Maria Cristina Carratù
In preparazione una mostra tematica degli Uffizi. Fra i pezzi forti il primo grande plastico mai realizzato del ghetto del 1721, e le ricostruzioni documentarie della vita e delle opere di due figure inedite: il pittore Jona Ostiglio e il commerciante Moise Vita Cafsuto
Dei tanti aspetti storico-culturali della longeva dinastia medicea, poco si sa dei suoi rapporti con il mondo ebraico, iniziati, nel 1437, con l’invito rivolto da Cosimo il Vecchio ai prestatori di denaro ebrei (primo nucleo della futura comunità ebraica locale). Non soltanto materiali, in realtà, come rivelerà con dovizia di documenti, a conferma della grande varietà di forme in cui il mondo ebraico fiorentino dell’età moderna è stato vissuto, osservato, interpretato, e raffigurato in ambito storico artistico, una grande mostra tematica degli Uffizi, in preparazione per l’autunno, articolata per fasi – l’ascesa della dinastia medicea (che, per costruire il proprio mito fondativo, attinge a piene mani a un trasfigurato immaginario biblico), il lungo periodo del ghetto (istituito nel 1571 da Cosimo I), e infine l’abbattimento dell’ex quadrilatero della segregazione, ormai abbandonato e fatiscente, nell’Italia unita. Fra i pezzi forti della mostra, il primo grande plastico mai realizzato del ghetto del 1721, ricostruito con le mappe catastali del tempo nei suoi meandri di scale, corti, appartamenti, botteghe.
E “pezzi” forti saranno anche le ricostruzioni documentarie della vita e delle opere di due inedite figure di ebrei dell’era del ghetto (ma che operarono soprattutto fuori): il pittore Jona Ostiglio, che, caso unico nella storia dell’arte, sfidando le restrizioni del tempo, e le stesse norme ebraiche (contrarie alla rappresentazione iconografica), visse e lavorò nel ‘600 alla Corte dei Medici, e di cui saranno esposti alcuni quadri “ritrovati” dopo secoli di oblìo; e il commerciante, gioielliere, diplomatico, e viaggiatore Moise Vita Cafsuto, a cui ha appena dedicato un libro (Il mondo fuori dal ghetto. I viaggi di Moise Vita Cafsuto, gioielliere dei Medici, ed. Paideia) lo storico dell’ebraismo italiano e studioso dell’emancipazione Asher Salah, autore di due diari di viaggi (compiuti fra il 1733 e il 1743), scritti in italiano (anziché in ebraico, come in uso all’epoca fra gli ebrei colti), di cui la mostra esporrà alcune pagine.
Davvero rocambolesca la scoperta dei quadri di Ostiglio, che si deve alle ricerche congiunte dell’ebraista Piergabriele Mancuso, direttore dell’Eugene Grant Jewish History Program del Medici Archive Project di Firenze, e della funzionaria degli Uffizi Maria Sframeli. Incuriosito da una isolata citazione di questo sconosciuto pittore ebreo, Mancuso ne trova una vecchia biografia, scopre che era nato nel ghetto intorno al 1620/30, dove aveva svolto umili lavori, per poi entrare come garzone in uno studio d’arte, e quindi avviare una intensa attività artistica in proprio fuori dal ghetto, come apprezzato pittore di paesaggi e vedute alla maniera di Salvator Rosa (del tutto estranea all’iconografia ebraica), con importanti commissioni dei Medici e di facoltose famiglie fiorentine, come i Mannelli. Finché nel 1680 era entrato nella esclusiva Accademia delle Arti e del disegno (unico ebreo, fino a fine ‘800). Dei suoi quadri, però, nulla sembrava rimasto, finché, tramite Maria Sframeli, si scopre che nei registri medicei sono indicate come “opere di Ostiglio”, con tanto di misure, 7 quadri di quelle stesse misure finiti nei depositi di Uffizi e Pitti, e fin lì attribuiti ad anonimi.
E una vita fuori del comune è anche quella dell’ebreo fiorentino Moise Vita Cafsuto (un cui discendente collaterale sarà il rabbino capo di Firenze Nathan Cassuto), esponente, spiega Salah, “di una Firenze internazionale, aperta al Mediterraneo quanto se non più di Livorno”, nato e cresciuto nel ghetto, ma che vivrà con la famiglia in due ville al Romito e a San Martino a Mensola, a conferma di come il ghetto fiorentino (al di fuori del quale viveva, nel ‘700, il 50% della popolazione ebraica) “fosse, almeno per le classi più elevate, molto più poroso di quanto si creda”. Fornitore di drapperie e preziosi per i Medici (e coinvolto nel tentato acquisto del leggendario “diamante fiorentino”), gestore dei poderi di famiglie nobili, come i Buondelmonti, Moise è anche un agente diplomatico dei Medici e dei Lorena, per conto dei quali, viaggiando fra le Corti di tutta Europa e nell’Impero ottomano, intrattiene rapporti con gli interlocutori di più alto rango, da Federico II di Prussia, a Luigi XV, al Sultano, oltre che con intellettuali, artisti, scienziati come l’astronomo Edmond Halley.
Aperto, curioso, cosmopolita, sorprendono, sottolinea Salah, sia “l’orgoglio “fiorentino” e “mediceo” di Moise, che si commuove quando, all’estero, sente lodare i Medici”, nonché, “in lui illuminista e liberale, ammiratore della scienza e del progresso, la stretta ortodossia religiosa”, e l’afflato mistico che gli fece pensare di portare l’unico figlio a studiare in Terrasanta, in attesa dell’imminente (secondo alcuni) arrivo del Messia.
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