Nuovo straordinario libro di Maurizio Molinari
Giulio Meotti
Roma, 10 gen (Velino) – Per chi non lo sapesse, il Messia è arrivato a Brooklyn e ha ricostruito il “tempio” al 770 di Eastern Parkway. È la convinzione degli ebrei che hanno riconosciuto nel rebbe Menahem Mendel Schneersohn il “Melek Moshiach”, l’unto per eccellenza morto nel 1994. Sono la maggioranza del gruppo hassidico Lubavitcher, detto anche Chabad, una delle “tribù” più grandi che costituiscono la New York ebraica. Maurizio Molinari, corrispondente della Stampa dagli Stati Uniti, la racconta in un libro per Laterza, “Gli ebrei di New York”. La Grande Mela è la città di Isaac Bashevis Singer, Woody Allen e Leonard Bernstein. E di Irving Berlin, Aaron Copland, Arthur Miller e Art Spiegelman, il vignettista del New Yorker autore del commovente “Maus”.
“Se all’angolo della strada sotto casa incontrate un nonno che va a fare la spesa con il testa il cappello verde dell’esercito israeliano regalatogli dal nipote, se al supermercato acquistate prodotti kosher senza saperlo, se in ascensore vi trovate di fronte al fattorino che porta al 38esimo piano una piramide di tramezzini di Mr Broadway, se sul marciapiede di fronte alla libreria di quartiere ragazzi con la kippah vendono ai passanti grandi cedri prima di Succot, se alla scuola pubblica sotto casa insegnano a tutti i bambini a cantare Ava Naghila Ava per l’ultimo dell’anno, se quando arriva la festa di Chanukkah il portiere accende nell’atrio il candelabro a nove braccia vicino all’albero di Natale, se ogni sera del 24 dicembre il teatro del centro Y92 si riempie di giovani per il concerto del cantante David Broza e se vi svegliate la mattina scoprendo che l’edificio in costruzione vicino a casa vostra diventerà una sinagoga in pietra di Gerusalemme allora significa che vi trovate in uno dei cinque grandi boroughs di New York”. Molinari descrive il ronzio da arnia della strada degli orefici, i kibitzer ebrei, i giovani nati vecchi che trascorrono la vita sulla Torah, gli scaccini delle antiche sinagoghe di Williambsurg e Crown Heights, dove si studia “come avveniva a Vilna e negli shtetl dei chassidim disseminati dal Mar Baltico al Mar Nero mentre solo poche strade più a sud si vive come un tempo a Damasco e Beirut”. A Crown Heights, nel quartiere ebraico di Brooklyn, i Lubavitcher vivono aspettando il ritorno del loro capo spirituale e tramandandosi la mistica del rabbino fondatore, che duecento anni fa li aveva guidati nella Russia, tra i pogrom e le carestie.
Una comunità che nel cuore di New York mantiene salde le consuetudini: le donne indossano la parrucca in pubblico e gli uomini portano pastrani neri e fluenti boccoli. Vi si fa il miglior pane azzimo del mondo e il venerdì sera le case s’illuminano delle ombre felici e tenue delle candele. I lubavitcher hanno oltre 200 mila aderenti e gestiscono centri religiosi in 42 nazioni. Se la Florida è un immenso paradiso degli ebrei, a New York è possibile ritrovare ancora i profumi e i suoni della Cracovia ebrea e le tante città sante sul Baltico. Come le knishes, i ravioli di patate identici a quelli che si potevano acquistare nella polaccas Lodz negli anni Venti. Tutti quei cernecchi al vento dei chassidim, l’edera profetica a cui si abbarbicano i giovani figli di sopravvissuti, i vecchi che provengono dalle sporche yeshivah dell’Est europeo, quel ghetto universo senza radici, come tanti trafficanti dediti all’oro e al cielo. Quel mondo scomparso è rievocato da Molinari con rara concretezza e la necessaria provvisorietà estrema. Chi ha riso con il “Violinista sul tetto” e le novelle di Shalom Alechem, ma non ha gradito il trattamento che il regista Amos Gitai ha riservato al mondo ebraico in “Kadosh”, troverà in questo libro un nitore e una comicità quasi seducente. La storia ebraica di New York ha il colore dei limbi, è come un’enclave sospesa tra modernità e tradizione, assimilazione e isolamento, ai confini dell’insulare.
Una geografia emotiva tipica dell’innesto ebraico nella vita metropolitana newyorchese, dove il gotico religioso s’ibrida nel rinascimento cittadino. Troviamo l’intera tribù della Bessarabia europea: i Belzer, con il cappello bordato di pelliccia e che ricordano i romanzi commoventi di Isaac Singer; i Yerushalmi, i nati a Gerusalemme dalla giubba dorata stretta in vita e che vivono a Meah Shearim; gli ebrei ungheresi, i Satmar, gli ortodossi che i nazisti cercarono di sterminare a Birkenau con i pantaloni alla zuava e i calzini bianchi sopra; i Lubavitch, che offrono filatteri ai passanti per accorciare i tempi della venuta del Messia e i figli dell’esilio spagnolo, i nipoti dei cabalisti iberici che hanno esportato la Qabbalah e lo Zohar nel Mediterraneo. Crocevia contaminato dall’anima ebraica gogoliana e dalla vastità americana, con le sue lapidi con citazioni dai Salmi, le sinagoghe dall’aspetto armonioso e impassibile, manti di preghiera ed eleganti tendaggi, lucernari e capitelli corinzi, lampadari e soffitti dorati, New York è come un grande tappeto fatto di tutti i fili della passione ebraica: l’elezione e la caduta, la decadenza di un ghetto perso nel tempo e la tikvà (speranza) sionista. Impastata alla delicatezza del marmo è la crudeltà dell’elezione, insieme alla sensualità dell’oro e del successo troviamo l’esaltazione di una tradizione che tiene in vita il popolo che ha dato un nome alla felicità. Negli isolati di Brooklyn rivivono così “cinquanta secoli di nevrastenia”, come Charles Péguy definiva la storia ebraica.
10 gen 12:15
http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=298191