David Piazza
A un vecchio stereotipo antisemita piace rappresentare gli ebrei come un popolo di astuti commercianti che riescono a manipolare l’ambiente circostante a proprio vantaggio. Basta dare un’occhiata ai prezzi che gli ebrei sono costretti a pagare per mangiare conformemente alla legge ebraica (kashrùt) per rendersi conto di quanto sia facile smentire questo stereotipo. In particolare in Italia, dove le comunità ebraiche sono in proporzione più piccole di quelle di paesi come la Francia, la Gran Bretagna, o gli Usa il problema è ancora più acuto. Se analizziamo infatti il mercato dei controlli rabbinici e della shechità (la macellazione rituale), non c’è dubbio che la situazione italiana sia anomala rispetto a tutto il resto del mondo ebraico: quello che all’estero è un guadagno per il rabbinato, per la maggior parte degli uffici rabbinici italiani costituisce solo una spesa, più o meno pesante, a seconda della Comunità.
Eppure l’Italia è uno dei paesi i cui prodotti alimentari sono più presenti sulle tavole degli ebrei che osservano le regole della kashrùt in Israele e nel mondo. Basta entrare in un qualsiasi supermercato di Lione, Londra o Gerusalemme. Oltre a questo, se entriamo in un negozio o in una macelleria kashèr italiana è facilmente osservabile il palese e macroscopico differenziale negativo dei costi rispetto non solo a prodotti analoghi non kashèr, ma anche a prodotti kashèr venduti all’estero. Le ragioni di queste anomalie sono molteplici e complesse, vediamo di spiegarne qualcuna per sommi capi.
1. La presenza di controlli stranieri
Esiste una regola halakhica poco conosciuta e molto dibattuta. Si chiama hassagàt ghevùl, letteralmente “invasione di campo”, che prescrive che in presenza di un’autorità rabbinica locale, nessun altro rabbino “straniero”, senza il permesso di quella autorità, possa insegnare, emettere sentenze oppure, come ci riguarda da vicino, fare controlli di kashrùt. Eppure da decenni in Italia arrivano da tutto il mondo frotte di controllori, che in barba alle autorità nostrane, eseguono controlli di tutti i tipi su merci alimentari destinate all’esportazione.
Se fosse solo un problema di lesa maestà, il danno sarebbe in fondo solo di immagine. Invece gli ebrei italiani possono trovare quei prodotti controllati solo all’estero (per esempio quando sono in viaggio), obbligando il mercato locale a comprare prodotti analoghi e stranieri a carissimo prezzo.
È comprensibile argomentare che fino a qualche anno fa, purtroppo, i nostri controlli rabbinici fossero considerati (alcune volte a torto e spesso a ragione) inferiori agli standard in uso altrove. È pure vero che oramai, per fortuna, troviamo i nomi di rabbini italiani su molte etichette, segno di un cambiamento di tendenza, e che quindi basterebbe far valere maggiormente le nostre ragioni nei forum rabbinici internazionali (europei e mondiali) perlomeno sul campo dell’informazione.
2. La presenza di rabbini italiani “non dipendenti”
Una variante dell’aspetto precedente sono tutti quei rabbini che non essendo dipendenti delle varie Comunità, si occupano, spesso a tempo pieno, di controlli rabbinici. A questa categoria appartengono alcuni rabbini della corrente Chabad o Lubavitch. Nella oramai decennale presenza in Italia (principalmente a Milano) questi rabbini hanno sviluppato questo particolare settore commerciale fino al punto che i più brillanti sono in grado addirittura di finanziare, con i proventi dei controlli, numerose iniziative educative dello stesso movimento Chabad. Certamente anche questa è una ricaduta positiva per l’Italia, anche se non nel campo “alimentare”, fatto sta che per una ragione o per l’altra, nei nostri negozi kashèr i prodotti italiani con controllo Chabad hanno quasi lo stesso prezzo (di lusso) di prodotti analoghi stranieri.
3. L’attitudine “cattolica” verso il denaro
Ebbene sì, gli ebrei italiani sembrano avere nei confronti del connubio soldi-religione lo stesso atteggiamento distaccato dell’ambiente non ebraico circostante. Non è un mistero per esempio che ancora oggi dopo le grandi emigrazioni di ebrei sefarditi dai paesi arabi in Italia, le offerte a sèfer (quando si è chiamati cioè alla lettura della Torà) rimangano ancora avvolte nell’incertezza così distante dall’orgoglio sefardita nel menzionare la cifra offerta, in fondo a fin di bene.
Le Comunità ebraiche italiane in generale e con rare eccezioni continuano inoltre a considerare i vari rabbinati o meglio gli “uffici rabbinici”, come quell’appendice comunitaria che si occupa delle “cose religiose”: nascite, matrimoni e decessi. Quasi un ufficio amministrativo della religione, come quello delle tasse o l’archivio e non come quello che ha il più elevato compito di custode e promotore della spiritualità ebraica. Di conseguenza i bilanci e gli stipendi del personale di tale “ufficio” sono spesso sottodimensionati rispetto a attività analoghe all’estero.
In Italia quindi poter mangiare kashèr diventa quindi un costo e mai un profitto, se si escludono le facili forche caudine di tasse sulla carne kashèr e sugli attestati (teudòt) che troviamo nei negozi. Peraltro queste misure diventano sì un guadagno per le Comunità, ma costituiscono un’ulteriore aggravio del carico “fiscale” ebraico per gli iscritti.
