Silvia Minniti
Università di Pisa – Dipartimento di Civiltà e forme del sapere – Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e forme del sapere – Relatore: Prof. Adriano Fabris – Anno Accademico 2016-2017
- CAPITOLO 1 – Le origini del femminile fra letteratura e filosofia
- CAPITOLO 2 – L’apogeo del femminile: filosofia ed ebraismo
- CAPITOLO 3 – Dall’alterità alla soggettività: un io “femminile”?
- Conclusioni – Bibliografia
Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore (Cantico dei Cantici)
Introduzione
Il termine “femminile” (ma lo stesso potrebbe dirsi per la sua controparte, il “maschile”) rimanda ad una pluralità di significati diversi. Questa gamma di sensi spazia da un contesto meramente biologico, nel quale l’aggettivo femminile costituisce un riferimento agli elementi distintivi degli organismi viventi di sesso femminile, ad un uso grammaticale. In questo secondo senso, il genere femminile, presente in molte lingue attuali, indica un gruppo di nomi e pronomi che non coincidono in senso assoluto con elementi di sesso femminile, comprendendo anche categorie di enti inanimati. Tuttavia, anche in questa seconda accezione, il femminile include in gran parte elementi sessualmente caratterizzati; basti pensare che una sottocategoria del genere grammaticale femminile comprende la maggior parte dei nomi degli esseri di sesso femminile[1].
Un terzo significato del femminile rimanda ad una dimensione culturale ed indica un insieme di caratteristiche e di atteggiamenti che, in un certo contesto sociale, costituiscono il particolare modo di essere della donna. Essere femminile, infatti, è un’espressione che si riferisce ad un’associazione, molto variabile, di tratti che costituiscono lo stereotipo socio-culturale della donna. Per esempio, se ci si rivolge alla cultura occidentale nelle sue molte manifestazioni (arte, poesia, narrativa, ecc.) i tratti riconosciuti al femminile sono caratteristiche quali la dolcezza, la maternità, ma anche l’erotismo e la sensualità, elementi che sono legati a figure di donna e che contribuiscono a consolidare nell’immaginario collettivo l’idea che il femminile sia attributo di un genere sessuale specifico.
Questo lavoro di tesi si rivolge ad un autore capace di dare più ampio respiro a questo concetto: Emmanuel Levinas.
Il filosofo ebraico-lituano è sicuramente fra i più influenti pensatori di lingua francese del Novecento ed è noto soprattutto per essere il “filosofo dell’alterità”[2]. Infatti, le sue riflessioni sin dalle prime opere sono incentrate sul tentativo fondamentale di rintracciare un rapporto autentico con l’altro che, diversamente dalla direzione principale del pensiero occidentale (essenzialmente dominato dalla centralità del soggetto conoscente), non si traduca in una forma di conoscenza o in una partecipazione dei soggetti coinvolti nella relazione ad un senso comune, modalità attraverso le quali l’alterità dell’altro viene inevitabilmente annullata. Rintracciare la fisionomia dell’altro in quanto altro è, sicuramente, uno degli elementi centrali del pensiero di Levinas. Il modo più noto del pensatore di affrontare il tema dell’alterità coinvolge termini come “Visage”, “epifania” ed “espressione”. Infatti, il tema della relazione etica come rapporto con altri che si mostrano nel loro Volto è il nucleo fondamentale del pensiero etico di Levinas.
Tuttavia, nonostante l’indubitabile importanza che questi elementi assumono nell’etica di Levinas, si tratta di elaborazioni più mature del pensiero del filosofo, le cui origini sono rintracciabili in forma embrionale intorno alla prima metà degli anni Cinquanta. Se ci si rivolge alle prime opere di Levinas, è significativo osservare come non sia il Visage a rappresentare la manifestazione privilegiata dell’alterità. Infatti, la differenza per eccellenza, l’altro in quanto altro e irriducibile all’orizzonte del soggetto, si mostra in un’altra modalità: il femminile. Non è l’etica, ma il rapporto erotico a costituire per Levinas la vera origine della società, quest’ultima intesa come relazione nella quale la differenza fra l’Io e l’Alterità risulta ineludibile.
Il mio interesse per il tema del femminile in Levinas nasce proprio dalla constatazione di questa “stranezza”. Ci si sarebbe attesi, leggendo la produzione filosofica, nonché letteraria di Levinas degli anni Quaranta e della prima metà degli anni Cinquanta, ulteriori sviluppi sul tema del “femminile” come modo privilegiato di Altri e sull’erotico come origine del sociale. Invece, come anticipavo, Levinas da un certo momento in avanti orienta il proprio pensiero verso una direzione più specificamente etica. Questo cambiamento fa sorgere, immediatamente alcune questioni fondamentali: perché Levinas indica originariamente il modo fondamentale dell’alterità come “femminile”? Il femminile si riferisce esclusivamente per il pensatore al modo d’essere della donna empirica? Come mai, ad un certo punto, la relazione per eccellenza fra esseri umani viene ripensata in termini etici? Che ruolo assume il femminile in questo cambiamento? Rimane un interesse costante nel pensiero di Levinas o viene semplicemente abbandonato e surclassato in modo graduale dalle ben più famose riflessioni del pensatore sul Volto e sulla relazione etica?
È a tali domande che questa tesi vuole cercare di dare risposta. Si tratta di interrogativi che possono, tuttavia, prendere forma all’interno di una questione più ampia, ovvero la fisionomia assunta dal femminile nel corso dello sviluppo del pensiero di Levinas, la cui ricostruzione è l’obiettivo principale di questo lavoro.
Il femminile è, sicuramente, uno degli elementi più controversi ed ambigui del pensiero di Levinas, nonché una tematica che risente della formazione culturale del pensatore, nella quale confluiscono orizzonti di ispirazione e stili di scrittura diversi che si intrecciano fra loro in modo complesso e non scevro da ambiguità. Appunti filosofici, commenti letterari, abbozzi di romanzi, trascrizioni di conferenze, opere filosofiche destinate alla pubblicazione, interviste, saggi sull’ebraismo e commenti talmudici: il femminile viene affrontato all’interno della produzione levinassiana con una molteplicità di strumenti e da punti di vista diversi che ci restituiscono un concetto molto denso che testimonia un costante lavoro di ripensamento da parte del filosofo.
Il presente lavoro si propone, dunque, di ricostruire il complesso sviluppo di questo concetto, facendone emergere i diversi sensi, le evoluzioni, le tensioni interne e le ambiguità.
Il primo capitolo si soffermerà sulla prima produzione levinasiana, nel tentativo di delineare la fisionomia del femminile e il ruolo del binomio virile/femminile come nucleo originario delle riflessioni del filosofo. Il capitolo affiancherà alle considerazioni elaborate da Levinas nelle opere filosofiche più note della fine degli anni Quaranta (Dall’esistenza all’esistente e Il Tempo e l’Altro) anche gli appunti contenuti nei Quaderni di prigionia, le trascrizioni di alcune conferenze tenute in quegli anni al Collège Philosophique e gli inediti letterari, con particolare attenzione a due abbozzi di romanzi (Eros o Triste opulenza e La signora di casa Wepler), sottolineando sin da subito l’intrinseca complessità del femminile e le diverse prospettive che contribuiscono alla sua definizione.
Il secondo capitolo si concentrerà sull’evoluzione del femminile nelle opere levinassiane comprese fra la seconda metà degli anni Cinquanta e la pubblicazione di Totalità e Infinito (1961), opera che renderà famoso Levinas presso il grande pubblico filosofico e nella quale il femminile assume una fisionomia in gran parte inedita rispetto al passato, parallelamente all’evoluzione del pensiero del filosofo verso una sempre maggiore centralità della relazione etica. Oltre all’opera del 1961, elementi centrali del capitolo rimarranno anche alcune conferenze coeve che testimoniano il grande lavoro di elaborazione che conduce Levinas ad affermare la priorità dell’etica. Si cercheranno di descrivere i rapporti che la relazione etica intrattiene con la “femminilità” e quale posizione il concetto assuma rispetto alla relazione per eccellenza fra esseri umani: il rapporto fra Volti. Inoltre, si presterà attenzione anche al rapporto complesso fra giudaismo e femminile quale emerge in un articolo dedicato al tema quasi coevo alla pubblicazione di Totalità e Infinito.
Il terzo capitolo, infine, si collocherà su un registro in parte diverso e più complesso rispetto ai precedenti. Infatti, nella prima parte si rivolgerà alle opere levinasiane più importanti degli anni Settanta, con particolare attenzione a Umanesimo dell’altro uomo e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. Sono testi nei quali il femminile come caratteristica dell’alterità scompare. Tuttavia, un’attenta analisi di queste opere permetterà, forse, di gettare nuova luce sulla strana eclissi del femminile come modo di Altri, verificando se ci si trovi di fronte ad un’effettiva scomparsa del concetto a ad un suo possibile spostamento dall’alterità alla soggettività. Inoltre, nell’ultima parte del capitolo si farà riferimento ad alcune considerazioni “isolate” rispetto alla direzione principale delle riflessioni di Levinas e nelle quali altri-femminile compare esplicitamente dopo la svolta dell’altrimenti che essere. Sono elementi presenti in due letture talmudiche degli anni Settanta grazie ai quali sarà possibile sottolineare come il tema della femminilità di Altri sia caratterizzato da molte tensioni ed ambiguità, soprattutto rispetto alla ormai assoluta centralità dell’etica, la relazione fra Volti, come luogo del senso dell’umano.
Il metodo che mi sembra più adeguato per far risaltare la complessità del tema in questione consiste non nell’analisi separata di singoli testi, ma nel loro intreccio e reciproco richiamo in modo da sottolineare la pluralità di registri e influenze culturali che caratterizzano il pensiero di Levinas e che contribuiscono a restituire una fisionomia complessa e sfaccettata alla sua visione della “femminilità”. Prima di intraprendere questo complesso percorso alla ricerca delle tracce del femminile nel pensiero di Levinas è necessario premettere che l’obiettivo di questa tesi non è di per se stesso nuovo, se si considera la numerosa bibliografia di riferimento disponibile sul tema e le molte, autorevoli voci si sono pronunciate in proposito. Solo per citare alcuni esempi fra i più noti, sono celebri le letture sul tema di Derrida, de Beauvoir e Irigaray. Tanto è stato scritto sul femminile in Levinas, sulla sua complessa evoluzione, sulle sue ambiguità e su eventuali asimmetrie di genere che il concetto comporterebbe, tutti aspetti ai quali avrò modo di fare riferimento nel corso della trattazione.
Tuttavia, un elemento nuovo di questo lavoro rispetto alle molte altre letture critiche elaborate sul tema del femminile in Levinas è rappresentato dalla possibilità di affiancare alle opere più note del pensatore l’analisi degli scritti inediti. Questi testi sono stati disponibili nella loro attuale versione (che peraltro non comprende ancora tutti gli scritti contenuti negli archivi del filosofo, in gran parte non ancora catalogati) solo a partire dal 2009 e tradotti in lingua italiana fra il 2011 e il 2012, ad esclusione del volume che riunisce i tentativi di scrittura letteraria di Levinas, in corso di pubblicazione nella sua prima edizione in traduzione italiana[3] e disponibile attualmente solo in francese. Sono scritti che permettono di affrontare con nuovi strumenti un tema già a lungo discusso e che, alla luce della sua complessità, potrebbe fornire ulteriori elementi e spunti di riflessione.
CAPITOLO 1 – Le origini del femminile fra letteratura e filosofia
1.1. Non solo filosofia: tracce del femminile nei Quaderni di prigionia e negli inediti letterari.
Un’analisi sul femminile nella filosofia di Emmanuel Levinas implica la necessità di rivolgersi al pensiero del filosofo sin dai primi scritti e di seguire lo sviluppo del concetto lungo il corso degli anni, nel tentativo di rintracciarne la fisionomia originaria e le successive evoluzioni. Tale prospettiva, alla luce della recente pubblicazione di tre volumi di scritti inediti[4] dell’autore, si è arricchita con la possibilità di accedere ai Quaderni di prigionia, nonché ai tentativi di scrittura letteraria di Levinas, la cui parte più interessante al fine della presente analisi è rappresentata da due abbozzi di romanzi, Eros o Triste opulenza e La signora di casa Wepler (alcune scene dei quali sono abbozzate nei Quaderni). Come i titoli lasciano facilmente intuire, i romanzi contengono interessanti indicazioni sul femminile e sulla relazione erotica che vanno ad affiancarsi alle considerazioni filosofiche sul tema presenti in vari passaggi dei Carnets.
