Quando il grande cinema incontra la filosofia: l’eccezionale anteprima della pellicola dell’acclamata regista tedesca
Andrea Felis
A Bolzano si è aperta una finestra su una delle figure più ricche, complesse e luminose del pensiero filosofico e teorico-politico del Novecento, e questo grazie al Filmclub e ad una straordinaria regista tedesca, che porta il nome di Margarethe von Trotta. E’ stata infatti presentata in anteprima nazionale la proiezione, in originale con sottotitoli in lingua italiana, approntati per l’occasione da una bravissima curatrice di Bolzano, del film biografico “Hannah Arendt”, diretto dalla regista germanica, già autrice in passato di altri biopic, scritto insieme alla sceneggiatrice statunitense Pam Katz.
Barbara Sukowa, che veste i panni della pensatrice che rifiutava l’appellativo di filosofa, Axel Milberg, nel ruolo di quel Heinrich Blücher il cui peso nello svolgimento di alcune riflessioni arendtiane particolarmente radicali è ancora tutto da indagare, e l’inseparabile Lotte Köhler, interpretata da una quasi bergmaniana Julia Jenstch, formano il quadro d’interno di una storia umana seguita qui nel suo svolgimento ormai tardo, tra il 1962 e il 1964 circa, quando alcuni segni premonitori fanno presagire la fine, che sarebbe giunto con la dipartita di Blücher nel 1970 e della stessa Arendt nel ’75, e il declino vissuto con malinconica consapevolezza.
Le irruzioni di una vitale e fulminante Mary McCarthy, un’ ottima Janet McTeer, completano il quadro, che mostra l’ambiente e le discussioni che quasi quotidianamente scandirono le giornate americane di una pensatrice forte, vigorosa, raffinata, e insieme appassionata, distante, talvolta arrogante nella sua consapevole superiorità su quasi tutti i colleghi contemporanei.
Amata dagli studenti, e temuta, così come guardata a vista, dall’establishment liberal newyorkese, che diffidava di questa mente troppo arguta e senza compromessi, capace di irridere ai vizi ideologici degli intellettuali ex comunisti passati ora al “nemico” conservatore – se non reazionario – e al contempo di tenersi ben stretta una propria impostazione libertaria, individualista, e progressista senza troppa fiducia o ottimismo, Arendt con questo film è stata omaggiata come poche volte è accaduto ad una figura filosofica contemporanea; o forse mai, a ben pensarci.
Solo il genio solitario, rigoroso, tormentato e imprevedibile, di Wittgenstein ha ricevuto in passato – dall’inglese Derek Jarman – una attenzione elevata dal mezzo cinematografico, ma più come figura che come pensiero, come dramma umano che come indagine sul modo dell’uomo – qui, di una donna – di vivere e pensare al contempo, e del pensare come motivo di vita stessa.
E’ una biografia intellettuale ed umana insieme, questa bella opera di una regista sempre in grado di promuovere dibattito, con alcuni spunti davvero importanti, sottolineati da una recitazione sempre misurata ed impeccabile, ai limiti di una versione aggiornata di uno stile quasi brechtiano di rendere possibile non una identificazione nel personaggio ma una distanza partecipe, che pone le condizioni per esercitare la propria capacità di giudizio.
Von Trotta realizza così, e questo è l’aspetto più interessante del film, una lettura della figura arendtiana dentro un profilo di scrittura cinematografica assai aderente a quanto condiviso dall’autrice naturalizzata statunitense in materia di rapporto fra pensiero e realtà. Detto altrimenti, il film della regista tedesca, che è costruito attraverso una solida trama narrativa ed è godibile certo e proprio in quanto una bella storia , narrata con classe ed impeccabile capacità sia registica che interpretativa, può davvero costituire un modello di riferimento per un cinema che voglia comunicare qualcosa di interessante anche per lo sguardo filosofico, rimanendo però racconto, con i propri mezzi e modalità espressive.
