni eccessive siano una tentazione sempre presente nell’anima ebraica[180]. Forse, richiamare il fatto che Elia e non una figura femminile sia il precursore del Messia nell’ebraismo può riportare all’irrisolto quesito finale di Totalità e Infinito, ovvero il riferimento all’eternità che premunisce per sempre dal ritorno del male e che il tempo infinito della fecondità non riesce a impedire, un problema che Levinas dichiara come al di là dei limiti del libro[181].
Tuttavia, ancora più interessante è la visione di Elia che Levinas sostituisce alla concezione “eccessiva” prima richiamata:
mais la figure biblique qui hante Israel sur le routes de l’exil, la figure qu’il invoque à l’issue du Sabbath dans les crépuscules où bientôt il restera sans secours, la figure où s’amasse pour le juif toute la tendresse de la terre, la main qui caresse ses enfants et le berce – ne sont plus féminines. Nu une femme, ni un soeur, ni une mére le guident. Mais Elie qui n’a pas eu de mort, le plus dur des prophètes, précurseir du Messie[182].
Non sono mani di donna quelle che accarezzano e cullano Israele, ma la descrizione di Levinas non basta neanche a rendere Elia “il più duro dei profeti”. Al contrario, sembra ancora rievocare tratti molto più femminili di quanto alcune frasi lascino intendere.
[1] A. Peperzak, To the Other. An Introduction to the Philosophy of Emmanuel Levinas, Purdue University Press, West Lafayette 1993, p. 121.
[2] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 19. Il corsivo è mio.
[3] Cfr. Ibidem.
[4] Cfr. Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. Ivi, p. 20.
[7] Cfr. Ibidem.
[8] Cfr. Ivi, p. 53.
[9] Cfr. Ibidem.
[10] Cfr. Ivi, p. 26.
[11] F. P. Ciglia, Franz Rosenzweig, in A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, op. cit., p. 80.
[12] Cfr. E. Levinas, Entre deux mondes (La voie de Franz Rosenzweig) [1959], in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaïsme [1963], Albin Michel, Parigi 1976, pp. 240-241.
[13] Ivi, pp. 238-239.
[14] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 124-125.
[15] Ivi, p. 40.
[16] E. Levinas, Il volere [1955], in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 221. La sottolineatura è di Levinas.
[17] Cfr. E. Levinas, L’ontologia è davvero fondamentale? [1951] in E. Levinas, Nomi propri, op. cit., pp. 163-173.
[18] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 27.
[19] Ivi, p. 31.
[20] La frase di Rimbaud è “Quelle vie! La vraie vie est absente. Nous ne sommes pas au monde”, tratta dal primo dei Deliri di Une saison en enfer dal titolo Vierge Folle (Cfr. A. Rimbaud, Poésies, Une saison en enfer, Illuminations, Gallimard, Parigi 1984, p. 135). L’eliminazione del “ne… pas” da parte di Levinas, in realtà, ribalta il senso originario della frase di Rimbaud ed è funzionale all’espressione del concetto secondo la quale il movimento metafisico ci conduce al di là del mondo.
[21] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 32.
[22] Cfr. Ivi, p. 24.
[23] E. Levinas, Il volere, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 222.
[24] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 25.
[25] Cfr. Ivi, p. 64.
[26] Ivi, p. 73.
[27] Cfr. E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., pp. 89-90.
[28] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 251.
[29] Ivi, p. 204.
[30] L’intervista fu realizzata da France Guwy per la televisione neerlandese nel 1986 ed è riportata da Joëlle Hansel in L’asimmetria del volto. Un’intervista in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» [consultato il 14 Maggio 2017], https://mondodomani.org/dialegesthai/el01.htm.
[31] Cfr. E. Levinas, Lo scritto e l’orale [1952], p. 204. Il foglio 40 degli appunti, che contiene questo riferimento ed il successivo, è scritto su un supporto cartaceo che permetterebbe di datarlo al 1960.
[32] Cfr. Ivi, pp. 213-214.
[33] Cfr. E. Levinas, Une religion d’adultes [1957], in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 24.
[34] E. Levinas, La separazione [1957], in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 257
[35] Ivi, p. 259.
