Il nome. Significa “il monte della Casa”, è il monte dove si trova la casa del Signore. Compare in questa forma esplicita in Geremia 26:18 e Micha 3:1 והר הבית לבמות יערed è una forma semplificata dell’espressione הר בית ה’ , “il monte della Casa del Signore”, che troviamo in Isaia 2:2 all’inizio della famosa profezia dove è detto “spezzeranno le loro spade per farne aratri e loro lance per farne falci, un popolo non alzerà la spada contro un altro popolo e non studieranno più la guerra”.
Secondo il midrash i tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe istituirono ciascuno una delle tre preghiere fondamentali, rispettivamente shachrit, minchà e arvit, e ognuno chiamò il luogo di preghiera con un nome differente: Abramo lo chiamò har, monte (“nel monte il Signore si mostrerà, Genesi 22:14); Isacco pregò sul far della sera in un sadèh, campo (“Isacco uscì a conversare nel campo sul far della sera”, Genesi 24:63) e Giacobbe lo definì bayit, casa di Dio, (“questa altro non è che la casa di Dio”, Genesi 28:17).
Le differenze tra i modi con cui è chiamata la preghiera nei tre episodi (hashkamà, sichà, peghià), i tempi, e le definizioni dei luoghi rispecchiano i diversi modi di rivolgersi al Signore, e il senso del luogo dove si prega (una montagna da scalare, un luogo aperto , una casa); l’espressione har habayit riprende la prima e ultima definizione, e omette la seconda, quella del campo, che evoca il destino di abbandono e distruzione di Sion (Geremia 26:18); il campo nella Torà ha infatti spesso significati negativi: è il luogo dove Caino uccide Abele (Genesi. 4:8), dove le donne vengono violentate (Deut. 22:25); viene evocato proprio da Isacco perché dei tre patriarchi è quello che rappresenta l’aspetto severo dell’incontro con Dio, il sacrificio da cui lui stesso è sopravvissuto.
La tradizione, già dai tempi biblici, identificò il luogo dove Salomone costruì il Tempio con il luogo del mancato sacrificio di Isacco; Abramo infatti ricevette l’ordine di recarsi a fare il sacrificio “nella terra di Morià, in uno dei monti che ti dirò”; e il libro 2 delle Cronache (3:1) scrive che Salomone “cominciò a costruire la casa del Signore a Gerusalemme sul monte Morià”.
Si parla di monte, perché è una struttura elevata separata da valli; l’altezza attuale non è quella originaria perché quando Erode fece grandiosi lavori di restauro del Tempio decise di spianare alcune parti; poi furono i diversi conquistatori dai Romani in avanti a compiere opere di distruzione e livellamento.
Il nome ricorre nella letteratura rabbinica 341 volte e sta a indicare l’area delimitata che al suo interno comprendeva gli edifici del Santuario e le varie aree aperte (‘azaròt, atrii ocortili). Oppure solo la sua parte delimitata più esterna, che rispetto a Gerusalemme ha una santità superiore, ma che è inferiore di santità rispetto al Santuario vero e proprio.
L’area dell’ har habayit , secondo la Mishnà di Middòt (“Misure” , 2:1), era di 500 cubiti per 500 cubiti, circa 250 m x 250 metri, ed era circondata da mura molto alte. Il muro occidentale (hakotel hamma’aravi) che oggi delimita ad ovest la “spianata del Tempio o delle Moschee” è lungo 490 metri di cui la parte scoperta destinata alla preghiera ebraica è di soli 58 metri. Vi sono diverse opinioni sul ruolo del kotel in rapporto al muro dell’ har habayit. L’idea prevalente è che nella sua parte centrale corrisponda, dalle fondamenta, al muro occidentale, o che sia stato collocato in sua immediata contiguità all’esterno. La lunghezza del muro è quasi il doppio di quella indicata dalle misure rabbiniche; la differenza si spiega ipotizzando che i rabbini si riferissero all’area sacra del primo Tempio, che Erode (secondo alcuni già gli Asmonei) aumentò in lunghezza. Comunque per questa differenza non sono consacrate le estremità meridionali e settentrionali. Se per la lunghezza le misure non coincidono, la larghezza attuale dell’area però è piuttosto coincidente con la misura rabbinica. Altri dati riguardano l’altezza, che attualmente è di circa 36 metri, di cui solo 16,5 dalla superficie del terreno; il muro è fatto di 25-26 file di pietre che risalgono al restauro erodiano nel secondo Tempio, di cui 18 sotterranee; le file superiori sono state aggiunte in epoche successive e non sono considerate sacre; nella porzione meridionale sono visibili accanto al muro cumuli di pietre originali dei livelli superiori scalzate dai Romani e fatte precipitare a terra.
