Di che cosa è fatto l’ebreo nell’immaginario collettivo europeo? Molto spesso è una silhouette definita per assenza, per sentito dire, per eccesso esacerbato, e vive in uno spazio intermedio tra realtà e finzione. Forse è per questo, perché si tratta di catturare un fantasma, che una giovane scrittrice – ancora non sa di esserlo -riesce laddove i più agguerriti sociologi e critici falliscono. Tanto più se gli ebrei in questione sono macchie di colore, ombre e luci, che da secoli custodiscono il loro mistero.
Lo studio di Anna Seghers sugli ebrei nell’opera di Rembrandt è un piccolo capolavoro sul fraintendimento. E soltanto una tesi di laurea, discussa nel 1924 all’università di Heidelberg da una studentessa ebrea di belle speranze. La prosa del volume ha tratti ancora acerbi, e pure riesce a esprimere l’energia intellettuale di una straordinaria stagione del giudaismo tedesco. In una Germania sempre più minacciata dall’antisemitismo, la Seghers si interroga sul filosemitismo di Rembrandt, così caldo e rassicurante. La galleria di ritratti e ambienti ebraici del grande pittore olandese è per lei un richiamo e una sfida.
Ma cosa si nasconde dietro queste figure di sefarditi di Amsterdam, entrati come soprapensiero nelle scene bibliche? Dietro questo giudaismo a un tempo sontuoso e quotidiano? È sufficiente riandare ai contenuti del protestantesimo olandese per comprendere l’eccezionale spessore di un tale ebraismo per figure? All’ebrea assimilata Seghers, che sarebbe poi diventata una celebre pasionaria marxista, le ragioni puramente religiose vanno strette e, del resto, l’Amsterdam di Rembrandt è la città in cui si muove anche il miscredente Spinoza e in cui nasce la moderna fede del dubbio. Per la Seghers, Rembrandt non può essere semplicemente un pio calvinista, che recluta gli ebrei per dare maggiore credibilità alle proprie rappresentazioni vetero testamentarie: «Il suo ebraismo non acquista significato in base a una posizione religiosa o culturale, ma è dotato di un proprio valore, tipico solo per lui».
Se la Seghers fosse stata una storica dell’arte pura, avrebbe probabilmente cercato questo segreto giudaismo rembrandtiano nella sintassi delle luci e nelle invenzioni iconografiche, ma poiché ciò che le interessa è soprattutto l’arte del racconto, vede nel grande olandese un narratore già premoderno: «Egli dipinge questi volti come aveva dipinto un cortile scuro o un anonimo paesaggio desolato, di cui nessuno prima di lui aveva saputo cogliere la ricchezza, percepibile unicamente nel quadro». Secondo la Seghers, Rembrandt intuisce insomma negli ebrei una qualità nuova, che la studiosa definisce «überwirklich». La traduzione italiana rende questa acuta parola tedesca con “surreale”, ma forse sarebbe stato meglio usare il vecchio concetto di “soprasensibile”, disceso dalla scuola idealistica di Fichte e Schelling.
Non è dunque un Rembrandt filologico, quello che ci viene qui presentato, ma quasi un pittore espressionista, capace di delineare i suoi ebrei in una diafana materia intellettuale, pressoché soprannaturale, in qualche modo libera dai sensi e dalla storia.
Anna Seghers, «L’ebreo e l’ebraismo nell’opera di Rembrandt», a cura di Vincenzo Pinto, La Giuntina, Firenze, pagg. 94, € 13,00.
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