4. Scarsa coscienza dei consumatori kashèr
Siamo oramai abituati da anni in Italia a destinare parte del nostro tempo di consumatori alla verifica dei costi e al controllo della qualità di ciò che acquistiamo. Eppure quando compriamo nel settore della kashrùt tendiamo sempre per una ragione o per l’altra a considerare ineluttabile l’alto costo o viceversa la scarsa qualità, come prodotti alimentari prossimi alla scadenza (o scaduti veramente!!!) che sugli scaffali di un supermercato verrebbero ritirati senza indugio.
È vero, fino a poco tempo fa la stessa vendita dei prodotti kashèr per Pèsach (dove raddoppiano divieti e costi!) nelle Comunità ebraiche medie si riduceva a olio, vino, farina (!!!) e matzòt. Ma è pure vero che aumentando l’offerta dovrebbe aumentare anche la coscienza di consumatore, considerata fino a qualche anno fa un lusso. Se una volta si doveva dire sospirando: “si sa, è difficile essere ebrei” (quando per difficile intendevamo soprattutto “è caro”), ora non siamo per forza condannati allo stesso destino.
5. Il disinteresse delle istituzioni nazionali
L’Italia ebraica gode ancora (non è detto per molto) di una preziosa risorsa pressoché sconosciuta all’estero, l’unitarietà delle Comunità. Secondo le intese che regolano l’ebraismo organizzato in Italia nei confronti dello Stato (Concordato), è infatti possibile avere una sola Comunità per città evitando il frazionamento in congregations che osserviamo altrove. Esiste inoltre un organismo unitario (l’Unione delle Comunità – Ucei) che dovrebbe assicurare non solo la rappresentanza degli ebrei italiani nei confronti delle istituzioni civili, ma anche di promuovere quelle iniziative che le singole Comunità, anche quelle più grandi non sono in grado di intraprendere, perché di respiro nazionale.
Eppure l’Ucei negli ultimi decenni, sia nei suoi consigli, sia nelle sue “consulte rabbiniche” non è stata mai grado di occuparsi seriamente dei bisogni reali degli ebrei italiani vivi e uno di questi è proprio la kashrùt, mentre al contrario è stata sempre iperattiva sia nella cultura della memoria degli ebrei morti, oppure nella (per carità legittima) conservazione del patrimonio artistico di Comunità scomparse o vicino ad esserlo.
Non esiste quindi a tutto oggi nemmeno un tentativo di arrivare a una shechità nazionale che possa alleviare la legge dei piccoli numeri delle singole Comunità e non è un caso che le uniche liste pubbliche di prodotti controllati siano ancora appannaggio della buona volontà di alcuni privati su base volontaria.
6. Le attività private dei rabbini dipendenti
Per ultimo conviene analizzare l’aspetto forse più nascosto e in fondo meno simpatico. Non è più un mistero infatti che molti rabbini infatti, regolarmente stipendiati dalle Comunità, si occupano saltuariamente di controlli rabbinici in forma privata, spesso senza informare i responsabili comunitari. Si potrebbe parlare certamente degli stipendi spesso inadeguati e dell’italico “tengo famiglia”, quello che è certo che molte Comunità grosse e piccole preferirebbero contare su rabbini più presenti, magari a fronte di stipendi più consistenti oppure viceversa di qualche prodotto kashèr in più che uscisse dalla clandestinità a cui è costretto da questo malcostume.
Basterebbe proporre quello che è regolarmente in vigore all’estero, cioè la condivisione di guadagni tra Comunità e rabbino che esegue i controlli, secondo percentuali che arricchirebbero non solo le casse comunitarie ma anche si alleggerirebbero i portafogli dei consumatori kashèr che avrebbero liste di prodotti controllati più numerose.
7. Che fare?
A fronte dei problemi esaminati, non vorremmo certo che si abbandonasse allo sconforto o alla sensazione pericolosa di “tutti colpevoli, nessun colpevole”.
Nonostante tutto questo, mai come oggi, nell’Italia ebraica dopo l’apertura dei ghetti e la conseguente assimilazione, si ha la diffusa sensazione che una sempre più consistente percentuale di ebrei italiani mangi kashèr e infatti continuano a moltiplicarsi le iniziative private nel campo della ristorazione kashèr, sia per i catering, sia per gli esercizi.
Le istituzioni ebraiche però, coscienti delle problematiche fin qui esposte, sia a livello locale, sia a livello nazionale, dovrebbero intraprendere iniziative in coordinazione tra loro, perché la kashrùt possa godere non solo di una diffusione regolata sempre maggiore, ma anche a prezzi accessibili a chiunque.
Se l’Ucei è l’unica che possa permettersi degli investimenti economici a livello nazionale (se solo lo vorrà il nuovo Consiglio), dal momento che gode del gettito non indifferente dell’otto per mille (circa 4 milioni di Euro all’anno), le singole Comunità non possono che investire in riqualificazione dei rabbinati, nell’aumento della presenza nelle istituzioni rabbiniche internazionali, nel favorire la concorrenza e soprattutto nel potenziare l’informazione legata alla kashrùt.
*Consigliere della Comunità Ebraica di Milano con delega al Rabbinato