Il midrash (Shir haShirim Rabbà 2) riferisce al muro occidentale le parole del Cantico dei Cantici (2:9) הנה זה עומד אחר כותלנו “Ecco questo sta dietro al nostro muro”, nel senso che la presenza divina non si allontanerà mai da questo muro, che non verrà distrutto anche se il Tempio è stato distrutto. E’ luogo di raccolta e di preghiera. Come tale merita particolare rispetto. Non ci si appoggia al muro se non per la nefilat appaim (la preghiera che si recita a capo chino) e non gli si voltano le spalle (tranne i Kohanim quando danno la benedizione); uscendo dall’area, almeno per un tratto si cammina a ritroso. Lo spessore del muro (che è circa di 4,5 metri) in quanto già all’interno dell’area più sacra ed acquistato con le offerte consacrate, è in un livello superiore di santità e qualcuno raccomanda pertanto di non infilare le dita nelle fessure; ma non è un’opinione diffusa. Il muro rappresenta il perimetro esterno dell’ har habayt , quindi chiunque in condizione di impurità può avvicinarsi. Tutto il piazzale antistante ha la qedushà di una Sinagoga, cosa che comporta forme particolari di rispetto.
L’ingresso all’interno dell’ har habayt era consentito ai non ebrei (“il cortile dei gentili”) e agli ebrei che si erano purificati di impurità minori (nidòt, zavim ecc) e a chi aveva ricevuto impurità per vicinanza ad un cadavere e non si era ancora purificato. Dentro l’har habayt un ulteriore perimetro interno, il chàyil, rappresentava il limite invalicabile per gli impuri da cadavere e i gentili. Una lapide scoperta nel 1871 e conservata al museo archeologico di Istanbul porta un’iscrizione greca che proibisce oltre quel limite l’ingresso ai gentili, con la pena di morte per i trasgressori.
Ulteriori e progressive limitazioni di ingresso scattavano nelle aree più interne, le ‘azaròt (atrii o cortili), lo spazio tra l’altare e l’Hekhal (il grande edificio centrale), l’Hekhal stesso fino alla sua parte più interna, il Qodesh haQodashim, il Sancta Sanctorum, dove poteva entrare solo il Gran Sacerdote nel giorno di Kippùr. In quello spazio nel secondo Tempio era esposta una roccia nuda, l’ èven hashetiyà, “la pietra di fondamento” sulla quale fu edificato il mondo.
La trasgressione dei divieti di ingresso (nelle ‘azaròt) comporta la grave pena del karèt. Tutto questo sistema viene richiamato per le sue implicazioni da quando (1967) l’accesso alla Spianata del Tempio è diventato possibile a tutti. La domanda è se, dove e come sia possibile accedere secondo le regole della tradizione religiosa. Partendo dal presupposto che siamo tutti nella condizione di impuri per contatto o contiguità di cadavere, e che gli impuri non potevano entrare nell’area delimitata dal chayil. La Mishnà di Middòt fornisce le misure per ricostruire le dimensioni degli edifici e delle aree del Tempio, per cui potremmo identificare i limiti degli spazi accessibili. Ma esistono due aspetti da risolvere, molto controversi.
Il primo è la collocazione precisa delle aree più sacre. Il complesso del Tempio all’interno dell’ har habayit era, in pianta, una struttura rettangolare orientata con il maggior asse in senso est-ovest. Le porte dell’ Hekhàl si aprivano a est illuminandosi con il sole nascente e il Qodesh haQodashim stava ad occidente, quasi a ridosso, ma non a contatto, con il muro occidentale. Oggi nella Spianata sorgono due edifici sacri all’Islam, la moschea di Al Aqsa nel margine meridionale e, al centro, la Cupola della Roccia, Qubbat as-Sakhra, impropriamente chiamata Moschea di Omar, costruita tra il 681 e 691. Sotto la cupola dorata c’è una roccia nuda. Rispetto alla posizione della Cupola, vi sono tre scuole di pensiero che dividono archeologi, storici e interpreti religiosi: nell’opinione prevalente (che sostiene una posizione centrale) il Qodesh ha Qodashim corrisponde alla roccia o la roccia corrisponde alla sede dell’altare; un altro sistema sposta il Tempio più a nord e un terzo più a sud. Se si potessero eseguire ulteriori scavi e verifiche archeologiche molti problemi potrebbero essere superati; ma l’intera area, per accordi politici fatti dal 1967, è sotto il controllo dell’autorità religiosa giordana, il Waqf, e inaccessibile a chiunque altro. Il Waqf peraltro le sue ricerche le ha fatte, a partire dalla fine degli anni ’90, intervenendo intensivamente nei sotterranei, come testimoniano le tonnellate di detriti che sono state riversate negli scarichi. Gruppi di volontari archeologici israeliani hanno in questi anni recuperato i detriti, lavandoli e selezionandoli, collezionando così una quantità notevole di reperti di remota antichità, e prendendo atto di un lavoro sistematico di devastazione e cancellazione delle vestigia ebraiche dell’area. Dalle fonti rabbiniche sappiamo che il Tempio era costruito sopra un sistema di volte sotterranee sovrapposte; questo in conformità agli usi edilizi dell’antichità, ma anche per creare una struttura sospesa nella quale dal sottosuolo, forse sede di antiche inumazioni, non si potesse trasmettere l’impurità del cadavere.