[36] Cfr. Ivi, p. 257.
[37] Ivi, p. 261.
[38] Cfr. F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 2011, p. 157.
[39] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 110.
[40] Cfr. E. Levinas, La separazione, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 261.
[41] Cfr. Ivi, p. 263.
[42] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 133-135.
[43] Ivi, p. 151.
[44] Cfr. Ivi, p. 162.
[45] E. Levinas, Raccolta C, in E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, op. cit., pp. 448-449. Si tratta di un appunto scritto su un invito datato 1960.
[46] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 61.
[47] Cfr. Ivi, p. 152.
[48] S. Petrosino, La verità nomade: introduzione a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1979, p. 29.
[49] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 152.
[50] Ivi, , p. 157.
[51] Ivi, p. 152.
[52] Cfr. Voce “Ecumene”, in Garzanti Linguistica online [consultato il 23 Marzo 2017], http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=ecumene.
[53] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, p. 158.
[54] Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas [1997], trad. it. di M. Odorici e S. Petrosino, Jaca Book, Milano 2011, p. 98.
[55] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 152-158.
[56] Ivi, p. 158.
[57] Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, op. cit., p. 99.
[58] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 158.
[59] Ibidem. Il corsivo è mio.
[60] T. Chanter, Feminism and the Other, in R. Bernasconi e D. Wood (a cura di), The provocation of Levinas. Rethinking the Other, Routledge, Londra & NewYork 1988, pp. 41-42. Il corsivo e le sottolineature sono mie.
[61] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 153.
[62] Cfr. G. Salmeri, L’altro e a misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, op. cit.
[63] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 159.
[64] Cfr. Ibidem.
[65] Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, op. cit., pp. 104-105.
[66] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 153.
[67] Cfr. O. Ombrosi, L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, Marietti, Genova e Milano 2010, p. 109.
[68] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 159.
[69] G. Salmeri, L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, op. cit.
[70] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, p. 161.
[71] Cfr. M. Buber, Io e Tu [1923], in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Milano 2003, p. 62.
[72] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 158. La sottolineatura è mia.
[73] S. Sandford, The Metaphysics of Love. Gender and Transcendence in Levinas, op. cit., p. 47.
[74] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 26.
[75] Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, op. cit., p. 106.
[76] Cfr. Ibidem.
[77] E. Levinas, Parola e silenzio, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 88.
[78] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 229.
[79] Cfr. E. Levinas, Al di là del possibile [1959], in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 289.
[80] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 251.
[81] Cfr. E. Levinas, Al di là del possibile, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., pp. 283-284.
[82] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 32.
[83] Cfr. M. di Bernardo, Emmanuel Levinas: la metamorfosi del femminile come via che conduce all’«altrimenti che essere»?, op. cit.
[84] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 263.
[85] Cfr. Cantico dei Cantici, a cura di G. Garbini, Paideia, Brescia 1992, p. 251. La frase è “Chi è questa che si affaccia come l’aurora/bella come la luna/pura come il sole?”. Per approfondire il significato dei riferimenti al Cantico dei Cantici in Rosenzweig si rimanda a F. Rosenzweig, La stella della redenzione [1921], trad. it. di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, in particolare pp. 167-175. Si rimanda, infine, a T. Bettini, Amore e rivelazione in Franz Rosenzweig, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» [consultato il 30 Maggio 2017], https://mondodomani.org/dialegesthai/tb01.htm.
[86] C. E. Kats, Levinas, Judaism, and the Feminine. The silent footsteps of Rebecca, Indiana University Press, Bloomington 2003, p. 82.
[87] Cfr. E. Levinas, Al di là del possibile, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 297.
[88] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 263.
[89] Ivi, p. 219. L’aggiunta fra parentesi è mia.
[90] Cfr. Ivi, p. 263.
[91] Cfr. Ibidem, nota 1.
[92] Cfr. Ivi, p. 266.
[93] Cfr. Ivi, p. 264.
[94] Ivi, p. 73.
[95] Cfr. Ivi, p. 270.
[96] Cfr. Ibidem.
[97] O. Ombrosi, L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, op. cit., p. 147.
[98] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 270-271.
