Michela Pagano
“Aktion T4”. Programma di “buona morte”. Nella Berlino nazista del 1939, in un elegante edificio della Tiergartenstrasse 4, un ente pubblico opera per la salute e l’assistenza sociale della Germania. Obiettivo: eliminare persone affette da malattie genetiche nonché pazienti disabili, portatori di handicap fisici e mentali, ospiti degli ospedali e delle case di cura. Il sogno di un mondo perfetto dominato dalla “razza” ariana, perseguito da Adolf Hitler, non può prescindere da questo ambizioso progetto. Lo aveva già spiegato il Führer una decina di anni prima nel “Mein Kampf”.
In questo modo il risparmio delle risorse economiche nazionali per il sostentamento delle spese sanitarie sarebbe stato notevole. Meno pazienti da curare, più denaro da investire per il riarmo del Paese. Un progetto ambizioso. Tanto quanto folle. Un progetto che il neurologo ebreo polacco Ludwig Guttmann, scampato alla Shoah, avrebbe cercato di riscattare qualche anno dopo, esaltando le capacità di quegli individui considerati inutili, di quelle vite giudicate indegne di essere vissute e che (anche) attraverso il gioco paralimpico avrebbero mostrato tutta la loro validità. Lo racconta Roberto Riccardi, generale del Comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, nel suo libro “Un cuore da campione. Storia di Ludwig Guttmann, inventore delle Paralimpiadi” (Giuntina).
Nel 1902, quando ha solo tre anni, Ludwig si trasferisce insieme alla sua famiglia da Toszek a Chorzów, cittadina polacca della Slesia Superiore. Non sa ancora che quella sarebbe stata la città che, prima fra tutte, avrebbe contribuito alla sua formazione. Ricco centro minerario, Chorzów è sede del primo ospedale al mondo dedicato agli incidenti sul lavoro. Nel 1917 Guttmann opera da volontario nei Servizi medici di emergenza nazionale, spinto da uno dei precetti fondamentali dell’etica ebraica: la solidarietà verso chi soffre. Assiste alla morte di un giovane minatore affetto da una lesione spinale e nello stesso anno viene contagiato da un paziente con un’infezione alla gola. Il morbo gli procura per qualche anno una forma di disabilità (perché costretto a tenere un tubo di vetro in gola per il drenaggio di un ascesso) che gli fa conoscere in prima persona l’emarginazione del diverso.
Un disprezzo che non immaginava di poter mai incontrare. Arrivano i primi contatti con la sofferenza. Episodi che lo segneranno profondamente. Molti anni dopo, Chorzów sarà protagonista di uno degli eventi più terribili della storia, la deportazione nazista, ospitando uno dei 45 sottocampi del lager di Auschwitz. Anche questo inciderà profondamente nella vita di Guttmann.
Il giovane, poco più che maggiorenne, asseconda piacevolmente la sua vocazione per la medicina, unitamente al suo amore per lo sport, attraversando i principali centri universitari polacchi e tedeschi: Breslavia, Würzburg, Friburgo. Due passioni che gli faranno da guida nel corso di tutta la sua esistenza.
Guttmann vuole essere un neurologo. E così il primo ottobre 1923 accetta l’incarico presso il reparto di neurologia e neurochirurgia dell’ospedale di Breslavia da cui partirà la sua missione per la cura delle patologie nervose e spinali. Non ha dimenticato il giovane minatore incontrato sei anni prima, non ha dimenticato la sofferenza che aveva promesso a se stesso di voler combattere. Ma due grandi ostacoli gli si pongono davanti e condizionano per sempre la sua vita: l’ascesa del partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi e l’entrata in vigore delle leggi di Norimberga. Nel 1933, poco dopo la salita al potere, Adolf Hitler annuncia la rimozione da ogni incarico pubblico o professione di tutti gli appartenenti alla “razza” ebraica. L’unico luogo in cui a Guttmann è concesso di lavorare è l’ospedale israelitico di Breslavia.
A lui è affidata l’unità neurologica, ma è solo la quiete prima della tempesta. Nell’agosto del 1939, a tre anni dall’applicazione delle leggi razziali, la Germania nazista impone il divieto, per i medici di religione ebraica, di curare malati diversi da quelli appartenenti alla propria “razza”. Ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato.
Il 9 novembre 1938 l’uccisione del diplomatico tedesco Ernst vom Rath da parte del diciassettenne ebreo Herschel Grynszpan scatena l’ira del partito nazista, convinto dell’esistenza di un complotto ordito dalla comunità ebraica ai danni del Terzo Reich. La spedizione punitiva è sanguinosa, l’ospedale israelitico si riempie di feriti, la polizia tedesca minaccia ritorsioni se si continuano a curare feriti considerati “illegittimi”.