È proprio da questi due tipi di fonti che ritengo necessario iniziare la trattazione. La scelta è dettata non da una loro priorità cronologica rispetto alle opere filosofiche di Levinas nelle quali il tema del femminile fa la propria comparsa. In effetti, Calin e Chalier fanno notare come le annotazioni sui quaderni coprano un arco temporale più ampio degli anni della prigionia, anche se la maggior parte degli appunti risale proprio a quel difficile periodo. Levinas, in quanto prigioniero di guerra, non affrontò l’esperienza del campo di sterminio grazie alla tutela garantita dalla convenzione di Ginevra. Trascorse quel periodo in un campo di prigionia: «fu assegnato al campo di Fallingsbotel, tra Brema e Hannover. Sopra il cancello di ingresso figurava un’iscrizione: XIB, il nome dello Stalag. E una cifra, 1492, che gli ricorderà sempre l’anno della cacciata degli ebrei dalla Spagna»[5]. Se il contesto nel quale i Quaderni di prigionia furono in gran parte elaborati ne giustifica pienamente il titolo, le prime annotazioni di Levinas risalgono agli anni Trenta e si spingono fino agli anni Cinquanta ed anche gli abbozzi letterari vengono più volte rimaneggiati nel corso del tempo, tanto da poter dire che l’ambizione a diventare scrittore abbia animato il filosofo almeno fino alla pubblicazione di Totalità e Infinito[6].
Dunque, la scelta di trattare preliminarmente del femminile nei Quaderni e negli abbozzi di romanzi ha ragioni diverse da quelle cronologiche. Un primo motivo riguarda la maggiore linearità dell’esposizione che risulta dal seguire l’origine del medesimo tema nel registro letterario e negli appunti, separandolo da quello più propriamente filosofico destinato alla pubblicazione o allo svolgimento di conferenze; la seconda ragione è relativa, invece, alla volontà di lasciare il giusto spazio alle figure femminili “letterarie” che, se accennate brevemente come semplici esempi di concetti filosofici, non avrebbero avuto la giusta considerazione. Non si tratta, naturalmente, di sostenere una cesura fra gli scritti come si trattasse di compartimenti stagni e questo perché i loro linguaggi si richiamano vicendevolmente: non si comprenderebbero adeguatamente alcune scene chiave nei tentativi di scrittura di Levinas o le riflessioni sulle protagoniste femminili delle letture che accompagnarono l’esperienza della prigionia (come l’Albertine di Proust o il femminile delle Lettere alla fidanzata di Bloy) se non rimandando alle riflessioni filosofiche sull’alterità che il pensatore stava elaborando. D’altra parte, i concetti filosofici potrebbero, alla luce dei romanzi, assumere maggiore concretezza agli occhi dei lettori.
Un’ultima ragione che mi ha spinta a non voler forzare una separazione totale fra letteratura e filosofia riguarda un loro intreccio riconosciuto da Levinas stesso: «a me sembra talvolta che tutta la filosofia non sia altro che una meditazione di Shakespeare»[7]. In effetti, i riferimenti letterari – e non solo a Shakespeare – sono costanti nelle opere levinassiane e sovente utilizzati a scopo di chiarificazione di concetti filosofici e ciò non rappresenta affatto una scelta casuale. È possibile rintracciarne le ragioni nel complesso percorso di formazione di Levinas, segnato dalla presenza di tre grandi orizzonti d’ispirazione. Due di essi sono maggiormente noti, alla luce del loro ruolo di primo piano negli sviluppi della elaborazione filosofica di Levinas. Si tratta, naturalmente, della Bibbia (testo al quale il pensatore, per via delle proprie origini ebraico-lituane, ebbe modo di accostarsi precocemente) e dei grandi filosofi che influenzarono il suo percorso di studi universitari a Strasburgo e Friburgo negli anni Venti: Husserl ed Heidegger. Su questi aspetti avrò modo di ritornare nei paragrafi successivi.
Levinas, tuttavia, riconosce come terza fonte di ispirazione alcuni grandi letterati: «tra la Bibbia e i filosofi ci sono stati i classici russi – Puskin, Lermontov, Gogol, Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj – e anche i grandi scrittori dell’Europa occidentale, in particolare Shakespeare»[8]. In questo contesto Levinas suggerisce che la letteratura svolga un ruolo diverso dal semplice intrattenimento o gioco d’immaginazione. È un luogo nel quale è possibile mettere in scena esperienze fondamentali dell’umano[9]. Non è possibile, naturalmente, in questa sede seguire tutte le riflessioni levinassiane sul ruolo e la struttura della letteratura[10], trattandosi di un tema complesso che richiederebbe un’analisi a sé stante. Tuttavia, non si può preliminarmente evitare il tentativo di capire perché il filosofo abbia coltivato l’aspirazione di scrivere opere letterarie.
Jean-Luc Nancy fa notare, a tal proposito, come l’utilizzo dello strumento del romanzo abbia in Levinas una funzione fondamentale: «il s’agit de faire et/ou de laisser apparaître une nudité décidément soustraite à la phénoménalité en tant que corrélat d’une viseé»[11]. La letteratura rende possibile una verità altra da quella conoscitiva, il dispiegarsi «de l’intrigue de l’autre et du rapport, de l’approche et du contact»[12]. È significativo, da questo punto di vista, che Levinas riconosca nell’opera di Proust proprio la capacità di mettere in scena il sorgere della vita interiore a partire dal rapporto con l’alterità e ciò lo rende un vero “poeta del sociale”, secondo la definizione presente nei Quaderni. Proprio commentando il significato più profondo delle opere di questo scrittore, Levinas presenta il sociale come incontro con l’alterità per eccellenza, il femminile:
tutta la sua opera consiste nel mostrare cos’è una persona davanti all’altra […]. Marcel e Albertine – è proprio questo. L’opera così ampia di Proust sfocia sui due temi di Albertine prigioniera e posseduta che non è distinto da Albertine scomparsa e morta. Il tormento che lo lega a lei consiste nel fatto che ci sono così tante cose che la riguardano – piccole cose, attitudini, gesti, pose – che egli non conoscerà mai. E quanto conosce di lei è dominato da quanto egli ignorerà per sempre – perché tutte le evidenze oggettive che la riguardano sono meno intense dei dubbi che gli resteranno per sempre dentro – e che sono il suo rapporto con Albertine[13].
Albertine ricalca la caratteristica saliente del femminile che Levinas andrà poi a sviluppare negli anni successivi alla seconda guerra mondiale: il mistero dell’alterità, il suo non “oggettivarsi” e non arrendersi ad alcuna presa. Il femminile è «altri prima di altri, ossia un’altra persona. Nuova via verso l’appercezione di altri. Altri= altro. Alterità pura»[14]. Levinas collega il personaggio del romanzo di Proust[15] all’ineffabilità di Altri, una presenza nutrita di assenza e riconosce anche il grande ruolo di Dante come poeta nel quale la donna non è più considerata al di fuori dell’amore ma diventa nodo costitutivo ed imprescindibile di una relazione che è fondamento stesso della differenza e della molteplicità[16].
Sin dai Quaderni la relazione con il femminile è caratterizzata da una ambiguità di fondo che ritorna come una costante nelle annotazioni del filosofo. Per esempio, Levinas scrive: «l’uomo che si imbarazza a dire “mia moglie, mia madre ecc”. Forse per questo le {si} chiama “Signora Chicchessia”»[17]. La situazione evocata potrebbe, a mio avviso, prestarsi a due interpretazioni possibili:
- il disagio di fronte all’alterità femminile sfocia nel tentativo di ricondurla ad un generale “Chicchessia”, un pacificante concetto universale di donna, una donna-oggetto rispetto alla quale l’io è ancora saldo in sé e respinge il trauma suscitato dall’incontro con chi, per eccellenza, si sottrae; una simile scena di fuga dall’alterità femminile, lo si vedrà nel seguito del paragrafo, ritorna anche ne La signora di casa Wepler;
- l’imbarazzo risiede nell’attribuire un aggettivo possessivo a chi rifiuta il possesso. È impossibile dire “mia” ad un’alterità che per propria stessa essenza sfugge e, da ciò, la preferenza di un evanescente “Chicchessia”.
Quale che sia l’interpretazione corretta, credo che il senso della frase sia riconducibile al rapportarsi al mistero, a ciò che si ritrae infinitamente per via del proprio stesso carattere di alterità. Il turbamento di fronte al femminile è legato all’enigma fondamentale che reca sempre con sé.
Da ciò Levinas può trarre una conclusione importante, ovvero che il fondamento stesso del pluralismo dell’umanità risieda nella relazione erotica – «per me la collettività ha alla sua base una dialettica sessuale. È relazione diretta tra individui»[18]– e che la differenza sessuale sia il dualismo per eccellenza, tutti temi che vengono ripresi nelle prime opere filosofiche nelle quali il tema del femminile viene affrontato più puntualmente: Dall’esistenza all’esistente e Il Tempo e l’Altro.
Alla luce delle precedenti considerazioni è possibile anche comprendere i numerosi riferimenti presenti nei Quaderni a Léon Bloy ed alle sue Lettere alla fidanzata, autore del quale ciò che Levinas apprezza è proprio il rappresentare il prodursi della trascendenza e del mistero, ciò che fa delle esperienze più quotidiane «una messa, un’eucarestia […]. Qualche esempio: il sesso della donna – tabernacolo di Cristo»[19]. La donna è esplicitamente associata da Bloy al ritrarsi, al nascondersi, anche questo un concetto caro a Levinas e associato costantemente al femminile.
Tuttavia nei Quaderni, come anticipavo all’inizio del paragrafo, Levinas non si limita a riflettere sul femminile, annotando alcune riflessioni filosofiche o ritrovandone i tratti salienti nelle opere degli scrittori che stavano popolando le sue letture. Gli appunti contengono, in abbozzo, anche alcune scene che verranno poi riprese in due romanzi rimasti incompiuti: Eros o Triste Opulenza e La signora di casa Wepler[20]. Nel Quaderno 2, in particolare, si trova uno schema contenente un progetto delle opere che Levinas aveva in mente di scrivere e che menziona, accanto ad un testo critico su Proust e a quattro progetti filosofici (i primi due dedicati ai temi “l’essere e il nulla” e “il tempo”, gli altri a Rosenzweig e Rosenberg[21]) due opere di carattere letterario: Triste opulenza e L’irrealtà e l’amore. Risulta difficile far combaciare il secondo titolo con l’abbozzo de La signora di casa Wepler, mentre Calin e Chalier ritengono che più facilmente si possa vedere in Triste opulenza il romanzo meglio noto come Eros, data la presenza di molteplici scene contenute nei Quaderni che vi verranno poi riprese. Tuttavia, non è comunque possibile dare un titolo univoco al romanzo, trattandosi di un testo scritto su un quaderno e su alcuni fogli aggiunti (su un verso dei quali si trovano delle note filosofiche sull’eros probabilmente rimaneggiate in periodi diversi, dato che alcune tematiche ivi affrontate sono molto vicine ad alcuni tratti del pensiero esposto da Levinas in Totalità e infinito) nel quale il titolo in effetti non compare, risultando invece presente sul foglio cartonato che conteneva il materiale. È possibile, quindi, che Levinas abbia deciso di cambiare titolo dell’opera nel corso del tempo[22].
A questa prima difficoltà se ne legano altre. Il protagonista nella parte iniziale di Eros è un interprete dell’esercito, Paul Rondeau, in procinto di partire per il fronte, ma il suo nome cambia successivamente in Jean Paul e Jules e non sempre appare chiaro il punto di vista dal quale gli eventi vengono raccontati. Vario è anche lo scenario, dato che le vicende prendono avvio in Francia nel 1940 e proseguono poi durante un viaggio verso la Germania con destinazione finale un campo di prigionia, seguendo le vicende del protagonista fino alla fine dell’esperienza ed al rientro in patria. Sicuramente la componente autobiografica del romanzo è molto evidente, così come la presenza di tematiche che rievocano i temi centrali della riflessione filosofica di Levinas. Calin e Chalier pongono, giustamente, l’accento sull’importanza del contesto del romanzo, la Francia della guerra e della disfatta, uno scenario di completa privazione di senso, di rottura del mondo e delle convenzioni che fa emergere quel tema dell’il y a che ossessiona il filosofo come «perdita di ogni stabilità, di ogni sostanzialità […], a essere annientate non sono più soltanto le cose e le persone, come durante la prima guerra mondiale, ma lo spazio stesso»[23]. Ciò che rimane quando il mondo oggettivo si decompone è la nuda esistenza che fa diventare il suolo della Francia come sabbie mobili incapaci di offrire un punto di appoggio[24]. Ma, di fronte al disorientamento sperimentato da Rondeau durante il viaggio in treno verso Creil, qualcosa sembra momentaneamente restituire un equilibrio agli eventi, un incontro: un operaio nello scompartimento sta tornando a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Questa vicinanza offre al suo osservatore il pretesto di immaginare una dimora, «une petite maison avec jardin, de blancs rideaux aux fenêtres»[25] e, forse, la possibilità di intravedere dietro le finestre aperte una giovane donna seduta al pianoforte. L’apertura delle finestre e la presenza discreta e silenziosa della giovane donna, per un momento, restituiscono una realtà al mondo, una prospettiva diversa dal senso offerto dalla ragione e dai valori nei quali fino a quel momento Rondeau aveva creduto e che la guerra aveva bruscamente fatto precipitare. Altrettanto importante è la rivelazione che il protagonista riceve nella scena immediatamente successiva. Alla stazione di Creil, mentre sta cambiando treno, assiste ad un breve scambio di battute fra un soldato ed un ufficiale. La moglie del soldato ha appena partorito ed egli chiede quando le licenze saranno ristabilite per poter andare a trovare lei e il figlio appena nato. La risposta che gli viene data, quel “forse mai più” pronunciato dall’ufficiale fa ripiombare la Francia nella disfatta, nel crollo di ogni ideale. Il particolare pathos di questo momento potrebbe spiegarsi alla luce della relazione tra paternità e speranza dell’io, nonché del futuro che essa rende possibile, uno dei temi centrali della riflessione di Levinas associata al tema dell’eros.