C’è in ogni caso un punto di strordinaria corrispondenza fra questo film di Margareth von Trotta e il pensiero arendtiano, e proprio sulla importanza per il pensiero di narrare vite, biografie. La cosa singolare è che la regista tedesca ha insistito invece, e giustamente dal punto di vista della propria poetica, su un settore della produzione arendtiana che le ha dato una non voluta risonanza internazionale – in alcuni contesti per nulla positiva – e che ha costituito materia di scandalo fino a pochissimo tempo fa: stiamo parlando della tesi della banalità del male, cioè dello smascheramento compiuto dalla pensatrice ebrea tedesca della reale fisionomia di molti fra i principali criminali nazisti. Non mostri eccezionali, ma banali uomini comuni, privi della capacità di giudizio, di autonomia di pensiero.
Antinazista da subito, riparata in Francia nel ’33 dopo essere stata brevemente incarcerata, e poi fuggita nel ’40 verso gli Stati Uniti – vi giungerà solo nel ’41, dopo un lungo periodo di attesa in Portogallo – la pensatrice tedesca, che nel 1949 elabora la prima teoria del totalitarismo, analizzando le forme di crisi della civiltà europea, all’inizio degli anni Sessanta compie un viaggio in Israele per seguire , per conto del The New Yorker, il processo di risonanza mondiale a carico del gerarca nazista Adolf Eichmann, rapito dai servizi segreti israeliani in Argentina nel 1961, portato in Israele e lì giudicato per crimini contro la popolazione ebraica europea.
Il reportage da Gerusalemme fece scoppiare un dibattito violento sia in America che in Israele, alimentato anche dallo stile per nulla accomodante della pensatrice ebreo-tedesca, che nel film viene reso in modo mirabile dalla recitazione di Barbara Sukowa, oltre che dalla malcelata ostilità dell’ambiente intellettuale di cui si diceva. Ma furono dirompenti gli effetti di un dibattito, pervertito dall’originale volontà di sapere, trasferito ad alto livello nell’intellettualità ebraica di origine tedesca: nel film viene riportata la rottura con Hans Jonas, antichissimo amico già negli anni friburghesi, e non viene invece citata quella anche più forte con Gershom Scholem, attento interlocutore dell’autrice nonché comune e caro amico di Walter Benjamin.
Ma intelligentemente, e in modo assai pertinente sul piano anche teorico, viene sviluppata nel film una attenta analisi di quella che la von Trotta, nel dibattito seguito alla proiezione, ha definito una doppia prospettiva, da un lato quella di un burocrate assassino anonimo, privo di capacità di pensiero, fermo nella propria incapacità di capire il male prodotto (forse); dall’altra quella di una donna, che del pensiero ha fatto il centro della propria vita, e con cui ha coniugato anche la sua scelta di affetti, di sentimenti, difficile, complessa, anche lacerante.
Nel film la regista ha fatto una scelta audace, circoscritta alla biografia della stessa autrice, seguita nei dettagli, nei tic, nelle amicizie e nei frammenti amorosi appena accennati. Heidegger è presente solo in forma di ricordo, con qualche flash-back che ne mostra anche il tratto quasi caricaturale (ben testimoniato da diverse fonti) della propria inettitudine umana, e al contempo la singolare lucidità speculativa.
Non è chiaro se la scrittura arendtiana avrebbe mai voluto incrociarsi con quella cinematografica, ma occorre dire che la narrazione biografica del cinema di von Trotta presenta certo una notevole affinità con quanto scritto nella fase matura dalla pensatrice esule in America: che l’esercizio di pensiero non può non coniugarsi con una esperienza di vita e di esistenza, in miracoloso equilibrio sospeso fra partecipazione e disincanto, fra meraviglia e lucidità analitica; fra bisogni e desideri di umanità, e doloroso esercizio di pensiero critico.
http://altoadige.gelocal.it/cronaca/2013/04/30/news/hannah-arendt-margarethe-von-trotta-presenta-il-suo-film-a-bolzano-1.6977689