Lilli Spizzichino, collaboratrice dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma.
Coppia, amore, rispetto, attrazione, matrimonio, patto di lealtà, tentazioni e…tradimento., tradimento non solo fisico, ma con tale termine si può intendere anche defezione dalla propria religione. Ciò accadeva nel periodo dei ghetti quando fu istituita la Confraternita dei Catecumeni e Neofiti, nata nel 1542 a Roma per volontà di Ignazio di Loyola con lo scopo principale di convertire e battezzare prima gli ebrei e poi gli altri non-cristiani.
L’intento della Chiesa fu quello di fare più proseliti possibili allontanando gli ebrei che vivevano nei ghetti dalla propria tradizione religiosa e condurli sulla via della “rettitudine”, della conversione, del battesimo. La Chiesa assumeva un comportamento affinché l’ebreoche entrava nella Casa dei Catecumeni si isolasse completamente dal resto della sua gente interrompendo con essa ogni rapporto.
A questo punto sorge una domanda: un uomo ebreo sposato con una donna della sua stessa religione e divenuto neofita, dunque convertito, come si poneva nei confronti di sua moglie che non aveva voluto seguirlo nel suo percorso di “rinascita”?
Le donne ebree erano più restie degli uomini alla conversione, a meno che questa fosse necessaria per non perdere i figli. Ciò dava vita a situazioni assai difficili da risolvere sia per le autorità cristiane, sia per gli ebrei. Prima fra tutte il problema della restituzione della dote che il padre della sposa aveva elargito al futuro marito e la difficoltà del neofita di concedere il ghet, il divorzio alla moglie la quale le avrebbe permesso di risposarsi.
Ma le autorità ecclesiastiche su questi due problemi erano implacabili, inflessibili: era severamente proibito al convertito concedere il divorzio, pena la grave incriminazione di giudaizzazione perseguita direttamente dal tribunale del Santo Uffizio in quanto secondo il diritto canonico la situazione materiale di un neofita doveva migliorare non regredire. Ciò sta a significare che per il nuovo cristiano avere ancora relazioni con il suo mondo passato (anche solo per dare il divorzio ebraico) lo avrebbe potuto indurre alla tentazione di tornare alla fede originaria e soprattutto alla condizione sociale ed economica garantita dalla cospicua dote matrimoniale.
Non a caso, a questo scopo nel corso dei secoli venne ribadita la necessità che il convertito conservasse intatti i propri beni e non dovesse assolutamente avere relazioni con i suoi ex fratelli di fede in cambio avrebbe avuto molti privilegi tra i quali quello di muoversi liberamente per tutta la città di Roma. Certamente non mancarono nella Congregazione accese discussioni su casi concreti legati alla pratica frequente da parte dei mariti convertiti di concedere, segretamente, il divorzio alle mogli restate ebree per consentire loro un nuovo matrimonio. Non mancarono bandi ed editti da parte della Chiesa affinché tale pratica definita dalle autorità ecclesiastiche “superstiziosa e giudaizzante” fosse severamente proibita ai neofiti. A ribadire ciò il 16 settembre 1747 Papa Benedetto XIV emanò il bando Apostolici ministerii munsus nel quale dichiarava il suo assenso alla rottura del matrimonio di ebrei in caso di conversione di uno dei coniugi, ma confermando il divieto al marito convertito di concedere il divorzio secondo la tradizione religiosa ebraica (ghet).
La discussione su questo tema, nel corso dei secoli fu molto vivace sia da parte della Chiesa che tra gli ebrei e ovviamente tutto ciò si “rovesciava” sulle questioni delle doti matrimoniali. Non mancavano espedienti per il neofita in modo tale da concedere il ghet e liberare sua moglie da questo vincolo che le avrebbe impedito un altro matrimonio. Ma comunque restava il problema della dote che il marito convertito aveva ricevuto dalla famiglia della sposa.
Vorrei citare il caso di un famoso convertito veneziano Giulio Morosini, già Samuel Naemias che in un memoriale del 1676, indirizzato al Santo Uffizio inoltrava la richiesta di trovare una soluzione ad un problema per gli effetti gravosi e vendicativi soprattutto da un punto di vista economico relativo alla restituzione della dote all’ex moglie. Scriveva Morosini:” E perché a me stesso è intervenuta questa disgrazia di incontrare la consorte ostinata a non seguire l’esempio della mia conversione, (…) persecuzioni atrocissime che poco dopo mi successero, con la perdita d’ogni mio havere, importante molte decine di migliaia di scudi. Pretese la detta mia moglie per averli ciò negato (ghet e dote) (…) Di che portata la causa avanti i Giudici, uscì sentenza favorevole a lei, che anche in grado appellationis fu confermata, e mi bisognò soccombere.” E così Morosini fu costretto dai tribunali veneziani a restituire alla moglie, più che agguerrita, la dote di 7875 scudi a cui dovette aggiungere, secondo l’uso ebraico, anche la controdote inerente alla metà di questa somma. Da come ho enunciato dunque un problema non facile per chi si convertiva alla nuova fede: quesiti, complicazioni, difficoltà che si ponevano relative all’eredità, alla restituzione della dote e al mantenimento della donna abbandonata.
Concludendo, parlando di divorzi e conversioni nel periodo papale il problema fu estremamente difficile in quanto si veniva a determinare una situazione squilibrata: il marito neofita poteva contrarre un nuovo matrimonio, secondo la Chiesa, annullando così il primo, mentre la moglie ebrea rimasta nella sua fede non poteva risposarsi, secondo i Rabbini, in quanto il neofita non poteva concedere il divorzio ebraico. Infine si giunse, per tentare di risolvere il problema, ad adottare dal lato ebraico tutta una serie di espedienti e stratagemmi: una formula di compromesso nel quale il ghet si ridusse ad un atto notarile più che religioso ma che comunque non era condiviso dalle autorità ecclesiastiche. Dalla documentazione risalente al periodo storico l’impressione che si trae fu che dalle due controparti si cercò una trattativa che si espresse in una supplica da parte degli ebrei del ghetto al Santo Uffizio. La supplica della Comunità ebraica di Roma relativa al 1816 implorava un atto caritatevole da parte della Chiesa avvertendo che le mogli ebree non liberate e sposate nuovamente erano da considerarsi adultere e che “ potrà un giorno rigurgitare il Ghetto di prostitute, le più infami e peccaminose, (…) e che si doveva perciò evitare tanti scandali e peccati criminali riprovati da tutte le religioni” Dunque una minaccia alla pubblica moralità. argomento a cui anche le gerarchie ecclesiastiche erano molto sensibili.
In finale, posso dire che la questione delle conversioni degli ebrei, dei divorzi e della dote che doveva rientrare in possesso l’ex moglie andò avanti per tutto il periodo temporale dei Papi con compromessi, trattative e implorazioni da parte ebraica e si risolse solo nel 1870 quando il ghetto fu definitivamente abolito e gli ebrei equiparati agli altri cittadini italiani.