In quel momento, mentre il mondo sprofonda nell’assenza di significato, Rondeau è da solo, ma anche protagonista di un evento particolare: «Je suis seul […]. Seul avec Dieu»[26]. Levinas introduce la possibilità che in questo momento, quando l’ordine razionale si interrompe, quando le istituzioni non hanno più senso, possa aver luogo un’apertura. Il ritmo dell’evento sembrerebbe poter essere accostato al sorgere dell’ipostasi, appropriazione dell’essere da parte del soggetto, ma ancora incatenamento a sé ed alla successiva apertura offerta dalla relazione con il mistero che ritornano in Dall’esistenza all’esistente.
Poche pagine dopo, si trova un’altra scena importante relativa al tema del femminile, questa volta attraverso un cambiamento di punto di vista. Viene evocato un certo prigioniero Weill anche se l’ortografia del nome è varia, dato che poche righe dopo lo si legge “Weil” e “W.”, dunque non è ben chiaro chi possa essere il protagonista. Il contesto è quello di un gruppo di prigionieri che, stipati su un camion, entrano nella cittadina di Ostenholz. Qui vedono passeggiare delle donne e Levinas lo definisce un evento straordinario[27]; le donne che camminano sono protagoniste di una strana esibizione, indossano calze e portano ombrelli con gesti lascivi ed equivoci. Proprio l’equivoco è ciò che distingue il rapporto col femminile e che marca la differenza rispetto all’infanzia, come sembra confermare ciò che avviene poco dopo: la visione di un gruppo di bambini e bambine, queste ultime ancora acerbe, intente a lanciare torsoli di mela contro i loro compagni, in un contesto di completa indifferenza di genere. La mancanza di equivoci è tratto distintivo dell’infanzia e solo quando la bambina diventerà donna:
se retirera de cette communauté enfantine qui en somme est le monde sensé – le monde masculin – pour entrer dans son mystère, se ramassera sur elle-même et y planera même en continuant à accomplir la fonction qui lui échoit dans le monde sensé – porter le filet, taper à la machine, peigner les enfants. Mais cette fille mystérieuse, la fiévre de ce mystère ne demeurera visible qu’aux yeux de ces prisonniers entassés sur la remorque du camion[28].
Levinas sottolinea come solo i prigionieri riescano ad avere un presagio di ciò che le bambine saranno, quasi a rimarcare che tale presentimento del mistero dell’Altro possa essere occasione, per un breve istante, dell’uscita dalla prigionia, della non ricaduta del soggetto su sé medesimo (anche questo tema importante negli sviluppi filosofici sul femminile in Levinas). Calin e Chalier sottolineano[29] come, poche righe dopo, avvenga un altro evento chiave legato al femminile: il camion passa di fronte ad una baracca di giovani donne tedesche appartenenti all’esercito e Levinas concentra l’attenzione su un paio di calze da donna stese e su una finestra aperta dalla quale è possibile vedere una giovane impegnata a pettinarsi i capelli. Qui, di nuovo si assiste ad una perdita di senso del mondo, come insieme di oggetti e di forme: oggetti innocui come il pettine e le calze sono come presi in una indecenza che fa sì che cessino di essere solo degli strumenti. Non sono più casti ma fanno parte del «mondo cannibale dell’erotismo»[30], come se una nuova essenza fosse loro propria: «ici tout est comme à manger dans l’indistinction de son agglomération massive – de peau élémentale»[31]. Più volte, soprattutto nella sezione di Totalità e Infinito dedicata alla fenomenologia dell’eros, Levinas ritornerà sull’ambiguità dell’erotismo, il suo muoversi fra il desiderio mai appagato e l’ultramaterialità esorbitante, la crudezza e la profanazione[32].
Si tratta di un elemento che ritorna anche ne La signora di casa Wepler, anch’esso attraversato dal medesimo senso di disorientamento ed insignificanza del mondo che fa muovere le vicende di Eros: qui, la follia della moglie del protagonista, Simon Riberat, fa esplodere il mondo sensato, riportando alla mente del marito un’analoga esperienza di mancanza di stabilità avvenuta anni prima e che dava l’impressione che «le pied qui s’enlise dans le connu consent de ne pas pouvoir marcher calmement sur les flots»[33]. Si tratta di una relazione amorosa giovanile che aveva fatto sperimentare a Simon l’incapacità di dimorare pacificamente in sé medesimo e l’inquietudine di fronte al mistero dell’alterità. Simon ricorda di aver amato all’età di vent’anni una giovane ragazza, Suzanne, la cui caratteristica fondamentale risultava essere una curiosità insolita, un misto di confidenza, pudore e mistero[34], unita ad un viso che, pur non essendo particolarmente degno di nota, era animato da una grande dolcezza. Riberat, durante il proseguire della relazione, mostra sempre più disagio sia nel parlare di sé che nel lasciare che Suzanne parli di sé stessa. Il tempo che trascorrono insieme sembra diventare interminabile e, così, egli scopre un’insolita via di fuga a due direzioni. Da una parte, le carezze diventando modo per tollerare l’amore di Suzanne come se il contatto potesse interrompere l’alterità della ragazza, un’illusione di vicinanza che, di fatto, non si realizza e non placa il disagio. Più volte Levinas tornerà in futuro sul vero significato della voluttà erotica, ambiguità nella quale la carezza non tocca mai veramente e si compie nel continuo cercare, non solo in Totalità e Infinito, ma anche nelle Note filosofiche sull’eros che contengono in abbozzo molti concetti che poi saranno ripresi nella Fenomenologia dell’Eros[35]. D’altra parte, il protagonista cerca delle distrazioni, dei luoghi popolati di persone come un caffè, dove «la présence de chacun se justifiait»[36], dove tutto è in ordine e può evitare il faccia a faccia, la presenza immediata di Suzanne. Tuttavia, il malessere ritorna a presentarsi man mano che il luogo si svuota, quando egli non può rivolgersi alla donna senza camuffarsi dietro concetti ed azioni comuni ed a questo punto iniziano l’infinito ed il turbamento della presenza di Suzanne, un essere umano che è lì direttamente, il cui appello si rivolge all’essere stesso dell’altro quando tutti gli alibi sono spariti e non c’è altro all’infuori della presenza di Autrui[37].
Così, può dire Levinas, si svela la natura spesso meramente convenzionale del matrimonio, il quale diventa il luogo nel quale soffocare l’inquietudine dell’alterità, dove ci si rifugia nelle cose da fare insieme e nelle idee in comune. Ciò permette di spiegare l’angoscia che si genera in Simon quando la moglie impazzisce: l’alterità rifiuta gli schemi sociali, la signora Riberat non è più una “signora Chicchessia”, fa esplodere la forma decente nella quale la sua ineludibile alterità si dissimulava, non è più la moglie resa sopportabile dal contesto di comunione con le cose[38]. L’essere umano che si sveste dalla forma e dal concetto provoca vertigine ed inquietudine.
Quando la moglie folle viene internata Riberat può di nuovo rifugiarsi nella libertà della solitudine, dove le donne tornano ad essere rassicuranti: «c’était la femme dépouillée de son humanité, quelque chose de semblable à ce qu’elle est dans le monde oriental, la femme comme instrument de plaisir»[39]. Tuttavia, l’inquietudine sollecitata dal femminile è destinata a ritornare presto e questo conduce verso un’ultima considerazione.
Il protagonista rievoca l’immagine di una prostituta incontrata nella hall di un albergo a Londra qualche anno prima. La donna si presenta con un aspetto “ferino”, offerto allo sguardo e al desiderio, ma in un’atmosfera irreale, dai contorni onirici, che non la copre di vergogna e non fa sparire la libertà dalla quale appare. La figura sembra come avvelenare l’anima del protagonista ed il suo ricordo getta nell’insignificanza anche le donne che camminano sugli Champs-Élysées. Scrive Levinas: «la femme du George V pouvait seule apaiser son besoin douloureux de mordre sur le réel, elle était toute la douceur et toute la violence de la vie»[40]. Ciò fa sorgere il desiderio di accostarsi ad altre donne, ma il protagonista non sa come avvicinarsi perché il vestito che le cela invita al rispetto più che alla profanazione. Riberat si chiede come sia possibile accedere ad un essere rispettabile, protetto dalla sua forma. Le immagini sono equivoche e rimandano ad una nudità che il vestito sembra coprire e che è impossibile rivelare alla luce, a causa però di una preoccupazione particolarmente rivelatrice: la possibilità che l’alterità femminile scorga il viso del protagonista senza riserva. Si annuncia qui – parafrasando lo stile iperbolico che caratterizzerà Levinas qualche anno più tardi – la possibilità di una nudità più nuda della nudità della pelle, di un faccia a faccia diretto ed insostenibile.
1.2. Virilità e libertà dell’esistente oltre l’il y a.
Lasciato da parte il registro letterario, è adesso necessario rintracciare le caratteristiche originarie del femminile nelle opere filosofiche di Levinas relative al suo primo periodo di produzione autonoma, rappresentato principalmente da Dall’esistenza all’esistente e da Il Tempo e l’Altro, due testi scritti alla fine degli anni Quaranta. Il primo risale al 1947 e, come fa notare Pier Aldo Rovatti, rappresenta la prima vera opera nella quale il pensiero autonomo di Levinas viene esposto[41]. Tuttavia, una riflessione originale, seppure ancora in abbozzo, può essere rintracciata nel filosofo già prima di questo momento, facendo riferimento a due brevi articoli: Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, apparso sulla rivista Esprit nel 1934 e Dell’evasione, pubblicato nel V volume delle Recherches philosophiques fra 1935 e 1936[42]. I due testi presentano già, in forma embrionale, il nodo centrale del pensiero di Levinas, il tentativo che dà senso a tutte le sue riflessioni: la necessità di infrangere la prigionia dell’essere, prospettiva fondamentale del pensiero filosofico occidentale da Parmenide a Heidegger. Levinas stesso riconosce, alcuni anni dopo[43], come il dubbio che già allora animava le sue riflessioni risiedesse nella possibilità che il senso più profondo dell’umano e la sua dignità non fossero rappresentati dalla libertà del soggetto della tradizione occidentale e dall’adesione all’essere.
Tuttavia, pur tenendo presenti questi scritti, Rovatti sottolinea giustamente come l’impegno di Levinas in quegli anni si sia concretizzato principalmente in due direzioni fondamentali, ovvero l’elaborazione di testi critici su Husserl e Heidegger[44] e di alcuni articoli sull’ebraismo[45]. Occorre, dunque, attendere gli anni Quaranta perché gli spunti sparsi negli articoli prendano forma più concreta, non solo con la pubblicazione di Dall’esistenza all’esistente ma anche sotto forma di alcune conferenze – poi pubblicate con il titolo Il Tempo e l’Altro – che Levinas ebbe modo di tenere fra 1946 e 1947 al Collège Philosophique di Jean Wahl, un luogo particolarmente importante per il filosofo, tanto da poter essere considerato da lui stesso un cantiere di idee, un luogo dove «era possibile senza mezzi termini – e spesso senza precauzioni – e prendendosi qualche licenza nei confronti delle regole accademiche […] darsi – e proporre ad altri – idee “da sviscerare”, “da approfondire” o “da esplorare”»[46].
Tenendo conto di questa importante considerazione, nel ricostruire le origini del femminile nei primi scritti filosofici di Levinas non ho potuto esimermi dal tenere in considerazione anche le conferenze coeve ai due lavori principali degli anni Quaranta, contenute nel secondo volume di scritti inediti precedentemente menzionato: Parola e silenzio ed altre conferenze inedite. Grazie a questi nuovi materiali è stato possibile approfondire alcuni aspetti del femminile e delle tematiche ad esso affini proposti da Levinas nelle opere edite del periodo.
I testi delle conferenze sono stati rimaneggiati in momenti diversi, con fogli aggiunti datati in periodi successivi fino alla pubblicazione di Totalità e Infinito. Le citazioni che ho inserito in questo capitolo riguardano in maggioranza parti del testo che più sicuramente, secondo i curatori, è possibile considerare come elementi delle conferenze originarie. L’edizione italiana, in particolare, ha mantenuto l’andamento frammentato del testo e lo stile conciso evitando di costruire un’uniformità incapace di rispecchiare il lavoro di ripensamento elaborato da Levinas sui testi. Fa eccezione la conferenza dal titolo Gli insegnamenti, rispetto alla quale l’unica datazione certa è il 23 febbraio 1950, lo stesso giorno in cui fu pronunciata secondo il calendario del Collège Philosophique perché non ci sono elementi che permettono di sapere se ci siano state redazioni posteriori della stessa[47]. Il tentativo non è, naturalmente, quello di esporre esaurientemente l’andamento dei singoli testi ma di leggerli parallelamente ed intrecciarli in modo da delineare i tratti originari del femminile e dei concetti ad esso correlati: il virile, l’eros, il tempo, la paternità.
