Caso Eitan. Di qua i diritti, di là la tradizione. E Israele si scopre divisa sul nuovo giudizio di Salomone
Meir Ouziel
Ci sono tragedie in cui il cuore si spezza e, quando per un attimo si intravede uno spiraglio di luce, si spezza ancora di più. È il caso della terribile vicenda che vede coinvolto, a suo scapito, Eitan Biran, 6 anni, l’unico superstite della tragedia del Mottarone, in cui ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni. Il disastro quel 23 maggio è stato immenso, ma poi è emerso, come in un giudizio di Salomone dei nostri tempi, che la contesa tra i due rami della famiglia del bambino si è trasformata in un’ulteriore tragedia che ha portato a un atto indicibile, il rapimento di Eitan dall’Italia verso Israele.
Dove dovrebbe crescere il bambino? È la domanda sulla bocca di tutti. Con i nonni e gli zii materni in Israele, che hanno presentato domanda di adozione in Israele e sostengono che questo è il futuro che avrebbero voluto per lui i suoi genitori, o con il ramo paterno della famiglia in Italia, il luogo in cui è cresciuto quasi dalla nascita?
In questi giorni Israele è immersa dall’atmosfera speciale di Sukkot, la festa delle Capanne, che il piccolo di certo non avrebbe potuto vivere in Italia come in Israele. Per una settimana si mangia all’interno di queste capanne colorate che la maggior parte delle famiglie costruisce, arreda, decora e sono sparse un po’ ovunque in tutte le città. È importante che Eitan cresca in un ambiente ebraico? La risposta a questa domanda si inquadra nell’ambito delle spaccature congenite della società israeliana. Divisioni che Fanya Oz, la figlia dello scrittore Amos Oz, ha sintetizzato su Twitter in poche parole, un po’ generalizzanti e forse non del tutto fondate, ma di certo molto incisive: “Fate attenzione al ruolo della politica: con poche eccezioni, la sinistra sta con i Biran, la destra con i Peleg. Lo Stato di diritto con i Biran, il nazionalismo ebraico con i Peleg”.
Il rabbino Benny Lau: “In questa fase, è una questione umana, non di ebraismo. Il bene del bambino è la nostra tradizione più antica”
Parole che sono di per sé politiche. Ma descrivono in pieno la realtà? In Israele, la questione non occupa le prime pagine e finora nessun politico si è espresso in merito, nemmeno quelli più provocatori che non attendono altro che situazioni del genere per guadagnarsi un po’ di facile sostegno da tifoseria da stadio. L’opinione generale è che la risposta sia nelle mani del Tribunale della famiglia di Tel Aviv. Ma uno sguardo ai social dà il polso di quanta sensibilità vi sia per l’aspetto ebraico della vicenda.
“È semplicemente scioccante e illogico volere che il bambino rimanga in Italia, e per giunta studi in una scuola cattolica”; “Solo un cuore crudele può pensare di impedire a un bambino ebreo orfano di crescere da ebreo” sono alcune delle reazioni tipiche che si leggono sui siti più vicini alla destra. Per molti ebrei basta il connubio delle parole “scuola” e “cattolica” a sollevare grande preoccupazione per il futuro identitario di questo bambino. D’altra parte, in molti difendono il ramo della famiglia che vive in Italia, spiegando che la scuola dove è iscritto Eitan non impone necessariamente i dettami della fede cattolica.
Il rabbino Benny Lau, una delle figure più prominenti dell’ebraismo israeliano, condivide il suo punto di vista con Repubblica: “In questa fase, è una questione umana, non di ebraismo. Ciò che va tenuto presente è solo il bene del minore. Dove riceverà maggiore sicurezza e protezione? Questa è la domanda principale, così è stato nel corso della nostra storia di ebrei per secoli. Le voci che esprimono preoccupazione per il fatto che il bambino verrà cresciuto in Italia invece che in Israele tentano di mettere in secondo piano il benessere del piccolo rispetto a valori assoluti, identitari. Ma io lo dico senza remore: il bene del bambino è la nostra tradizione più antica”.
Parlando con lo scrittore Abraham Yehoshua della scissione automatica tra destra e sinistra, mi ha detto senza mezze parole: “Su questo argomento, c’è solo una cosa da dire: si tratta di rapimento. Il bambino è cresciuto in Italia e lì deve rimanere. Dove sta il dibattito qui? Il nonno avrebbe potuto convincere con le sue argomentazioni, ma agire con la forza? È sconvolgente”.
Il futuro di Eitan va stabilito dalla legge e l’afflato emotivo sui social, in Israele come in Italia, non ha spazio in questa diatriba. Eitan non appartiene a Israele né all’Italia. Eitan non è l’incarnazione della legge civile, religiosa o del diritto internazionale, non è parte della frattura tra laici e religiosi in Israele. È solo un bambino di sei anni su cui si riversa ora un groviglio legale, umano, religioso e nazionalistico.