[99] Le critiche a questo proposito sono state moltissime. Sottolineo, a titolo esemplificativo, le considerazioni di Donna Brody in D. Brody, Levinas’s Maternal Method from “Time and the Other” Through Otherwise Than Being: No Woman’s Land?, in T. Chanter, (a cura di), Feminist interpretations of Emmanuel Levinas, The Pennsylvania State University Press, University Park 2001, in particolare pp. 64-65. Brody ritiene che Levinas abbia preso in prestito e raddoppiato lo stereotipo socio-culturale del femminile. A suo avviso la donna, privata del Volto, sarebbe solo il tramite affinché il soggetto maschile possa entrare nella dimensione del linguaggio e del volto.
[100] Cfr. F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, op. cit., p. 189.
[101] E. Levinas, Notes philosophiques sur éros, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), op. cit., p. 178.
[102] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 265-266.
[103] Cfr. Ivi, p. 261. Per approfondire il ruolo dell’Eros in Platone e le tracce che ha lasciato nella filosofia dell’amore di Levinas si rimanda a T. Staehler, Plato and Levinas. The ambiguous out-side of ethics, Routledge, Londra & New York 2009.
[104] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 74.
[105] Cfr. Ivi, p. 218.
[106] Cfr. Ivi, pp. 279-280.
[107] Ivi, pp. 266-267.
[108] Cfr. O. Ombrosi, L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, op. cit., p. 148.
[109] L. Irigaray, Fecondità della carezza. Lettura di Lévinas, Totalità e Infinito,“Fenomenologia dell’eros” in L. Irigaray, Etica della differenza sessuale [1982], Feltrinelli, Milano 1990, p. 150.
[110] M. Adamiak, The Grey Zone of Subjectivity. Phenomenology of the feminine body in Emmanuel Levinas’s thought, in «Avant», VI/1 (2015), p. 83.
[111] Cfr. Ivi, p. 84.
[112] F. D. Sebbah, Levinas: Father/Mother/Son/Daughter, in «Studia phaenomenologyca. Romanian journal for phenomenology», VI (2006), p. 271.
[113] A tal proposito, Anna Maria Verna accetta la sovrapposizione dei due concetti ritenendo che il Volto della trattazione generale sia neutro o maschile, mentre il ruolo del volto femminile sia quello di consentire all’essere umano di sesso maschile di ritrovarsi nel contesto della dimora senza che, però, nell’Eros le sia dovuto il rispetto che si realizza nell’incontro con il Volto. «Evanescente e materiale, la donna è sostanzialmente assenza nella dimora, nella voluttà» (A. M. Verna, Alterità. Le metamorfosi del femminile da Platone a Levinas, Giappichelli, Torino 1990, p. 216).
[114] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 276-277.
[115] Cfr. L. Irigaray, Fecondità della carezza. Lettura di Lévinas, Totalità e Infinito,“Fenomenologia dell’eros” in L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, op. cit., p. 154.
[116] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 275.
[117] A. Peperzak, To the Other. An Introduction to the Philosophy of Emmanuel Levinas, op. cit., p. 195. Le sottolineature sono mie.
[118] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 271.
[119] Cfr. M. Adamiak, The Grey Zone of Subjectivity. Phenomenology of the feminine body in Emmanuel Levinas’s thought, op. cit., pp. 86-87.
[120] M. Dubost, Féminin et phénoménalité selon Emmanuel Levinas, in «Les Études philosophiques» 3/78 (2006), p. 333.
[121] E. Levinas, Filosofia, giustizia e amore [1982], in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro [1991], trad. it. di. E. Baccarini, Jaca Book, Milano 2002, p. 148.
[122] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 266.
[123] Ivi, p. 276.
[124] Cfr. K. Oliver, Fatherhood and the promise of ethics, in C. E. Kats e L. Trout (a cura di), Emmanuel Levinas. Critical assessments of leading Philosophers (Vol. IV – Beyond Levinas), Routledge, Londra & New York 2005, pp. 313-314.
[125] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., pp. 248-249.
[126] Cfr. E. Levinas, Al di là del possibile, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 296.
[127] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 282.
[128] Cfr. Ivi, p. 276.