Ritengo necessario iniziare la trattazione considerando gli elementi fondamentali della “virilità”, a partire dalla constatazione del ruolo importante svolto dal binomio virile/femminile nella produzione filosofica levinassiana sin dalle sue origini e, naturalmente, nel tentativo di far emergere più chiaramente le caratteristiche del femminile rispetto alla sua controparte.
Virilità è un termine esplicitamente associato dal filosofo alla soggettività, la quale si qualifica nei termini di un “dominio” e di una “padronanza”, una dimensione attiva, un evento di appropriazione dell’essere[48].
Levinas riconosce una dimensione virile al soggetto perché questo non è una sostanza immobile ma attività, si produce, si appropria della sua esistenza ergendosi da un fondo indeterminato che è il puro fatto dell’esistere come se fosse un signore. Più in particolare, la coscienza del soggetto è un inizio ed un potere sull’esistere: «con la coscienza il soggetto si pone e comincia – non ha niente prima di sé, trae tutto da sé, è signore»[49]. Significativamente, infatti, Levinas può parlare della soggettività nei termini di un’ipostasi, ciò che si erge rispetto al neutro evento dell’essere, qualificato come il puro fatto dell’il y a, l’esistere senza esistente che dà il titolo ad una delle sezioni del primo capitolo de Il Tempo e l’Altro[50].
L’interesse levinassiano per il tema dell’essere come puro evento ha un’origine complessa, riconducibile a tre elementi fondamentali che mi sembra opportuno richiamare brevemente. Da una parte, viene sollecitato indubbiamente dall’influenza di Martin Heidegger, che Levinas ebbe modo di incontrare a Friburgo e che viene riconosciuto nel corso degli anni successivi come uno dei maggiori ispiratori della sua filosofia. A Friburgo, Levinas si era recato nel 1928 per seguire l’insegnamento di Husserl che, pur essendo già in pensione, continuava a tenere dei corsi e in questo contesto era entrato in contatto con l’analitica esistenziale di Heidegger. Di Essere e Tempo, Levinas può dire: «ho provato una grande ammirazione per questo libro, uno dei più belli della storia della filosofia […]. In francese si dice l’essere oppure un essere. Con Heidegger è stata risvegliata la “verbalità” nella parola essere, ciò che in essa è evento»[51]. Infatti, la questione ontologica in Heidegger diventa elemento fondamentale dell’esistenza umana, non un problema teoretico ma un “evento” legato al tempo che non è «la cornice dell’esistenza umana, ma che, nella sua forma autentica, […] è l’evento della comprensione dell’essere»[52]. Il Dasein, l’esser-ci e le tonalità emotive di questa esistenza non sono pensate come categorie vuote, ma evento stesso del rivelarsi dell’essere.
La filosofia del primo Heidegger viene apprezzata da Levinas, d’altra parte, in quanto messa in atto fondamentale del metodo fenomenologico di Husserl, altro elemento che influenza notevolmente il suo pensiero. Levinas lesse Husserl durante il periodo di studio a Strasburgo e fu uno dei primi studiosi a far conoscere la fenomenologia husserliana tra i pensatori di lingua francese, grazie anche alla pubblicazione della sua tesi di dottorato del 1930: La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl.
La fenomenologia, se da una parte viene criticata da Levinas negli anni successivi a causa del suo ricadere inevitabilmente in una dimensione egologica – critica comprensibile alla luce della ricerca da parte del filosofo di un nuovo rapporto fra l’io e l’alterità che non sia “inglobante” – rimane il metodo autentico del filosofare perché, mettendo in discussione l’ingenuità del mondo come oggettivamente costituito sin dall’inizio, un “in sé” indipendente, riconosce la coscienza come intenzionalità, coscienza di qualcosa. La fenomenologia permette di superare l’ingenuo dualismo oggetto/soggetto, mettendo in luce che: «il soggetto, d’altra parte, non è una sostanza obbligata a ricorrere ad un ponte – la conoscenza – per arrivare all’oggetto, ma che, nella sua presenza di fronte all’oggetto, si trova il segreto della sua soggettività»[53]. La soggettività è attività e la fenomenologia mette in atto una risalita all’intenzione o orizzonte che mira agli oggetti i quali non si risolvono nella questione “cos’è?” ma il cui senso viene rintracciato nel loro modo di esistere[54].
L’influenza di Husserl e Heidegger si riscontra chiaramente nelle opere degli anni Quaranta. Rovatti sottolinea come la ricerca della soggettività a partire dall’il y a[55], dalla scomparsa del mondo–oggetto, non sia che una radicale messa in atto del metodo fenomenologico dell’epoché, unitamente al riferimento heideggeriano alla vuota verbalità, il fatto che c’è l’essere come puro evento del quale nessun esistente si appropria. Occorre, tuttavia, riconoscere un terzo elemento capace di spiegare il fascino per il problema dell’essere suscitato in Levinas, oltre l’influenza dei suoi grandi maestri. L’il y a si impone alla sua attenzione anche a partire dai ricordi di certe esperienze dell’infanzia, un “brusio”[56] nel silenzio che egli ritrova nelle descrizioni di Blanchot, colui che è stato capace di un pensiero audace, che fa parlare ciò che non è mondo, parlare impersonale e senza tu che è impossibile spegnere[57]. L’orrore dell’essere senza “io” riecheggia nelle molte descrizioni dedicate al tema presenti nelle opere levinassiane di questo periodo, proprio a sottolineare la sua inamovibilità: l’esperimento fenomenologico che Levinas tenta in Dall’esistenza all’esistente, il ritorno “al nulla” delle cose e delle persone, non conduce mai al niente in senso stretto, ma all’essere che rifiuta di essere circoscritto in un esistente, l’essere in quanto essere, non eludibile, non un qualcosa di determinato ma neanche un niente in senso assoluto. È l’opprimente prigionia dell’essere, non l’angoscia heideggeriana del nulla della morte, che fa inorridire due fra i più celebri personaggi shakespeareani, Amleto e Macbeth, l’impossibilità di evadere, l’essere costretti senza rimedio in un’ “esperienza” (le virgolette sono opportune dato che si esperienza in senso stretto non è corretto parlare, non essendo propriamente presente nessun “io” che si appropri dell’esistenza) di vigilanza impersonale[58].
Proprio a partire dall’orrore dell’il y a, come si diceva, Levinas vuole rintracciare il momento nel quale emerge il soggetto come sospensione della vigilanza ed inversione della verbalità neutra in sostantivo. Il soggetto è l’esistente concreto ed il suo potere virile si realizza nella coscienza che viene descritta come la capacità di ritrarsi in sé, della solitudine, di avere un rifugio, ovvero l’evento stesso dell’identità[59].
Essa non è da intendersi come un puro movimento del pensiero astratto, ma viene analizzata in tutta la concretezza dell’esistenza corporea del soggetto: il corpo è possibilità di ritirarsi in sé, è la base, ovvero non ciò che si aggiunge ad un pensiero ma la condizione stessa di porsi come soggetto. Il corpo, dunque, non è lo strumento dell’anima ma viene descritto da Levinas nel suo singolare essere un “evento”, il compiersi del soggetto: «grazie alla sua posizione, il corpo realizza la condizione di ogni interiorità. Non esprime un evento perché è esso stesso questo evento»[60].
È necessario sottolineare nuovamente, rispetto a quanto si diceva all’inizio, come le descrizioni di Levinas relative al raccoglimento in sé della soggettività utilizzino un linguaggio ricco di riferimenti “maschili”: la coscienza come padronanza dell’io sull’esistenza è un potere, una libertà di cominciamento, una virile esistenza di soggetto[61]. Più precisamente, il potere della coscienza si realizza nel presente, unica dimensione che la soggettività così delineata conosca. In effetti, il potere del soggetto saldo nell’identità è proprio quello di avere un presente, inteso non come frazione del tempo matematico ma come il riferirsi a sé come punto di partenza. Levinas rilegge in modo originale il presente in termini di un arresto, di una posizione che ha una dinamica del tutto propria che è estranea al tempo come fluire. Il presente non inizia che da sé, non ha un vero tempo, non ha storia:
in quanto non si riferisce che a se stesso, in quanto parte da sé, il presente è refrattario al futuro. La sua evanescenza, il suo deliquio fanno parte della sua stessa nozione. Se durasse si tramanderebbe. E così avrebbe ricavato il proprio essere da un’eredità e non da se stesso. Non può quindi avere nessuna continuità. La sua evanescenza è il prezzo della sua soggettività e cioè della trasmutazione in seno al puro evento d’essere dell’evento in sostantivo, l’ipostasi[62].
Il potere virile del soggetto è tutto espresso nel suo presente, nel suo porsi.
A questo punto, Levinas fa emergere una problematica che conduce alla necessità di un ripensamento della soggettività e all’impossibilità che questa si esaurisca nella dimensione virile. Tale prospettiva è stata, secondo il filosofo, fatta propria dal pensiero occidentale, che qualifica la persona essenzialmente in termini di libertà, ovvero di potere che si realizza sia nella prassi che nell’intellezione, essendo questa, in effetti, una “presa” sulla realtà. «Il problema dell’uomo è un’ossessione del potere»[63], scrive Levinas.
Tuttavia, come dicevo, Levinas individua in questa visione della soggettività un limite fondamentale. Da una parte, l’io virile è libero di cominciare da sé, ha un presente ma è, al contempo, incapace di staccarsi dalla propria unicità e come ingombrato da se stesso[64]. La solitudine, tema “esistenzialista” per eccellenza, è condizione della soggettività ma anche peso della propria esistenza. Il soggetto è solo, racchiuso in se stesso, non ha possibilità d’uscita e non è via del rapporto intersoggettivo perché si trova una dimensione del tutto privata: «nulla è più privato del fatto di essere. L’esistenza è l’unica cosa che non posso comunicare: posso raccontarla ma non posso condividerla»[65]. Dunque, la libertà è sempre irrimediabilmente legata ad un’impossibilità di fondo, quell’incapacità di evasione che già il filosofo evocava nell’articolo omonimo degli anni Trenta: «l’enchaînement le plus radical, le plus irrémissible, le fait que le Moi est soi-même»[66]. L’io, nel suo stesso potere di soggetto si rivela impotente.
Paola Ruminelli nota questa dualità nel soggetto, il fatto che la solitudine dell’io ne sia al contempo condizione fondamentale, virilità e fierezza, ma anche «disperazione e abbandono, e il ritorno a sé è anche materialità, perché chiusura che inchioda l’Io alla propria identità»[67].
A partire da queste considerazioni, Levinas vede nell’esistenza nel mondo un tentativo di evasione dell’io rispetto a sé che, come si vedrà, risulta essere fallimentare perché il concetto stesso di “mondo” implica un coinvolgimento del soggetto tale che egli non si libera davvero di sé. Analizzando l’esistenza nel mondo, Levinas contesta a Heidegger l’aver delineato tale condizione come un avere a che fare con degli utilizzabili il cui ultimo significato è quello di rinviare all’esistenza come cura.
Il mondo, lungi dall’essere un “casto insieme di utensili”[68] è alimento offerto al godimento. La differenza che Levinas rileva rispetto alla prospettiva heideggeriana risiede proprio nella “gratuità” totale con la quale gli alimenti sono offerti al godimento: «non è esatto dire che viviamo per mangiare; ma non è più esatto dire che mangiamo per vivere […]. Quando si aspira il profumo di un fiore, è all’odore che si limita la finalità dell’atto»[69]. Proprio nel godimento può emergere concretamente la coscienza come un movimento verso “altro da sé”, verso gli alimenti che nutrono.
Si comprende meglio, dunque, quanto prima si diceva rispetto al ruolo fondamentale del corpo nella realizzazione come posizione del soggetto, giacché il nutrimento è possibile perché una base lo sostiene, perché un punto consente lo slancio: «non soltanto perché bisogna porsi da qualche parte per orientarsi verso gli oggetti; ma perché nella mia relazione con la terra stessa, il fatto di sentirne il contatto, la tensione muscolare della posizione […] [è] ciò a partire da cui le esperienze sono accolte»[70].
Tuttavia, come si diceva, l’esistenza nel mondo non permette un vero affrancamento del soggetto da sé stesso. Nel mondo si realizza un’intenzione completamente sincera perché l’oggetto è sempre disponibile, è per il soggetto, in relazione ad esso ed appaga il suo bisogno. Anche l’altro modo del soggetto di rapportarsi all’oggetto, la conoscenza, si risolve in un ritorno dell’io a sé perché l’oggetto è ricondotto al soggetto, egli se ne appropria dandogli un senso. Dunque, avere coscienza significa essere liberi ma sempre a partire da sé e proprio per questo Levinas vede nella libertà un dramma:
Il mondo dell’intenzione e del desiderio è proprio la possibilità di una simile libertà. Quest’ultima però non mi libera dal carattere definitivo della mia esistenza, dal fatto di essere sempre con me stesso. E tutto ciò, questo carattere definitivo, è la solitudine. Il mondo e la luce sono la solitudine. Questi oggetti dati, questo esseri vestiti sono altro da me, ma sono miei. Illuminati dalla luce, essi hanno senso e, di conseguenza, è come se provenissero da me. Nell’universo compreso, io sono solo, sono cioè chiuso in un’esistenza definitivamente una[71].