Ma Guttmann non ci sta. A uno a uno fa sfilare davanti ai militari i ricoverati. Tutti hanno diritto alle cure, tutti hanno diritto di stare lì. La sfida alla Gestapo è appena iniziata. Buffo pensare che qualche mese più tardi sarà proprio il governo a cui quella polizia presta servizio a offrire inconsciamente a Guttmann l’opportunità di cambiare vita.
Una richiesta d’aiuto da Lisbona, per la cura della paraplegia del dottor Almedia Dias, si rivela una mossa orchestrata dal Terzo Reich per mantenere solide le relazioni con il Paese alleato di Antonio de Oliveira Salazar. Per questo motivo schiera il suo medico migliore. Da lì la strada è in discesa, il futuro delle paralimpiadi è appena cominciato. Dopo aver visitato Lisbona, Guttmann riceve una proposta di lavoro in Inghilterra. Il suo visto è pronto, l’ultimo ostacolo da superare è il controllo doganale da parte dei funzionari del Reich.
Nell’inverno del 1939, mentre la guerra imperversa e il programma di sterminio nazista ha inizio, la famiglia Guttmann approda a Oxford. Dopo un breve periodo all’ospedale militare installato al St.Hugh’s College, Ludwig viene trasferito nel nuovo Centro Nazionale di ricerca sulle lesioni del midollo spinale presso l’ospedale di Stoke Mandeville, nel Berkshire, vicino Londra. Da un lato “Aktion T4”, il programma di “buona morte” per disabili, dall’altro uno studio per rendere loro la vita migliore. Guttmann, in quell’ospedale, comprende immediatamente l’esigenza di cambiare le cose. Non può permettere che la paraplegia abbia la meglio. Non può permettere che alla folle ideologia nazista un giorno venga data ragione.
Inizia a pensare che l’unico modo per riportare in vita chi invece la vita crede di averla persa è praticare sport. Dimezza i sedativi, costringe i pazienti a sopportare il dolore, li obbliga a giocare tra di loro lanciando una palla. In poco tempo il nuovo metodo fisioterapico attira pazienti da tutta Europa e i risultati ottenuti lo gratificano al punto da diventare un simbolo di riscatto, l’emblema della ribellione alla follia nazista.
Così, a Stoke Mandeville lo sport diventa una regola. Ai palleggi si aggiungono le freccette, i birilli, il tennis da tavolo, il tiro con l’arco, il biliardo. E poi ancora il bowling, il basket in carrozzina, la maratona. Ma è nel 1948 che accade un evento che avrebbe cambiato la storia dello sport. Parallelamente alla manifestazione d’apertura delle Olimpiadi di Londra di quell’anno, Guttmann organizza nel cortile del suo ospedale una competizione di tiro con l’arco. Sedici i partecipanti. Nella seconda edizione saranno sessanta, in quella dopo centoventisei. L’evento è un successo. L’auspicio è che quei giochi diventino popolari quanto le Olimpiadi. Nel 1952 nasce la International Stoke Mandeville Games e anno dopo anno le iscrizioni da tutta Europa aumentano sempre di più.
Sono proprio gli anni ‘50 a segnare la definitiva realizzazione del progetto di Guttmann: aumentano i finanziamenti, si ampliano i luoghi, crescono l’organizzazione e le strutture. Ogni estate, ogni quattro anni, in concomitanza delle Olimpiadi, si svolgono le paralimpiadi. E gli atleti di Guttmann diventano una presenza costante.
Nel 1956, il dottor Antonio Maglio, pioniere della riabilitazione dei disabili in Italia, incontra Guttmann. Con lui l’intesa è immediata. I due decidono che alle Olimpiadi previste quattro anni dopo a Roma, avrebbero partecipato anche gli atleti paraplegici. Così avviene. Il 25 agosto 1960, quattrocento disabili di ventitré Paesi partecipano alle competizioni, arricchite di pallacanestro, lancio del giavellotto, scherma, biliardo e tennis da tavolo.
Quattro anni dopo è la volta di Tokyo, con ventuno Paesi partecipanti; nel 1968 di Israele e ventinove Paesi in competizione; nel 1972 di Monaco di Baviera e centoventuno Paesi. Il ritorno in Germania non può essere più soddisfacente. A oltre trent’anni dal “T 4” i disabili onorano la propria vita.
Le paralimpiadi del 1976 a Toronto sono le ultime a cui Guttmann partecipa. Non riuscirà ad essere presente a quelle del 1980 ad Arnhem sul Reno, nei Paesi Bassi, né a vedere realizzato lo stadio di Stoke Mandeville per cui aveva raccolto dei fondi qualche anno prima.
Il 22 luglio 1984 si apre la settima edizione dei Giochi mondiali su sedia a rotelle. L’evento è un omaggio alla memoria di quell’uomo che, più di tutti, aveva creduto nelle capacità di quegli uomini e quelle donne, donando loro una nuova speranza. La strada da allora è tutta in discesa. I giochi continuano a realizzarsi, i partecipanti continuano a gareggiare. La loro vita non è più da disabili ma esclusivamente da campioni.