[129] Cfr. Ivi, p. 277.
[130] Cfr. E. Levinas, Filosofia, giustizia e amore, in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit., p. 142.
[131] Cfr. E. Levinas, L’io e la totalità [1954], in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit, p. 49.
[132] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 288.
[133] A queste spiegazioni di Casper fa rimento Nodari in F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, op. cit., p. 170.
[134] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 288.
[135] K. Oliver, Fatherhood and the promise of ethics, in C. E. Kats e L. Trout (a cura di), Emmanuel Levinas. Critical assessments of leading Philosophers (Vol. IV – Beyond Levinas), p. 314.
[136] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 219.
[137] Cfr. E. Levinas, L’io e la totalità, in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, op. cit., p. 50.
[138] E. Levinas, Laicità e pensiero giudaico [1960], in E. Levinas, Dall’altro all’io, trad. it. di J. Ponzio, Meltemi, Roma 2002, p. 93.
[139] Cfr. Ibidem.
[140] Ivi, p. 89.
[141] Cfr. T. Chanter, Ontological difference, sexual difference, and time, in C. E. Kats e L. Trout (a cura di), Emmanuel Levinas. Critical assessments of leading Philosophers (Vol. IV – Beyond Levinas), op. cit., p. 114.
[142] E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., p. 81.
[143] Cfr. Ibidem.
[144] K. Oliver, Paternal Election and the Absent Father, in T. Chanter, (a cura di), Feminist interpretations of Emmanuel Levinas, op. cit., p. 239.
[145] Stella Sandford riporta la frase di Levinas, “One must first of all insist on the very analysis of filiality, the fact that the son and the daughter too, is other and is still . . . me” in S. Sandford, The Metaphysics of Love. Gender and Transcendence in Levinas, op. cit., p. 68.
[146] Cfr. Ivi, p. 69.
[147] Cfr. K. Oliver, Paternal Election and the Absent Father, in T. Chanter, (a cura di), Feminist interpretations of Emmanuel Levinas, op. cit., p. 239.
[148] E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 289.
[149] Cfr. S. Malka, Emmanuel Levinas. La vita e la traccia, op. cit., p. 21.
[150] Cfr. Ivi, pp. 27-28.
[151] Cfri. Ivi, p. 98.
[152] Cfr. Ivi, p. 101.
[153] Cfr. Ivi, p. 155-157.
[154] E. Levinas, Quattro letture talmudiche [1968], trad. it. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 1982, p. 34.
[155] Cfr. Ibidem.
[156] Cfr. Ivi, pp. 33-34.
[157] Cfr. E Levinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, [1977], trad. it. di O. M. Nobile Ventura, Città nuova, Roma 1985, p. 10.
[158] E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., p. 51.
[159] Cfr. Ivi, p. 109.
[160] E. Levinas, Le judaisme et le féminin [1960], in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 52.
[161] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 157.
[162] Cfr. E. Levinas, Le judaisme et le féminin, in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 53.
[163] Cfr. Ibidem.
[164] Cfr. Ivi, p. 54.
[165] Ibidem.
[166] Cfr. Ivi, p. 52.
[167] P. Cafelato, Ebraismo e orizzonti del femminile, in «Idee», 9/10 (1988), p. 186.
[168] Cfr. E. Levinas, Le judaisme et le féminin, in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 55.
[169] Cfr. Ivi, p. 56.
[170] Cfr. Ibidem.
[171] Ibidem. La sottolineatura è mia.
[172] Cfr. Ivi, p. 57.
[173] Cfr. Ibidem.
[174] Cfr. Ivi, pp. 57-58.
[175] Ivi, p. 59.
[176] C. E. Kats, Levinas, Judaism and the feminine: the silent footsteps of Rebecca, op. cit., p. 88.
[177] Cfr. E. Levinas, Le judaisme et le féminin, in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 59.
[178] Ivi, p. 60. I corsivi sono miei.
[179] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 157.
[180] Cfr. E. Levinas, Le judaisme et le féminin, in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 60 .
[181] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 295.
[182] E. Levinas, Le judaisme et le féminin, in E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaisme, op. cit., p. 60.