Il secondo problema è quello della permanenza della qedushà, la santità del luogo. Secondo la tradizione rabbinica che interpreta i racconti delle Scritture, la consacrazione degli spazi di Gerusalemme richiede il concerto del Re, del Profeta, degli Urim weTumim (gli strumenti oracolari del Gran Sacerdote), del Sinedrio e una serie di atti rituali. La consacrazione della futura area del Tempio venne fatta da David (il Re), su indicazione del profeta interrogati i sacerdoti e con l’assenso del Sinedrio. Dopo la distruzione del Tempio i reduci dall’esilio babilonese guidati da Ezra compirono una cerimonia di consacrazione, ma allora mancavano re e profeta. La domanda è che senso avesse la cerimonia di Ezra. Una prima risposta è che la prima consacrazione è a tempo illimitato, per cui Ezra fece solo una cerimonia simbolica di conferma. La seconda opinione è che con la distruzione la consacrazione originaria fu sospesa e che Ezra la ripristinò con i mezzi ridotti a sua disposizione, comunque validi. Che ne è di tutto questo dopo l’ulteriore distruzione fatta dai Romani? Nelle fonti rabbiniche prevale l’opinione che la qedushà originaria dell’area non sia mai finita e tuttora è valida. La Torà dice: “Renderò desolati i vostri Santuari (Levit. 26:31); il midrash commenta: anche se saranno desolati rimarranno nella loro santità. Per cui rimane come in antico il divieto di accesso, ma sarebbe permesso, anche in assenza di Tempio ed altare, fare i sacrifici prescritti in quell’area e non altrove. Così la pensa ad esempio Rambam, il Maimonide. Altri (come il suo contemporaneo provenzale Raavad, Avraham ben David di Posquiéres) la ritengono non più valida, per cui la pena del karèt, per chi oggi accede all’area interdetta , non scatta.
In conseguenza di queste discussioni si delineano diverse opinioni sul permesso di accesso all’ har habayit: c’è chi ritiene di poter definire i limiti di un’area comunque permessa corrispondente al la parte meridionale del “cortile dei gentili”, subito al davanti, ma non molto oltre la moschea di Al Aksa, alla quale però si può accedere soltanto scalzi, o con scarpe di non di cuoio, e dopo aver fatto un bagno rituale, e con un buon motivo, perché il rispetto dell’area sacra comporta che non ci si possa entrare casualmente ; e questo perlomeno dovrebbe essere il comportamento delle forze dell’ordine che si devono trovare nell’area per motivi di servizio; altri sostengono che i limiti non sono definibili e per questo non si deve salire sull’ har habayit; e anche se il Raavad ritiene che non scatti il karèt, il divieto comunque rimane. In ogni caso, accesso limitato o interdizione non derivano certo dalla rinuncia dei legami storici, al contrario sono una riaffermazione del legame speciale ed esclusivo con quell’area. Stanti i limiti di accesso, lo spazio per la preghiera e il contatto con il sacro si sposta al muro occidentale, dove tutti possono accedere, e che è luogo sacro benché di livello inferiore all’area sovrastante, in quanto perimetro di un’area sacra centro geografico della nostra storia religiosa.
Questo articolo si basa sulle voci dell’ Entziqlopedia Talmudit raccolte nel volume Otzar yerushalaim wehaMiqdash, Gerusalemme 2013. Il tema è stato oggetto di una lezione il giorno di Sheminì ‘Atzeret 5777, nel limùd in ricordo di Stefano Michael Tachè, vittima dell’attentato alla Sinagoga.