Federico Ferrari
Lo shabbat, contrariamente a quanto si tende a credere, non è il giorno del riposo, il settimo giorno in cui Dio dovette riposarsi dopo le fatiche della creazione.
La riduzione del mondo a immagini è l’estrema propaggine di un processo di reificazione dell’esistente. L’immagine, ben lungi dall’essere una virtualizzazione del reale, è il tentativo estremo di trasformare ogni istante dell’esistenza in una cosa manipolabile e sempre disponibile. La digitalizzazione e la veicolazione su internet delle nostre immagini costituiscono una sorta di spazializzazione della durata, di quella istantanea “sensazione di aver vissuto” che ha così ben descritto Peter Handke, riprendendo Bergson, nel suo Canto della durata. Attraverso le attuali e potentissime tecnologie onnipervasive a nostra disposizione, il tempo si fa spazio, viene archiviato, tramite idoli, in spazi di memoria fisici (i server remoti ma anche i nostri dispositivi-protesi) perennemente disponibili e ubiqui. Quel che vuole essere scongiurato per mezzo di questo ininterrotto lavorìo spettacolare è, per l’appunto, la dimensione di un tempo che scorre senza ritornare. In fondo, si tratta di un modo, illusorio, di vincere la finitudine, la mortalità, il trascolorare dei giorni e il loro svanire nel nulla, occultando la domanda di senso dietro l’evidenza rassicurante dell’immagine (di un’immagine pressoché automatica, in quanto quasi totalmente macchinica, e priva dello scontro con il momento creativo). Tentativo disperato di fissare nello spazio (dell’immagine) quel che fugge nel tempo.
Forse, almeno in Occidente, solo l’ebraismo, se questa parola ha un senso unitario, ha saputo trovare un antidoto a tale timore della perdita. La tradizione dello shabbat ne è, se così possiamo dire, l’incarnazione. Lo shabbat, contrariamente a quanto si tende a credere, non è il giorno del riposo, il settimo giorno in cui Dio dovette riposarsi dopo le fatiche della creazione. Parrebbe, infatti, quanto meno stravagante che l’Onnipotente abbia dovuto riposarsi, quasi che la sua potenza fosse stata intaccata dalla fatica della creazione. Lo shabbat è, piuttosto, il giorno dell’interruzione, della sospensione del lavoro, del lavoro che ha a che fare con il mondo, con il mondo delle cose (“perché in esso [nel settimo giorno] aveva interrotto ogni lavoro che egli creando aveva fatto”, Genesi 1:3). Si tratta di una deliberata scelta, di una presa di distanza dallo spazio delle cose a favore di una rammemorazione del tempo, di quel che il tempo è; ma è, anche, pensiero rammemorante intorno all’identità di colui, l’uomo, che è nel tempo, che è intessuto di tempo e vive nell’esilio del tempo.
Non a caso, lo shabbat è sia il ricordo della creazione del mondo, sia il ricordo della redenzione dall’esilio egiziano. È, da qualunque punto lo si voglia osservare, non solo il giorno, il tempo, santo ma la santificazione del giorno, del tempo. Il settimo giorno, infatti, Dio non creò un tempio o un luogo santo, bensì “Dio benedisse il settimo giorno e lo rese santo” (Genesi 1:3). È il giorno in sé ad essere santo, il tempo in sé – e si noti che questa parola “santo” (qadosh) qui trova la sua prima occorrenza nella Bibbia. Santa non è una “cosa”, ma il tempo, il tempo del ricordo o, per dir meglio, il giorno in cui il tempo del lavoro, della reificazione del mondo è interrotto ed è reso all’eternità. Lo shabbat è il giorno in cui l’uomo è invitato a pensare, al di là di ogni sfera utilitaristica del lavoro, cosa sia il tempo, cosa sia il suo tempo nell’esilio del mondo.
In fondo, lo shabbat ricorda, fino alla fine dei tempi, sino all’avvento del Messia, che – per utilizzare una splendida formula di Abraham Joshua Heschel – “il tempo è l’eternità in incognito”. Alla flebile luce di candela del tempo vacante dello shabbat, si fa chiaro come ogni singolo istante non sia fatto per durare infinitamente, per divenire cosa sempiterna, come si illude di poter fare la nostra società digitale, ma per essere reso al suo nulla, cioè, alla sua eternità, a quella dimensione fuori dal tempo, dove il tempo è la sua stessa sospensione e dove la vita è consegnata a se stessa, al suo momento inaugurale, al segreto custodito nella sua creazione, come può leggersi in uno dei libri più enigmatici e potenti dello Zohar. Lo shabbat è il miracolo più grande, non tanto quello dell’emanazione del mondo dall’abisso, l’espansione di qualcosa dal nulla, quanto quello, ben più importante, per usare le parole del Magghid di Mesritsch, in cui si “ritrasforma il qualcosa in nulla”. Lo shabbat è il tempo del “ritorno a casa” (Buber, commentando i racconti hassidici, sottolineerà l’assonanza tra “la radice shavat, fermarsi, far festa […] e shuv, ritornare, rimpatriare”); è la dimensione in cui le sefiroth divine ritornano al nulla da cui provengono e in cui il tempo ritorna all’eternità. L’interruzione gioiosa dello shabbat custodisce questo segreto: è il tempo della rammemorazione del segreto della creazione.
Qui l’ebraismo sembra articolarsi in un chiasmo così radicale di trascendenza e immanenza da sospendere tanto il teismo, di un Dio persona (pur così presente nella dimensione mitica della Torah), quanto il panteismo (che si affaccia in modo ricorrente nella mistica ebraica), per il quale, per l’appunto, Dio è in ogni cosa. Il Santo non è una cosa, fosse pure la Cosa, e non è neppure tutte le cose del mondo, ma è l’inafferrabile nel tempo, il ritmo della sua cadenza creativa, la pulsazione del Nulla che emana da se stesso l’Infinito e che da ogni cosa ritorna al Nulla; l’oscillazione senza fine dell’Ungrund che si fa Urgrund e viceversa; la sospensione tra un battito e l’altro dell’esistenza; il silenzio di una genesi e di una fine, la propria come quella del mondo, che non si può davvero afferrare. Lo shabbat invita, ancora secondo le parole di Heschel, “a passare dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo”. Ricordare ciò di cui non si dà immagine possibile: è tutto qui il mistero della vita. Gut Shabbes.
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