Il carattere più drammatico della solitudine del soggetto è rivelato da un evento, una relazione con ciò che non si dà come oggetto, il mistero che si ritrae al mondo della luce: la morte. Si realizza proprio a questo punto una delle massime prese di distanza del pensiero di Levinas dalla analitica esistenziale di Heidegger. In Essere e Tempo l’angoscia, tonalità emotiva che rivela il nulla, il finito dell’esistenza, apre all’uomo la sua possibilità più propria. L’essere per la morte in Heidegger è libertà, è ciò che rende autentica l’esistenza, il trionfo dell’io che assume la possibilità che fonda ogni altra possibilità[72].
Levinas, invece, ribalta completamente la prospettiva heideggeriana: la morte non è la possibilità più autentica dell’esistenza e non segna il trionfo dell’io virile ma rappresenta, piuttosto, un’esperienza di pura passività del soggetto. L’io virile ed eroico si eclissa proprio nel rapporto con la morte che è non la possibilità più propria dell’uomo ma un’impossibilità radicale, «un evento che il soggetto non è in grado di dominare, un evento in rapporto al quale il soggetto non è più soggetto»[73]. La morte è un rapporto con l’assolutamente altro, l’estraneo ed apre ad una relazione con l’avvenire che segna la scomparsa dell’eroismo del soggetto.
Per Levinas il soggetto non è, semplicemente, più debole della morte. Se così fosse, la morte rientrerebbe nel mondo della luce e delle forme come oggetto che supera le sue forze, ma essa è “espropriazione” del soggetto stesso, il fatto che non possiamo più potere[74]. La morte è l’irruzione dell’alterità che pone fine alla virilità del soggetto isolato in quanto rapporto col mistero assoluto. Si tratta di una relazione con ciò che ha l’alterità come sua essenza fondamentale e che, tuttavia, segna inevitabilmente lo scacco dell’io e l’impossibilità di sperare per il soggetto.
Dunque, se l’io virile e libero della tradizione occidentale non ha speranza, si rivela necessario un ripensamento della soggettività che renda possibile un’apertura. Questa non può situarsi nel presente, dimensione legata per eccellenza al porsi dell’io. Si tratta, piuttosto, di una relazione con l’avvenire e con il mistero. Si delinea un modo di essere per l’io diverso dalla virilità del potere e della libertà, una condizione di passività che, diversamente dall’esposizione alla morte, è in grado di tutelarne la personalità. La relazione con l’avvenire che permette all’io di conservarsi è un faccia a faccia che è la realizzazione stessa del tempo: la relazione intersoggettiva[75]. Proprio a questo punto, il femminile fa la propria apparizione.
1.3. Il femminile: l’alterità d’Altri e la socialità originaria.
Il femminile si contraddistingue in questa prima fase di produzione filosofica di Levinas come la differenza per eccellenza capace di disfare il mondo della luce. La caratteristica preminente dell’alterità femminile è infatti il ritrarsi, il nascondersi rispetto al mondo che si offre al godimento ed alla conoscenza come un insieme di forme solide, tangibili, esposte al soggetto che se ne appropria: «la forma è ciò grazie a cui un essere è rivolto al sole – ciò grazie a cui ha un aspetto, si dà, si mostra»[76]. Nel concetto stesso di “mondo” è sempre implicato un coinvolgimento del soggetto che fa sì che in questo particolare orizzonte l’alterità si dissimuli e non riesca a manifestarsi nemmeno in quella che sembrerebbe in apparenza la più radicale esperienza dell’estraneità dell’altro: la nudità.
La nudità – tema ricorrente anche nelle opere letterarie di Levinas – non riesce a disfare la forma ma ne è, da un certo punto di vista, la massima espressione. Per questo, può dire Levinas, la nudità delle statue può dirsi artistica, proprio perché rispetta in pieno i canoni della forma decente. Per Levinas non solo il mondo dell’arte, ma anche quello della civiltà e dei valori in generale è costituito da un insieme di forme nelle quale l’altro non emerge nella propria radicale alterità. Egli è sempre un alter ego, un vicino, un compagno, un uguale con il quale condividere idee e pensieri o condurre un discorso che, in realtà, si rivela essere un monologo perché non rompe la solitudine del soggetto. Dunque, nella società ogni incontro con l’alterità è sempre un rapporto formale, decente, privo di equivoci. Gli esseri sono vestiti con la loro forma e non c’è nulla, anche qualora si fosse di fronte alla nudità della pelle, dell’inquietudine del trovarsi di fronte ad un’alterità veramente nuda ovvero veramente altra. Il mondo “sociale” non coincide con la socialità originaria che Levinas sta cercando, il luogo del vero esistere nella differenza, ma è la dimensione della partecipazione a concetti ed abitudini comuni, del “terzo uomo” intorno al quale tutti sono disposti[77].
È questo il senso del Miteinandersein heideggeriano che Levinas critica, inevitabilmente legato ad una preminenza della solitudine del Dasein, perché essere-con-altri è «un’associazione basata sul fianco a fianco, intorno a qualcosa, intorno ad un termine comune e, più esattamente, per Heidegger, intorno alla verità»[78]. Se l’essere-nel-mondo è, in Heidegger, già essere-con-altri, si rivela al contempo come un essere tutti nella medesima verità, la comprensione dell’essere che è l’esistenza la quale, nella sua forma più autentica, conferma la solitudine dell’esser-ci perché l’essere-per-la morte è sempre soggetto solo.
Levinas prende le distanze dal Mit heideggeriano, cercando un modo radicale di rapportarsi all’alterità che non sia nel mondo nella misura in cui per mondo si intenda la dimensione della luce e della forma. Da questo punto di vista, l’incontro con l’alterità non è “pacifico”, è un evento di rottura estrema, «l’evento di rottura più radicale delle categorie stesse dell’io»[79]. Questa possibilità è ravvisata nella differenza sessuale, secondo una linea interpretativa che, come si è già visto, era presente in abbozzo anche nei Quaderni di prigionia. Proprio il porre l’accento sull’aspetto della differenza sessuale segna, secondo di Bernardo, un’evidente presa di distanza rispetto alla prospettiva heideggeriana, perché
l’uomo, per dirla con Heidegger, è Da-sein, esserci; il ci (da) indica il fatto che l’uomo è sempre in una situazione ed in rapporto attivo nei suoi confronti, egli è manifestazione dell’essere, ovvero l’unico essente che ha il dono del logos; tuttavia non c’è differenza sessuale in Heidegger poiché il Da-sein è neutro. L’esserci che comprende l’essere è già compreso dall’essere e la manifestazione di quest’ultimo avviene nel tempo, ovvero in ciò che segna la dimensione del limite[80].
Levinas stesso riconosce come Heidegger non abbia colto il carattere originale della differenza sessuale, che viene obliato se si presenta il rapporto fra i due sessi come una semplice specificazione di genere[81]. Contro il neutro del Dasein, Levinas rintraccia nella relazione erotica un contesto nel quale l’altro sia altro a titolo positivo, senza essere l’alter ego dell’io o un suo simile. Vorrei preliminarmente sottolineare come, nonostante Levinas usi proprio il termine “femminile” per indicare l’alterità dell’altro, l’identificazione completa di questo concetto con quello della donna sia tutt’altro che semplice.
Autrui – termine con il quale Levinas indica l’alterità di altri in quanto realtà radicale e irriducibile all’orizzonte del soggetto – effettivamente non è associato in modo vago al concetto di “differenza di genere”, ma viene esplicitamente indicato come femminile: «la contrarietà che permette al termine di restare assolutamente altro, è la femminilità»[82]. Il femminile, tuttavia, più che una caratteristica della donna, sembrerebbe essere l’alterità dell’altro in quanto altro. Ciò giustifica anche il tentativo di rintracciare nella differenza sessuale una diversità che non sia riducibile a nessun modo tradizionale di pensare: non è articolazione di genere o di specie, non è contraddizione (la tensione fra i contraddittori li ingloba in un’unica categoria) e nemmeno complementarità (i complementari rimandano anch’essi ad una unità che li integra)[83].
Il piano del sessuale, dell’incontro con Altri-femminile è il luogo d’origine della vera società nella quale non si è tutti presi entro un concetto comune ma realmente distinti, irrimediabilmente due. Dunque, tale realtà viene banalizzata se affrontata da un punto di vista meramente biologico, perché si misconosce l’evento della socialità che vi si realizza. Nella conferenza del 1950 dal titolo Gli Insegnamenti, Levinas può sottolineare come il limite della psicoanalisi freudiana si riveli proprio nell’appiattire la voluttà erotica sulla mera ricerca del piacere, ignorando che si tratta di una relazione che rivela del patetico perché non rientra mai nella logica del possesso e dell’appagamento: «nella voluttà, altri – il femminile – si ritira nel suo mistero. La relazione è una relazione con la sua assenza; assenza sul piano della conoscenza, l’ignoto»[84].
Mentre il virile si distingue per la sovranità, il porsi, il presente, Altri femminile è l’assente, il mistero, ciò che sfugge alla presa anche quando si realizza la situazione dell’esibizione del nudo della pelle, perché la sua alterità continua a sottrarsi. Ecco perché il “pudore” ne è il tratto caratteristico e si mantiene anche di fronte alla più irriverente esibizione[85]. Se il femminile è ripiegarsi nell’ombra, una trascendenza rispetto alla luce, è più chiaro quanto si diceva all’inizio del paragrafo, ovvero che si compie una dialettica del tutto opposta rispetto a quella del venire alla luce del mondo. Già nella sua tesi di dottorato, dedicata alla teoria dell’intuizione in Husserl, Levinas poteva riconoscere come l’amore realizzasse un’intenzione diversa dalla semplice rappresentazione:
“avere un senso” non equivale necessariamente a rappresentare. L’atto dell’amore possiede un senso – ma ciò non significa affermare che esso nasconde una rappresentazione dell’oggetto amato e un sentimento puramente soggettivo, privato nel senso che accompagnerebbe questa rappresentazione. Lo specifico dell’oggetto consiste precisamente nell’esser dato in una intenzione d’amore, intenzione irriducibile alla rappresentazione puramente teoretica[86].
A fine anni Quaranta, il linguaggio levinassiano si radicalizza fino a collocare il senso dell’amore al di fuori della logica intenzionale, anzi, in un movimento che delude completamente il mondo di forme della coscienza. Proprio nel rapporto col femminile si realizza il vero significato dell’epoché fenomenologica perché, scrive Levinas, «non è nel mondo che possiamo dire il mondo»[87]. L’amore, così, non è “mangiare”, non si pone come elemento della vita economica che è del tutto “sincera”, estingue il desiderio e il possesso riconducendo gli oggetti al soggetto. Piuttosto, si realizza nell’amore un “mangiare apparente e patetico”, un sottrarsi dell’alterità anche nelle manifestazioni più materiali dell’erotismo: «c’è pure, nel bacio e nel morso, il lato ridicolo e insieme tragico […]. È una fame che aumenta e che si libera da ogni essere. Non c’è scopo, non si intravede un termine»[88]. L’eccezionalità del rapporto erotico risiede proprio nel fatto che il femminile non si presenta al soggetto nel mondo, ma trascende il mondo stesso, di modo che è ancora possibile cercare una relazione fra i termini che non si risolva nell’essere una contrapposizione dell’uno rispetto all’altro o una partecipazione ad un concetto comune, soluzioni solo apparentemente opposte perché entrambe rimandano ad un piano comune fra due libertà, contesto che, secondo Levinas, avrebbe come unica soluzione l’annientamento dell’alterità[89].
L’amato, invece, non è mai annientato perché non è mai toccato veramente. Non è un oggetto di possesso ed anche le manifestazioni fisiche dell’erotismo, come la carezza, realizzano un movimento che è una ricerca costante, infinita, sempre a venire.
È la relazione sociale, luogo dell’assenza di Altri che, dunque, rende possibile al soggetto l’evasione dal presente e l’avere un tempo autentico che non si risolve in una successione di istanti evanescenti. Così, si comprende meglio anche il titolo dato alle conferenze del 1946/47, Il Tempo e l’Altro, perché proprio il rapporto con l’alterità dischiude la possibilità del futuro che il soggetto, che in quanto libertà e posizione è sempre presente, non potrebbe realizzare: «ciò che porta l’esistente oltre l’essere, oltre la chiusura egoistica nel proprio essere, non è la conoscenza ma solo la relazione con altri, la socialità. Il tempo, quale effettiva trascendenza verso la novità del futuro, è la molla che ci apre alla relazione con altri»[90]. L’io isolato può solo porsi, può solo avere un presente come ricominciamento da sé in ogni istante. La vita economica è sempre prigionia dell’io rispetto a sé, impossibilità di un autentico ricominciare. L’io, da sé solo, non ha un avvenire e non può vincere l’impossibilità radicale della morte perché non riesce a conservare in rapporto al mistero la propria personalità. Si è già sottolineato come proprio il pensiero della morte come impossibilità per eccellenza rappresenti uno dei più grandi elementi di distanza di Levinas rispetto alla filosofia di Heidegger. Salmeri aggiunge, a questo proposito, come Il Tempo e l’Altro rappresenti una vera e propria polemica contro il concetto heideggeriano di tempo come orizzonte dell’essere e un suo capovolgimento: «non più l’orizzonte donde comprendere che cos’è l’essere umano, ma piuttosto che cosa egli non è, ovvero che capacità e necessità abbia d’incontrare ciò che è assolutamente altro e inconoscibile»[91].
