Nuovo libro della filosofa Donatella di Cesare collaboratrice della newsletter L’Unione informa dell’Ucei.
Ugo Volli
Il pensiero ebraico è attaccato al senso letterale di ogni singolo versetto del Tanakh e non vi rinuncia mai, come insegna Rashì, ma nemmeno se ne accontenta. Guarda il testo più da vicino del versetto, interroga ogni singola parola, arriva fino a porsi il problema delle lettere e delle loro particolarità grafiche (Perché la Torah inizia con la bet? E perché vi sono dei punti che sottolineano certe parole, in una ventina di casi? E perché ancora certe parashot sono aperte, cioè separate da uno spazio che arriva fino al margine della colonna e altre no?). E guarda anche assai più lontano, cerca per l’intera Scrittura rime di senso e di espressione, ricorrenze verbali, contrapposizioni e somiglianze, prende ispirazione nei brani aggadici del Talmud e nel Midrash, compone percorsi ermeneutici che ripiegano il Testo in mille corrispondenze capaci di generare senso col crepitio e le scintille di contatti elettrici. E’ un lavoro difficile, che necessita del più grande rigore per controbilanciare la familiarità che inevitabilmente si prende con la linearità del Testo. In esso si trova il piacere intellettuale dello studio e la peculiare sapienza di Israele, ma anche la sua irriducibile originalità rispetto al sapere dell’Occidente, cioè alla filosofia.
E’ sempre interessante quel che accade quando un filosofo ebreo non fa semplicemente della propria fede l’oggetto di un’apologia o di una traduzione nel linguaggio della razionalità europea (alla maniera di Filone, di Hermann Cohen e di tanti altri) ma si accosta intenzionalmente alla ricchezza della pratica intellettuale ebraica per riproporla coi suoi mezzi. E’ quanto ha fatto magistralmente molte volte Emmanuel Lévinas ed è una prospettiva di lavoro culturale di nuovo attuale in questo momento anche nell’ebraismo italiano, che pure nell’ultimo secolo o due almeno non può vantare che pochi episodi isolati di pensiero ebraico significativo. Ne è una prova importante il libro, breve ma importante, che Donatella Di Cesare ha dedicato alla Grammatica dei tempi messianici (Albo Versorio, Milano, pp. 76, € 12).
Donatella Di Cesare insegna nella facoltà di Filosofia della Sapienza e nel Corso di laurea in studi ebraici dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, è stata l’ultima allieva di Hans-Georg Gadamer, al cui pensiero ha dedicato una importante monografia; ha scritto degli Humboldt, di Benjamin, di Jaspers oltre che di molti argomenti ebraici. In questo libro torna a un tema centrale del suo pensiero, quello del rapporto fra linguaggio ed ebraismo e lo fa seguendo un percorso tutto interno all’ermeneutica biblica. Il problema centrale che si pone è quello del Nome e della sua possibile unità. Di Cesare parte dall’episodio della torre di Babele, mettendo in evidenza alcune delle caratteristiche del racconto che danno più da pensare: la problematica “unicità” o “unità” del linguaggio e delle parole (“safah echat u devarim achadim) che contrassegnavano i suoi abitanti secondo il testo del Genesi; la loro strana ambizione di “farsi un nome” (ma che nome e a che pro, se erano totalmente rinchiusi all’interno della loro città?) e il loro rapporto con la tecnica (i mattoni per pietre e il bitume per cemento).
Il problema del nome desiderato dai babelici e della sua unità rimanda per contrasto a un altro nome, il Nome divino rivelato a Mosè all’inizio dell’Esodo, il Tetragramma. Lavorando sui tentativi moderni di traduzione e sulle interpretazioni talmudiche, Di Cesare mostra che fra le caratteristiche più pregnanti e caratteristiche della rivelazione del Nome vi è il suo rapporto col tempo (“sarò che sarò”), la quale non dev’essere pensata come eternità nel senso della semplice sintesi di presente, passato e futuro (sintesi che pure è grammaticalmente presente nella forma del Tetragramma) ma come qualcosa di molto più ricco e dinamico, un’unificazione che è anche una promessa, come insegna il Talmud (“sarò con voi”). L’unificazione è un compito, uno dei lavori del hassid, come insegnava il Baal Schem Tov – lo sottolinea un saggio magistrale nel libro di Scholem appena tradotto in italiano. E l’unificazione (il riconoscimento e la realizzazione concreta dell’unità del divino) è il centro permanente dell’identità e della storia del popolo ebraico.
Il carattere profondamente enigmatico di questo rapporto col tempo e con la promessa emerge nel libro di Di Cesare con un celebre passo profetico di Zacharià, che è entrato con un ruolo rilevante nella liturgia ebraica: “in quel giorno Hashem sarà uno e il suo Nome uno (u shmo echad)” (Zc. 14: 9). Perché questa dilazione al futuro, bisogna chiedersi, che sembra rimandare l’affermazione monoteista dello Shemà? E’ chiaro che si tratta in primo luogo del riconoscimento dell’unità e del fatto che la profezia messianica vuole che tutti i popoli arrivino a inchinarsi al Santo benedetto. Ma è chiaro che in questa “unificazione” del Nome, o almeno del suo apprezzamento umano vi sono profonde conseguenze filosofiche rispetto al funzionamento del linguaggio e della nominazione, si nasconde l’idea di una verità profonda del linguaggio in quanto tale; una verità che si ritrova non nella chiusura o tautologia dell’identità totalitaria della parola (come la praticavano i babelici) ma nell’apertura all’unità dinamica del senso; per esempio nella traduzione, come la seppe individuare Walter Benjamin in un celebre saggio sul “compito del traduttore”. Per sviluppare questo punto Di Cesare si avvale di un altro importante ed altrettanto enigmatico passo profetico, quello di Zfanià (3: 11-13) in cui si parla di “safah brurah” (la traduzione è problematica: Di Cesare usa il senso letterale “labbro chiaro”). Si tratta di una modalità linguistica che è pensata come conseguenza (o forse come condizione) dell’era messianica, un modo radicalmente diverso di “chiamare” attraverso il linguaggio. E’ questa la “grammatica dei tempi messianici” del titolo del libro: un’utopia o forse una promessa del linguaggio che caratterizza profondamente la natura dell’ebraismo e lo contrappone alla teologia (al discorso sul Divino) che il cristianesimo trae dal pensiero greco.
Il percorso di questo libro è profondo ma limpido, passa dall’errore del safah echat di Babele, attraverso il “Mio Nome per sempre” del Sinai, fino alla riparazione dello safah brurah (al singolare) e dello shmo echad previsti dai profeti nel tempo messianico. Ma ogni pagina è piena di suggestioni, di possibili deviazioni, di osservazioni che gettano luce sulla dimensione linguistica della Torah e dell’ebraismo. Densissimo ma chiaro e comprensibile da chiunque, la “Grammatica” di Donatella Di Cesare è un libro da leggere e da rileggere, come sguardo esemplare e contemporaneo sul pensiero ebraico.
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