Per venticinque anni il pittore fiammingo abitò ad Amsterdam nel quartiere ebraico facendo ritratti di soggetto biblico.
Massimo Firpo
L’autore di questo libro è un professore di filosofia statunitense cui si debbono importanti studi su Baruch Spinoza, il cui Tractatus theologico-politicus del 1670 è un vero e proprio inno alla tolleranza e alla libertà di coscienza che vigeva in Olanda. Eppure, discendente da una famiglia di ebrei sefarditi rifugiatasi ad Amsterdam, egli era stato espulso dalla sinagoga nel 1656 a causa delle «azioni malvagie» da lui commesse e delle «eresie abominevoli» da lui professate, con la proibizione per chiunque di avvicinarsi «a lui più di quattro cubiti». Studiare Spinoza comporta quindi l’esigenza di immergersi nella vita pulsante di quella fiorente comunità ebraica, ricostruendone le vicende, la cultura, i cambiamenti, i conflitti interni, le rivalità che ne segnarono la storia.Ed è quanto avviene in questo libro, apparso per la prima volta nel 2003, il cui raffinato sapere si stempera nel gusto narrativo e nell’empatia con cui Nadler si immerge nel fervido mondo dei suoi antichi correligionari rifugiatisi nella città olandese.
Cacciati dalla penisola iberica tra Quattro e Cinquecento, ovunque discriminati, espulsi e perseguitati, i sefarditi trovarono qui un’accoglienza dapprima diffidente e non priva di restrizioni, ma poi sempre più ampia, facilitata anche dai successi economici e commerciali che consentirono loro di diventare «l’élite ebraica d’Europa», orgogliosa della propria identità così come del proprio benessere. Le solenni cerimonie con cui nel 1675 fu inaugurata la nuova e grandiosa sinagoga, la cosiddetta Esnoga, visitata da sovrani e principesse, celebrata in versi e in immagini che la ponevano sotto la protezione della città, furono anche l’evento simbolico di una tolleranza religiosa ormai diventata accettazione sociale.
Molte altre sinagoghe esistevano allora ad Amsterdam, in particolare quelle ashkenazite (la principale delle quali si trovava proprio di fronte all’Esnoga), in cui si riunivano gli ebrei giunti nei Paesi Bassi con la nuova e corposa ondata migratoria proveniente dall’Europa continentale devastata dalla guerra dei Trent’anni (tedeschi, polacchi, lituani), che fece salire la componente giudaica della popolazione dallo 0,25 del 1610 al 3,7% del 1672, quando la città contava circa 200.000 abitanti.
Gli ashkenaziti erano tuttavia molto diversi dai sefarditi: meno colti e raffinati, più poveri e talora poverissimi, ma anche più religiosi e fedeli alle tradizioni, parlavano yiddish, celebravano riti differenti e guardavano ai sefarditi con profondo disprezzo, da essi ricambiati con ugual moneta.
A guidare la comunità sefardita furono rabbini illustri, come Leone Modena, Saul Levi Mortera, Isaac Aboab de Fonseca, Uriel Acosta, Menasseh ben Israel, assurti talvolta a grande fama per la loro vastissima cultura che alimentava in tutta Europa gli studi sul giudaismo e sulla Bibbia, quotidiana lettura dei calvinisti olandesi che ad essi non potevano non interessarsi.
Nell’ambito della pur ristretta schiera di quei rabbini non mancavano aspri conflitti personali e ideologici tra diverse anime ebraiche, tra atteggiamenti diversi nei confronti della kabbalah, per esempio, tra diverse concezioni del destino ultraterreno, tra diversi modi di vivere l’attesa del Messia e della fine dei tempi, tra i diversi modi di guardare alla meteora di Sabbatai Zevi, proclamatosi il Messia nel 1665 nella lontana Turchia, che ebbe ad Amsterdam numerosi seguaci.
Ci si chiederà che c’entra tutto questo con Rembrandt? In realtà c’entra, perché il filo conduttore del libro sono i riflessi figurativi della florida comunità ebraica olandese, studiati in due capitoli dedicati rispettivamente all’Esnoga e al cimitero di Beth Haim all’Ouderkerk autorizzato dalla città nel 1612, di cui alcuni straordinari dipinti di Jacob van Ruisdael ci restituiscono l’immagine, e altri tre al sommo pittore fiammingo. Per venticinque anni, infatti, prima che la disperata miseria in cui finì i suoi giorni lo costringesse a trasferirsi altrove, Rembrandt abitò sulla Breerstraat, la strada degli ebrei, nel quartiere di Vlooienburg che pullulava delle loro case e dei loro magazzini. Il suo invadente vicino (e creditore) era Daniel Pinto, ricco esponente della Naçào portoghese, mentre Manasseh ben Israel, di cui probabilmente fece il ritratto, abitava a pochi isolati di distanza, e forse fu lui a insegnargli a riprodurre con grande esattezza in alcuni suoi quadri i caratteri della lingua ebraica, che egli ignorava. I molti dipinti rembrandtiani di soggetto biblico raffigurano schiere di ebrei veri, sefarditi o ashkenaziti che fossero, facce, vestiti, cappelli autentici: quelli che ogni giorni egli vedeva intorno a sé e alla sua casa.
Non stupisce del resto che tra i committenti dei suoi straordinari ritratti (peraltro non di rado di difficile identificazione) ci fossero persone che abitavano nel suo quartiere, tra le quali è lecito annoverare alcuni di coloro che da lui acquistarono dipinti di soggetto veterotestamentario per appenderli alle pareti delle loro abitazioni. «Una delle più marchiane e diffuse falsità sul giudaismo è il suo totale rifiuto delle arti visive», scrive Nadler, pur sottolineando una tradizionale diffidenza per il ritratto. Gli ebrei, infatti, anche se di modesta o modestissima condizione, amavano comprare quadri che rammentavano la storia del popolo eletto: episodi della vita di Abramo, di Giuseppe e Giacobbe, di Saul e David, di Mosè, di Aman, di Ester, di Agar, di Daniele, di Mardocheo ecc.
Ma ad essere appassionati cultori di quegli episodi biblici e ad acquistarne le narrazioni dipinte non erano solo gli ebrei, ma anche molti olandesi, che in essi trovavano un precedente in cui identificare se stessi e la loro storia, la loro conquista della libertà e della terra promessa attraverso le sofferenze e i sacrifici dai qual era nata la loro patria, la repubblica delle Provincie Unite, sottrattasi al dominio spagnolo con una rivolta iniziata nel lontano 1566 e protrattasi per ottant’anni di guerre pressoché ininterrotte fino alla pace di Westfalia del 1648, per poi riprendere poco dopo con l’invasione dell’Olanda da parte del re di Francia Luigi XIV.
In questa prospettiva, per fare un esempio, Leida salvata dalla pioggia e dall’acqua trovava un precedente illustre nel Mar Rosso che aveva sommerso il faraone. Sono pagine di grande interesse, che ancora una volta ci insegnano non solo come la storia consenta di capire l’arte, ma anche come l’arte consenta di capire la storia.
Steven Nadler, Gli ebrei di Rembrandt, Einaudi, Torino, pagg. – 278, € 32
Il Sole 24 Ore – 5.11.2017