L’inconoscibile, tuttavia, non è soltanto l’altro in quanto altro, Altri-femminile, ma anche la prospettiva che questo incontro dischiude, quella del futuro e dell’avvenire: «la relazione con altri [autrui], è l’assenza dell’altro; non assenza pura e semplice, non l’assenza del puro nulla, ma assenza in un orizzonte di avvenire, un’assenza che è il tempo»[92]. Come si diceva nel paragrafo precedente, Levinas ritrova nella relazione con il femminile un rapporto con il mistero non annientante la soggettività, qui non più virilità e solitudine ma pensata in una dimensione di passività, di non potere sull’altro. Si tratta, tuttavia, di una passività lieta, la possibilità di speranza dell’io di un vero inizio, un uscire da sé del soggetto che non significa il ritorno nell’il y a impersonale. Il femminile dischiude il futuro e rende possibile un avvenire autentico, quel radicale ricominciare dell’io senza ricadere su di sé che è rappresentato dalla fecondità e dalla paternità. Tratterò di questi aspetti più dettagliatamente nel prossimo paragrafo.
Prima di intraprendere il discorso sulla paternità, mi sembra opportuno aggiungere un ultimo elemento alla caratterizzazione del femminile, richiamando una caratteristica ulteriore che ne completi la fisionomia. Dicevo all’inizio che il concetto presenta un’intrinseca complessità che non ne giustifica completamente l’identificazione con l’essere donna. Tuttavia, la stessa complessità non conduce ad una chiara affermazione di reciproca esclusione dei due termini. Accennerò adesso una considerazione, che riprenderò nel secondo capitolo anche alla luce delle molteplici critiche che il concetto levinassiano di femminile ha suscitato. La scelta di rimandare una discussione più ampia sul tema, limitandosi in questo capitolo a qualche osservazione preliminare, è dettata dal fatto che Levinas stesso riconosce, diversi anni dopo, che il suo pensiero era in quegli anni ancora in formazione[93] ed ha, come ulteriore ragione, la constatazione che la maggior parte delle critiche al femminile provengono dalla lettura del più maturo pensiero levinassiano esposto in Totalità e Infinito. Mi limiterò, dunque, a rintracciare alcuni elementi che mettano in luce, già in questa fase iniziale del pensiero autonomo di Levinas, la grande complessità del tema del “femminile”.
Nel 1949, appena un anno dopo la pubblicazione delle quattro conferenze che costituiscono Il Tempo e l’Altro, una voce autorevole del pensiero “femminista” si levava contro Levinas. Si tratta di Simone de Beauvoir, che nel Secondo sesso poteva accusare esplicitamente Levinas di “maschilismo” e di non aver concettualizzato la donna a partire da se stessa, quanto piuttosto in relazione all’uomo: «Elle se détermine et se différencie par rapport à l’homme et non celui-ci par rapport à elle; elle est l’inessentiel en face de l’essentiel. Il est le Sujet, il est l’Absolu: elle est l’Autre»[94]. Dunque, la descrizione di Levinas non sarebbe affatto obiettiva, ma adotterebbe un punto di vista che privilegia il maschile rispetto al femminile[95]. Salmeri, richiamando la posizione della de Beauvoir, fa notare come, in effetti, soprattutto qualificando il pudore e il nascondersi come caratteristiche principali del femminile, il filosofo adotterebbe un punto di vista conservatore. Tuttavia, egli ritiene che il problema maggiore risiederebbe nell’irrigidire il maschile nel ruolo di soggetto e nel dare al femminile solo lo status di “altro” senza impegnarsi in una determinazione positiva del concetto[96]. Certo, Salmeri riconosce anche come sia difficile pronunciare, in questa fase della produzione filosofica di Levinas, l’ultima parola sul suo concetto di femminile, essendo un’idea ancora molto instabile e non trattata distesamente come avviene nel pensiero successivo del filosofo.
È su questo aspetto che vorrei brevemente soffermarmi, condividendo solo in parte la posizione di Salmeri, nella misura in cui effettivamente negli scritti di quel periodo il femminile risulta ancora non pienamente definito come concetto. Tuttavia, ritengo troppo severo il suo giudizio secondo il quale l’immagine complessiva del femminile esposta ne Il Tempo e l’Altro lasci il sospetto al lettore di avere a che fare con «banalità vagamente conservatrici, un po’ dogmatizzate dalla patina fenomenologica che le avvolge»[97].
Da una parte, è indubitabile che le immagini che Levinas usa intreccino in una certa misura il “femminile” e la “donna”. Basti riportare alla mente quanto si diceva sulla grandissima presenza nei Quaderni di personaggi letterari femminili, nonché la centralità delle donne nei tentativi di scrittura letteraria del filosofo ed anche il fatto che Levinas stesso rimandi costantemente ai personaggi delle donne misteriose di Dante, Goethe, Proust e Bloy, pur riconoscendo come legittime e positive per la civiltà le conquiste dei movimenti femministi[98]. Interessante, a tal proposito, è anche un esempio che Levinas riferisce nella conferenza Parola e silenzio del 1948, che rimanda al brano della Genesi relativo alla creazione della donna dopo l’attribuzione da parte dell’uomo dei nomi agli animali e la sua infelicità per il fatto di non avere un aiutante. Scrive Levinas:
Infelicità che si risolve con l’apparizione del femminile perché in esso l’uomo riconosce la sua propria sostanza – perché il rapporto con il femminile è proprio il compimento della sua nostalgia dell’essere altro: Essere l’altro è insensato se lo si immagina come un’identificazione con lui perché allora non si è più se stessi, si è completamente l’altro […]. Originalità di una relazione che sfugge[99].
Non intendo certamente negare che, citando il “non è buono per l’uomo essere solo” della Genesi, Levinas abbia in mente che, nel caso della creazione di Eva – che in questo luogo non viene nominata esplicitamente dal filosofo ma è naturalmente sottintesa – il femminile sia concretamente rappresentato dalla donna. Si tratta, tuttavia, di un esempio che, come gli altri che Levinas evoca trattando del femminile, non vanno interpretati, a mio giudizio, secondo delle rigide categorie di genere, perché formulati nel contesto di una riflessione sull’alterità radicalmente altra di Altri e sull’opportunità eccezionale offerta al soggetto: l’avvenire. D’altronde, Levinas stesso precisa, nell’Introduzione de Il Tempo e l’Altro, che in realtà ciò che lo interessava veramente era il manifestarsi della differenza radicale, quella offerta dalla sessualità e prospetta la possibilità di capire che cosa la mascolinità possa significare per la donna[100].
Naturalmente, non è possibile dare un giudizio univoco sull’argomento. Basti pensare alla complicazione inevitabile della questione se ci si riferisce al costante richiamo, almeno in questa fase, alla paternità senza che venga mai chiamata in causa la sua controparte femminile, la maternità. Situazione la cui difficoltà si infittisce ulteriormente se si considera che, invece, nell’ultima fase del suo pensiero Levinas ribalterà completamente questa prospettiva. È forse preferibile condurre l’indagine accogliendo l’intrinseca complessità non solo del concetto di femminile, ma di molti altri temi della filosofia di Levinas che, più che rappresentare delle soluzioni definitive, hanno delle tensioni interne e sono suscettibili di costanti evoluzioni.
Relativamente al punto di vista “di genere” del filosofo nelle descrizioni del femminile, si può forse capire perché la prospettiva dell’indagine sia in qualche misura maschile. Ammettendo questo concetto come premessa del ragionamento, non si può non essere condotti a riflettere sulla critica della de Beauvoir e a chiedersi se, effettivamente, il femminile non sia soltanto l’Altro dell’uomo e non abbia una propria connotazione positiva. È una risposta non facile, ma credo che l’accentuazione di caratteri come la differenza o la condizione di altro del femminile si possano spiegare tenendo conto di alcuni elementi.
Il primo riguarda il fatto che le riflessioni di Levinas sono ancora in una fase iniziale ed egli sta cercando, per l’appunto, un modo di essere dell’Altro che lo renda Assolutamente Altro, non inglobabile nell’orizzonte del mondo del soggetto. Appare forse semplice, ma non credo banale, la considerazione secondo la quale per un pensatore interessato a rintracciare una relazione con l’alterità in quanto tale ed a compiere questo tentativo a partire dall’analisi di situazioni concrete, la donna possa risultare la manifestazione ineludibile dell’altro come irriducibile a sé. La donna può essere per un uomo che esercita il metodo fenomenologico l’altro la cui differenza è talmente evidente da risultare insuperabile.
In secondo luogo, come anticipavo all’inizio del paragrafo, credo ci si debba anche chiedere se con “femminile” Levinas intendesse esclusivamente la donna empirica. Quando, per esempio, il pensatore dice che nella relazione erotica non si presenta un’altra libertà, ma un faccia a faccia, il mistero di Altri, il femminile in esso[101], sembrerebbe far piuttosto riferimento al fatto che il femminile non sia concretamente solo la donna empirica, quanto la caratteristica dell’Altro (uomo o donna che sia) che si incontra nella relazione erotica.
Certo, le espressioni di Levinas hanno una certa oscillazione e non sono del tutto chiare. Credo che queste tensioni interne siano impossibili da sciogliere e comprensibili rispetto alla natura ancora in formazione del pensiero espresso negli scritti di quel periodo, ma anche perché Levinas cercava già di usare delle categorie non tradizionali per pensare il rapporto con l’alterità, con tutte le difficoltà correlate alla necessità di trovare le parole adeguate per esprimere i concetti che stava elaborando. Non potendo qualificare la differenza offerta dall’erotico come complementarità, contraddizione o specificazione di genere forse la scelta di designare il femminile come “alterità di Altri” indicava un modo più adeguato per cercare di far emergere l’Altro senza ricondurlo al potere del soggetto.
Dunque, più che l’Altro rispetto all’uomo (considerando anche che il “virile” non è una caratteristica riferita soltanto all’essere umano di genere maschile, ma al soggetto isolato e saldo nel suo presente che, concretamente, non è escluso possa essere una donna), un Altro che si ottiene per differenza dal soggetto, il femminile in Altri è Altro perché non ha un genere comune al soggetto. La sua differenza non si ottiene come opposizione, ma gli è propria in modo che è l’Altro in sé e assolutamente, Autrui.
Queste osservazioni conducono a porre una domanda ulteriore che potrebbe dare altri elementi importanti per inquadrare lo status del femminile: è l’unica manifestazione dell’alterità? L’altro in quanto altro coincide esclusivamente con il femminile? Credo che, già da questo momento, si possa rispondere negativamente a tali questioni.
Se una certa prevalenza del femminile come alterità dell’altro è presente in questa fase, è già delineata un’ulteriore relazione “al di là del possibile”, quella con il figlio, della quale parlerò più nel dettaglio nel prossimo paragrafo. Inoltre, in futuro alle figure dell’alterità già considerate si aggiungerà una sempre maggiore centralità del tema del Visage e della prospettiva etica ad esso strettamente correlata. Sottolineo, inoltre, come tale orizzonte fosse, seppure ancora in abbozzo, già presente nel pensiero di Levinas. Egli riconosce esplicitamente in alcuni appunti databili nel 1948, che i curatori non indicano come frutto di ripensamenti successivi, come il rapporto erotico sia possibile soltanto se l’altro è prima di tutto un essere umano, un simile senza che questo implichi una sparizione dei due esseri coinvolti nella relazione d’amore in un concetto comune. L’erotico offre la differenza per eccellenza, ineludibile e non superabile, ma è necessario anche, secondo il filosofo, un volto umano dietro la differenza del sesso[102].
Concludendo, credo che in virtù del proprio “punto di vista di genere” e del proprio metodo filosofico, Levinas possa essere stato, inizialmente, portato a riconoscere più facilmente l’Alterità d’Altri offerta dalla differenza sessuale, il femminile, quale si concretizza nella donna empirica. Come ho più volte detto, probabilmente agli occhi di Levinas in una donna “il femminile in Altri”, la sua differenza ineludibile, risultava più riconoscibile rispetto a quella di un uomo. Tuttavia, il femminile ha una connotazione molto più ampia che può essere estesa alla differenza sessuale che emerge nel rapporto erotico in modo che, per come Levinas inquadra questo concetto, non è escluso che anche un uomo possa avere in sé “la femminilità”, intendendo con questo termine la propria irriducibile alterità e che, in questo caso e dalla prospettiva di una donna concreta, si dirà mascolinità.
Il discorso è complesso e non può prescindere dall’ambiguità di certe espressioni e da tensioni interne. Tuttavia, ciò che mi sembra evidente è che per Levinas la donna non sia esclusa affatto dalla dimensione propria dell’umano, quella etica. Ritengo che, dunque, se nel pensiero di Levinas esista un certo punto di vista maschile, ciò non implica immediatamente e necessariamente che sia anche maschilista.
Infine, nonostante mi sia soffermata a lungo in questo paragrafo sul problema e lo farò anche nel prossimo capitolo poiché ha suscitato molte critiche e perché, in effetti, affrontando i testi alcune domande in proposito sorgono spontaneamente, ritengo che condurre un’analisi sul concetto di femminile nelle opere di Levinas estremizzando la questione della “prospettiva di genere” distolga probabilmente l’attenzione dal tentativo fondamentale nel quale il filosofo era impegnato quando lo evocava: la possibilità di una vera libertà offerta all’io grazie al mistero dell’avvenire, quell’avvenire che è l’Altro[103].
Nel rapporto col femminile, come anticipavo, è implicato infatti un futuro del tutto imprevisto, non progettabile che permette la situazione paradossale di un io che sopravvive, che è ancora, senza tuttavia ritornare a sé. Questo futuro si realizza nella fecondità e nel rapporto con il figlio.
1.4. Fecondità, paternità e implicazioni dell’Eros.
Nella relazione con il figlio Levinas vede compiuto un mistero ancora più grande di quello che avviene nell’incontro con il femminile e la vera realizzazione della “speranza per il presente” che il filosofo evocava già in Dall’esistenza all’esistente. Nelle pagine finali dell’opera Levinas accostava i concetti di tempo e fecondità, ritrovando proprio nel tempo quella salvezza che «non può giungere che da un altrove, mentre tutto il soggetto è qui»[104]. Si tratta di un rapporto del tutto particolare con l’avvenire ed il compimento di quella vittoria sulla morte che all’io virile risulta impossibile.
La paternità è, infatti, quella relazione che consiste in un autentico ricominciare senza ritornare a sé, la realizzazione, come si accennava nel precedente paragrafo, di una situazione paradossale nella quale l’io sopravvive personalmente senza, tuttavia, che ricominci inalterata la sostanza che nell’istante del presente sempre ritornava su se stessa. A questo proposito, Levinas scrive: «la paternità è la relazione con un estraneo che, pur essendo altri [autrui], è me; la relazione dell’io con un me stesso, che è tuttavia estraneo a me»[105].
Tutte le pagine levinassiane del periodo relative a questa relazione cercano, analogamente a quanto avveniva per il femminile, di rileggerla al di là della categorie tradizionali con la quale è possibile pensarla.
Così, il rapporto con il figlio non si colloca mai in una dimensione di potere, caratteristica questa strettamente legata al “porsi” ed al “presente”, elementi del tutto estranei alla relazione con l’avvenire. Si tratta, piuttosto, del non potere per eccellenza, perché il figlio non è un prodotto del genitore e nemmeno una sua proprietà:
Il figlio non è semplicemente la mia opera come un poema o un oggetto. Non è nemmeno mia proprietà. Né le categorie del potere, né quelle dell’avere descrivono la mia relazione con il bambino. La fecondità dell’io non è causa, né dominazione. Io non ho mio figlio, io sono mio figlio. La paternità è la relazione con un estraneo che pur essendo altri è io; una relazione dell’io con un sé che tuttavia non è io. Nell’ “io sono” – l’essere non ha più l’unità eleatica. Nell’esistere stesso c’è una molteplicità e una trascendenza. Trascendenza in cui l’io non viene portato via, poiché il figlio non è io; e tuttavia io sono mio figlio[106].
Dunque, Levinas cerca di riscoprire tutto il significato ontologico della relazione padre/figlio. Si tratta di quel “termine comune” fra i due esseri coinvolti nella relazione erotica che, autenticamente, rende possibile l’evento dell’evasione. È assolutamente necessaria, secondo Levinas, la posteriorità del terzo perché, se questo fosse contemporaneo, si perderebbe la dualità dei termini coinvolti nella relazione erotica. Infatti, il filosofo aveva ricercato nella differenza sessuale il luogo della socialità autentica proprio eludendo la partecipazione al terzo, all’idea comune che fonda la collettività tradizionale: «ho tentato di contrapporre la collettività dell’ “io-tu”, non assumendola tuttavia nel senso di Buber, presso il quale la reciprocità è ancora legame fra due libertà separate, e presso cui il carattere ineluttabile della soggettività isolata è sottovalutato»[107]. Riprenderò più dettagliatamente la presa di distanza di Levinas rispetto a Buber nel secondo capitolo di questa tesi, limitandomi qui a richiamare l’idea espressa da Levinas secondo la quale il rapporto simmetrico rintracciato da Buber nella relazione io-tu non sia un modo abbastanza radicale di pensare l’alterità di Altri. Certamente, Buber ha presentato un’alternativa al pensiero dell’essere che è tratto caratteristico della filosofia sin da Parmenide e che ha trovato in Platone uno dei suoi esponenti principali. Platone disconosce completamente la relazione fra individui nei termini di radicale dualità e non conferisce un ruolo autentico al femminile perché la sua filosofia della luce e delle idee costruisce una collettività di “fusione”, di partecipazione ad un orizzonte comune che funge da terzo termine: «È la collettività che dice “noi”, che, rivolta verso il sole intelligibile, verso la verità, sente l’altro a fianco a sé, e non di fronte a sé»[108].
Il figlio, diversamente dall’idea platonica del Sommo Bene, può essere pensato in modo adeguato come un terzo fra i due coinvolti nella relazione erotica in quanto non è loro simultaneo; infatti, se questo «si ponesse nell’abisso inoltrepassabile che separa il soggetto dall’alterità totale del femminile – il soggetto porterebbe con sé, nella sua evasione, la base ultima di sé. L’io non sarebbe evaso da sé, ma avrebbe conosciuto solo un avatar»[109].
Nella relazione padre/figlio si continua la realizzazione di un esistere pluralista già annunciato nell’erotismo, una relazione nella quale l’io fecondo sopravvive nel figlio che ha con il padre una relazione “sostanziale” – in Totalità e infinito Levinas parlerà in termini evocativi di transustanziazione – mantenendo, tuttavia, intatta la propria alterità. D’altra parte, il concetto di fecondità permette di risolvere il problema dell’origine dell’esistenza, di fronte alla quale l’io non ha potere e per la quale non si è deciso, dando ad essa un senso: il soggetto non è solo padre di suo figlio, ma anche figlio del proprio padre e l’essere figlio creato riesce ad infrangere la tragedia di un’origine insensata, perché il figlio è sé ma «non esiste interamente per conto proprio, in quanto figlio che si riferisce all’esistere di un Altro»[110].
Rispetto alle considerazioni precedenti, appare chiaro il legame fondamentale tra eros, femminile e fecondità e come, in realtà, l’eros come avvenire si compia concretamente nel figlio. Stella Sandford vede proprio nella relazione filiale la realizzazione più profonda della dimensione erotica e fa notare come non sia effettivamente possibile separare eros e fecondità, anzi come la relazione erotica non esista come fine a se stessa:
Even in Existence and Existents and Time and the Other, where the possibility of transcendence in the erotic relation is spoken of most warmly, Levinas always has an eye on the future of eros in fecundity. Eros as pure gratuitous expenditure, exhaustion, that which does not produce – (engender) but rather uses up, is never really considered. Even that which is most carnal in erotic nudity – voluptuosity, the caress – always transcends the flesh and ends not in physical gratification, but in a future possibility for ethics[111].
In effetti, nella descrizione dell’erotismo la dimensione sottolineata a più riprese non riguarda l’aspetto dell’eros puro ma l’apertura verso l’avvenire, il futuro come nuovo inizio che, concretamente, viene reso possibile dal figlio.
Nel rapporto con il figlio, inoltre, emerge forse con maggiore chiarezza il tentativo levinassiano di ripensamento della soggettività rispetto alla filosofia tradizionale, tentativo già iniziato nelle riflessioni sull’origine del sociale come rapporto con Altri-femminile. In entrambi i casi, infatti, Levinas coglie nell’io una dimensione diversa da quella della conoscenza, del potere, dell’identità, del possibile come ciò che si riferisce alla dimensione di attività del soggetto singolo. Si può asserire che, tanto rispetto al femminile quanto rispetto al figlio, l’io sia passivo perché non può esercitare un potere sull’altro e non ne può eludere l’alterità. Tuttavia, rispetto a quanto avveniva nel rapporto col femminile, emerge una dinamica ulteriore. Non si tratta solo di essere di fronte all’alterità di Altri, l’altro che è altro e non è me, ma l’altro che, pur essendo se stesso è anche me pur non confondendosi mai con la mia sostanza. La dialettica del soggetto identico a sé si trova modificata sostanzialmente[112].
La categoria di paternità appare dunque, insieme al femminile, come elemento centrale nel pensiero levinassiano di questo periodo. Tuttavia credo che, come accennavo nel precedente paragrafo rispetto al discorso sul femminile, anche in questo caso potrebbe risultare fuorviante dare troppa enfasi “di genere” alle riflessioni su questi concetti, anche se effettivamente in questa fase del suo pensiero Levinas non parla apertamente della maternità. Tuttavia, lo stesso filosofo diversi anni dopo rilegge il proprio pensiero ritenendo preferibile l’interpretazione metaforica di queste categorie. Senza anticipare troppo i dettagli di una questione che riprenderò alla fine del percorso nel femminile di Levinas, credo si possa sostenere sin da questa momento quanto il filosofo stesso riconoscerà in seguito, ovvero che maschile e femminile sono caratteristiche dell’essere umano senza che si possa parlare di due specie o generi distinti e come egli analizzi i concetti in una dimensione che non coincide con quella puramente biologica. A titolo esemplificativo, si può considerare come la paternità biologica sia riconosciuta come una delle figure possibili, ma non l’unica, di questo tipo di legame. Per Levinas si può essere padri senza chiamare in causa l’aspetto generativo del termine, assumendo un atteggiamento paterno nei confronti di qualcun altro. Si può, infatti, essere padre nel senso del considerare qualcuno come proprio figlio, altro “al di là del possibile”[113].
Vorrei, infine, porre l’attenzione brevemente su un’ultima considerazione. Si tratta di un elemento non centrale al fine della presente tesi, peraltro solo accennato nelle due opere principali di questo periodo e trattato poco anche nelle conferenze al Collège Philosophique relative alla fine anni Quaranta e alla prima metà degli anni Cinquanta. Tuttavia, ritengo necessario accennare a questo tema sinteticamente in chiusura del presente capitolo perché permette di intravedere anche una dimensione ulteriore resa possibile dall’erotismo e che ne sottolinea meglio l’aspetto di origine di una civiltà che non sia fondata sull’uguaglianza fra i suoi membri, intesa come annullamento dell’alterità dell’altro e partecipazione ad un ideale comune.
La fecondità apre all’umanità una nuova prospettiva, nel senso che ha delle implicazioni che evadono dalla chiusura in un rapporto a due. Levinas non nega, naturalmente, che una tale dimensione privata nel rapporto col figlio esista. Ne riconosce, anzi, esplicitamente l’intimità, trattandosi di una «relazione completamente privata dell’io con il Padre che mi elegge creandomi»[114]. Al contempo, ne viene sottolineato anche un carattere eccezionale, consistente nel garantire non soltanto all’io singolo ma anche all’umanità intera una relazione ulteriore che il filosofo indica come fraternità.
Ironicamente, Levinas sottolinea come tutta la famiglia sia sul punto di essere elevata al rango di categoria filosofica[115] ma come questa offra, in effetti, un ordine tutt’altro che contingente.
Infatti, l’io in quanto figlio è fratello accanto ad altri fratelli, perché la scelta che investe ed elegge l’io concerne anche gli altri. La fraternità è il fatto che il soggetto non è mai figlio unico, perché anche gli altri sono stati scelti ed eletti. Dunque, esiste un ordine del quale l’io è parte, nel quale egli può essere al contempo unico ed eguale agli altri. Ciò che mi premeva sottolineare con queste brevi considerazioni è che la comunità ed il correlativo problema della giustizia sono prospettive che emergono a partire dalla fraternità e questa, a sua volta, rimanda alla fecondità ed alla dimensione erotica come luogo della relazione con l’avvenire.
Come anticipavo, non mi è possibile che un breve accenno, perché sarebbe impossibile in questa sede affrontare il tema levinassiano della giustizia in tutte le sue articolazioni, tematica molto ampia la cui trattazione mi porterebbe troppo lontano dai limiti della tesi. Tuttavia, era necessario chiarire come, in effetti, il problema della costituzione di una società giusta come società di fratelli possa essere affrontato a partire dalla caratteristica stessa della socialità originaria rintracciata nel rapporto con il femminile:
[la fraternità] non è un punto di partenza ma un punto d’arrivo che rinvia a tutte le implicazioni dell’eros. Infatti, per porsi nella fraternità e per essere noi stessi il povero, il debole e il miserabile, l’intermediario del padre, e per postulare il padre che non è semplicemente una causa o un genere, occorre l’eterogeneità tra l’io e l’altro[116].
Eterogeneità, questa, che Levinas ha rintracciato proprio nel rapporto con il femminile, non semplicemente caratteristica fra le altre ma alterità dell’altro in quanto altro.
[1] Cfr. Voce “Femminile” in Treccani Vocabolario Online, [consultato il 13 Agosto 2017], http://www.treccani.it/vocabolario/femminile/.
[2] Cfr. S. Labate, La nascita latente del soggetto. Uno studio su Altrimenti che essere, in «Teoria», XXVI/ 2 (2006), p. 171.
[3] [Nota aggiunta il 14/10/2021] Si chiarisce come, nei mesi successivi alla stesura della presente tesi (che ha compreso il periodo Novembre 2016-Ottobre 2017), il terzo volume dedicato agli inediti levinassiani sia stato pubblicato anche in edizione italiana. Se ne riportano, per completezza e possibilità di raffronto, gli estremi editoriali: E. Levinas, Eros, letteratura e filosofia, a cura di J. L. Nancy, Bompiani, Milano 2017.
[4] Si tratta di un’edizione i cui primi due volumi in francese sono stati curati da Rodolphe Calin e Catherine Chalier ed editi da IMEC per le Éditions Grasset & Fasquelle nel 2009. Tale edizione non comprende comunque la totalità degli scritti inediti di Levinas contenuta negli archivi dell’IMEC e non ancora classificata completamente. Per quanto riguarda i primi due volumi, ho fatto riferimento alle corrispondenti traduzioni italiane: E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti [2009], ed. it. a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2011 e E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite [2009], ed. it. a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2012. Relativamente al terzo volume, non è ancora disponibile un’edizione in lingua italiana. Ho quindi utilizzato la versione francese del testo: E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), a cura di D. Cohen-Levinas e J. L. Nancy, IMEC/Grasset & Fasquelle, Parigi 2013.
[5] S. Malka, Emmanuel Levinas. La vita e la traccia [2002], trad. it. di C. Polledri, Jaca Book, Milano 2003, p. 78.
[6] Cfr. R. Calin e C. Chalier, Introduzione, in E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, op. cit., pp. 19-20.
[7] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro [1948], trad. it. di F. P. Ciglia, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44.
[8] E. Levinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo [1982], trad. it. di M. Pastrello, Città Aperta, Troina 2008, p. 50.
[9] Tale tentativo, nonché la sensibilità a tematiche come l’esistenza, il suo senso, la finitezza, le sue tonalità emotive, ha accomunato molte personalità letterarie e filosofiche operanti tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, inquadrate in categorie complesse e non univoche come “pre-esistenzialismo” ed “esistenzialismo”. Per la loro importanza dal punto di vista più specificamente letterario si possono ricordare, per esempio, autori come Kafka, Dostoevskij, Tolstoj, Cioran, Camus e Sartre. Per approfondire la questione è possibile far riferimento, oltreché alle opere letterarie degli scrittori nelle varie edizioni disponibili, a molti articoli e monografie dedicate ai singoli autori. Per esempio, fra le monografie più recenti in lingua italiana è possibile consultare F. Livi, Albert Camus. Alla ricerca della verità sull’uomo, Leonardo da Vinci, Roma 2013 o G. Pacini, Fëdor Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002. Per un approccio generale al clima esistenzialista in letteratura, invece, è possibile far riferimento, per esempio, a X. Ducos, Histoire de la littérature française, Hachette, Parigi 1992, in particolare pp. 399-403.
Si veda, infine, la voce “Existentialism” di Encyclopedia Britannica Online [consultato il 20 Aprile 2017], https://www.britannica.com/topic/existentialism.
[10] Si vedano, per approfondire la questione, i saggi dedicati a Proust, Celan, Jabés, Laporte, Leiris e Picard, ma anche il testo di riflessione sull’opera d’arte nelle sue varie forme La realtà e la sua ombra. Tutti i testi sono contenuti in E. Levinas, Nomi propri [1976], trad. it. di F. P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984. Si veda, inoltre, E. Levinas, Su Blanchot [1975], trad. it. di A. Ponzio, Palomar, Bari 1994.
[11] J. L. Nancy, Préface, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), op. cit., p. 15.
[12] Ivi, p. 20.
[13] E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, op. cit., p. 152.
[14] Ivi, p. 87.
[15] Per approfondire il tema del rapporto tra Levinas e letteratura rimando a A. Gibson, Postmodernity, ethics and the novel. From Leavis to Levinas, Routledge, Londra & New York 1999, in particolar modo al capitolo 4, Proustian ethics, che discute dell’intreccio tra etica e letteratura nei romanzi di Proust scorgendo in essi la messa in scena per eccellenza del rapporto con l’alterità. Gibson sostiene che «to read the Recherche in ethical terms is not merely to formulate it as an example or illustration of Levinas’s philosophy. It is to recognize, too, that, whilst Proust’s novel is constantly illuminated by Levinas’s thought, it also constitutes a complement and a challenge to that thought. In fact, the Recherche may be read as a powerful extension of Levinasian ethics into domains before which the philosophical vocabulary falters and fails» (Ivi, p. 112). Rimando, infine, a T. Sessler, Levinas and Camus. Humanism for the Twenty-First Century, Continuum, Londra 2008. Sessler utilizza come linea guida del proprio studio comparativo tra Levinas e Camus alcuni elementi comuni ai loro orizzonti di pensiero: la critica al nazismo e alla “politica nitzeschiana”, la presa di distanza dal pensiero della totalità e l’allontanamento dai fondamentalismi religiosi e geo-politici.
[16] Cfr. E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, op. cit., p. 87.
[17] Ivi, p. 116.
[18] Ivi, p. 149.
[19] Ivi, p. 161.
[20] Nella presente tesi ho preso in considerazione, come anticipavo, esclusivamente i due abbozzi di romanzi perché in essi più evidentemente si riscontrano i tratti salienti del femminile che emergono anche nelle prime opere filosofiche di Levinas. La produzione letteraria del filosofo, comunque, comprende anche delle poesie e dei racconti in lingua russa risalenti agli anni Venti ed integrati nel terzo volume di scritti inediti grazie ad una traduzione in francese curata da Leonid Kharlamov. Questo materiale potrebbe fornire uno spunto per un’indagine più approfondita sulla scrittura letteraria di Levinas che in questa sede non mi è possibile compiere. A titolo esemplificativo suggerisco come, in un abbozzo di racconto del titolo Charles Mullen, Levinas utilizzi il pretesto della morte della fidanzata di uno dei personaggi per mettere in scena l’idea che la morte come nulla sia sperimentabile solo in quanto morte dell’Altro (cfr. E. Levinas, Charles Mullen, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie [inédits, oeuvres 3], op. cit., pp. 291-295), tema importante negli sviluppi successivi del suo pensiero.
[21] Cfr. E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, op. cit., p. 85.
[22] Cfr. R. Calin e C. Chalier, Introduzione, Ivi, pp. 20-21, note 3 e 4.
[23] Ivi, p. 23.
[24] Cfr. E. Levinas, Eros ou Triste opulence, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), op. cit., p. 37.
[25] Ivi, p. 41.
[26] Ivi, p. 42.
[27] Cfr. Ivi, p. 49.
[28] Ivi, p. 50.
[29] Cfr. R. Calin e C. Chalier, Introduzione, in E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, op. cit., p. 24.
[30] E. Levinas, Eros ou Triste opulence, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), op. cit., p. 51.
[31] Ibidem.
[32] Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità [1961], trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2016, pp. 263-264.
[33] E. Levinas, La dame de chez Wepler, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), op. cit., p. 119.
[34] Cfr. Ibidem.
[35] Cfr. E. Levinas, Notes philosophiques sur éros, Ivi, pp. 177-187.
[36] E. Levinas, La dame de chez Wepler, Ivi, p. 120.
[37] Cfr. Ibidem.
[38] Cfr. Ivi, p. 121.
[39] Ibidem.
[40] Ivi, p. 124.
[41] Cfr. P. A. Rovatti, Premessa all’edizione italiana, in E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente [1947], trad. it. di F. Sossi, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. VII.
[42] Nonostante sia leggermente precedente rispetto al testo del 1947, non può essere considerato insieme a questi due articoli un terzo lavoro, Il y a, pubblicato in «Deucalion», 1 (1946), pp. 141-154 . Lo scritto viene infatti ripreso nell’Introduzione e nel secondo paragrafo del terzo capitolo di Dall’esistenza all’esistente, quindi è chiaramente già nell’orbita della riflessione levinassiana della fine degli anni Quaranta.
[43] Cfr. E. Levinas, Prefazione, in E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo [1934], trad. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996, pp. 21-22.
[44] Per approfondire la questione si rimanda alle seguenti opere di Levinas: La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl [1930], trad. it. di V. Perego, Jaca Book, Milano 2002; Martin Heidegger e l’ontologia [1932] e L’opera di Edmund Husserl [1940] in E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger [1949], trad. it. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998.
[45] Si vedano, per esempio: L’inspiration religieuse de l’Alliance (in «Paix et Droit», 8 [1935], p. 4), Fraterniser sans se convertir (in «Paix et Droit», 16/8 [1935], p. 12), L’actualité de Maïmonide (in «Paix et Droit», 4 [1935], pp. 6-7).
[46] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 13.
[47] Cfr. E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 163 nota I.
[48] Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 11.
[49] E. Levinas, Parola e silenzio [1948], in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 71.
[50] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 21.
[51] E. Levinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., pp. 59-60.
[52] E. Levinas, Martin Heidegger e l’ontologia, in E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., p. 64.
[53] E. Levinas, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, op. cit., pp. 39-40.
[54] Cfr. E. Levinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., p. 56.
[55] Cfr. P. A. Rovatti, Premessa all’edizione italiana, in E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. XV.
[56] Cfr. E. Levinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., p. 65.
[57] Cfr. E. Levinas, Su Blanchot, op. cit., p. 49.
[58] Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., pp. 50-56 e, inoltre, E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., pp. 21-25.
[59] Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 59.
[60] Ivi, p. 66.
[61] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., pp. 26-27.
[62] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., pp. 66-67.
[63] E. Levinas, Parola e silenzio, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 71.
[64] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 29.
[65] E. Levinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., p. 73.
[66] E. Levinas, De l’Évasion [1935-36], Fata Morgana, Montpellier 1982, p. 73.
[67] P. Ruminelli, L’io nella relazione metafisica di Levinas, in «Idee», 16 (1991), p. 96.
[68] Cfr. E. Levinas, Eros ou Triste opulence, in E. Levinas, Eros, littérature et philosophie (inédits, oeuvres 3), op. cit., p. 51.
[69] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 35.
[70] E. Levinas, I nutrimenti [1950] in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 150.
[71] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 77.
[72] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo [1927], trad. it. di A. Marini, Mondadori, Milano 2008, in particolare i primi due capitoli della seconda sezione, Il possibile essere-intero dell’esserci e l’essere-alla morte e L’attestazione propria dell’esserci di un autentico poter essere e la risolutezza.
[73] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 42.
[74] Cfr. Ivi, p. 45.
[75] Cfr. Ivi, p. 49.
[76] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 34.
[77] Cfr. Ivi, pp. 33-34.
[78] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 18.
[79] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 77.
[80] M. di Bernardo, Emmanuel Levinas: la metamorfosi del femminile come via che conduce all’«altrimenti che essere»?, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» [consultato il 28 Aprile 2017] , https://mondodomani.org/dialegesthai/mdb01.htm#top.
[81] Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 88.
[82] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 55.
[83] Cfr. Ibidem.
[84] E. Levinas, Gli Insegnamenti [1950], in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 178.
[85] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 56.
[86] E. Levinas, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, op. cit., pp. 58-59.
[87] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 36.
[88] Ivi, p. 37.
[89] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 56.
[90] G. Feretti, Emmanuel Levinas, in A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, Carocci, Roma 2015, p. 226.
[91] G. Salmeri, L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» [consultato il 28 Aprile 2017].
https://mondodomani.org/dialegesthai/gs03.htm
[92] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 59.
[93] Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 3.
[94] S. de Beauvoir, Le deuxième sexe [1949], Gallimard, Parigi 1976, p. 14.
[95] Cfr. Ivi, pp. 14-15, nota 1.
[96] Cfr. G. Salmeri, L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, op. cit.
[97] Ibidem.
[98] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., pp. 55-56.
[99] E. Levinas, Parola e silenzio, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 88.
[100] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 14.
[101] Cfr. E. Levinas, Parola e silenzio, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 76.
[102] Ivi, p. 88.
[103] Cfr. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 49.
[104] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 85.
[105] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., pp. 59-60.
[106] E. Levinas, Gli Insegnamenti, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 179.
[107] E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, op. cit., p. 62.
[108] Ibidem.
[109] E. Levinas, Parola e silenzio, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 89.
[110] E. Levinas, Poteri e origine [1949], in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 129.
[111] S. Sandford, The Metaphysics of Love. Gender and Transcendence in Levinas, The Athlone press, Londra 2000, pp. 71-72.
[112] Cfr. E. Levinas, Gli insegnamenti, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 179.
[113] Cfr. E. Levinas, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, op. cit., pp. 79-81.
[114] E. Levinas, Gli Insegnamenti, in E. Levinas, Parola e silenzio e altre conferenze inedite, op. cit., p. 180.
[115] Cfr. Ibidem.
[116] E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 87.