Quando vidi i mezzi corazzati israeliani diretti a Ramallah, mi penetrò come una fitta questo pensiero: com’è bello vedere la stella di Davide sui carri armati piuttosto che cucita sul mio vestito, come avvenne nel ’44
Imre Kertész – Corriere della Sera 16.11.02
Un racconto esclusivo dello scrittore conosciuto nel mondo per il suo romanzo sull’Olocausto
L’altro ieri guardavo ancora dal balcone dell’Hotel Renaissance il tramonto di Gerusalemme. Sopra i bianchi pendii della parte opposta il cielo stava impallidendo, dalla Città Antica era passato un vento leggero e, quando all’improvviso il crepuscolo era sopraggiunto come una malinconica tregua d’armi, mi vennero in mente le parole di Camus da Lo straniero . Ma al mattino era saltato in aria l’autobus partito da Haifa per Gerusalemme, l’energia dell’esplosione aveva sollevato la vettura e membra umane erano volate in aria. Non tento nemmeno di raccogliere i miei pensieri vaganti. Sono arrivato con mia moglie, per una conferenza, e non sarei mai venuto se non mi avessero invitato proprio a Gerusalemme. Non mi piacciono le inutili conferenze, in special modo quelle che hanno titoli come questo: «The Legacy of Holocaust Survivors – Moral and Ethical Implications for Humanity» (L’eredità dei sopravvissuti all’Olocausto – Implicazioni etiche per l’umanità, n.d.r).
Dunque ora sto qui su un balcone del settimo piano e ciò che realmente sta accadendo è altrettanto difficile da giudicare, stando qui, quanto lo sarebbe stando a Berlino o a Budapest. In questo momento non sto riflettendo nemmeno sulla situazione di qui, ma molto di più sulle reazioni europee. Mi sembra che dalla palude dell’inconscio si stia eruttando, simile a una eruzione di lava dall’odore sulfureo, l’antisemitismo tenuto alle corde per molti anni. Sullo schermo televisivo, a Gerusalemme come a Berlino o altrove, vedo manifestazioni antisraeliane. Vedo le sinagoghe incendiate e i cimiteri ebraici dissacrati in Francia. A poche centinaia di metri dal mio alloggio berlinese, vicino al Tiergarten, due giovani ebrei americani sono stati assaliti per strada e percossi a sangue. Ho visto sullo schermo lo scrittore portoghese Saramago, chino su un foglio di carta, paragonare ad Auschwitz le sanzioni israeliane contro i palestinesi, dimostrando con ciò di non avere la più pallida idea della scandalosa infondatezza del paragone da lui proposto né del fatto che il concetto che va sotto il nome di Auschwitz, finora provvisto di un preciso significato nel consesso culturale europeo, oggi venga adoperato senza esitazione in modo populista, per fini populistici. Mi pongo la domanda se non occorra distinguere i sentimenti antisraeliani dall’antisemitismo. Ma è possibile questo? Come si può interpretare il fatto che a due continenti di distanza, in Argentina, dove tra l’altro la gente ha abbastanza guai per conto suo, si facciano dimostrazioni antisraeliane? Probabilmente perché, penso, l’antisemitismo che dura ormai da circa 2000 anni, si è fissato in una configurazione mondiale. L’odio si è fissato in un quadro mondiale e l’oggetto dell’odio è un popolo che non è disposto in alcun modo a scomparire dalla faccia della terra, penso.
Tento di formulare i pensieri in modo chiaro e sincero, e ciò che penso voglio pronunciarlo in me stesso, in modo chiaro, sincero, mettendo da parte ogni tabù. Il fatto che giovani uomini si facciano saltare in aria con grande voluttà (tra l’altro leggo in un giornale che il dittatore iracheno Saddam Hussein paga venticinquemila dollari alle famiglie) indica che non può trattarsi soltanto di questo: se fondare o no uno Stato palestinese. Questi giovani suicidi si palesano come veri perdenti dell’esistenza. Nelle loro azioni si manifesta una sorta di disperazione che non si può spiegare con le sole passioni nazionaliste.
Nella luce mite di Gerusalemme, durante le serate dorate, tra i pittoreschi pendii di queste colline disseminate di uliveti, in occasione di un mio viaggio precedente di qualche tempo fa, avevo già compreso, più con i miei sensi, che con la ragione, perché proprio qui fossero nati gli Dei. Ora dovrei comprendere perché vengano assassinati proprio qui, con la passione esibizionista dei sanguinosi sacrifici umani. Confesso di non comprendere nulla e non posso credere che ci troviamo di fronte a una mera questione politica. Ma potrebbe pure darsi che la politica abbia lo scopo di non farmi apparire tutto ciò come una questione politica e di farmi cadere nella trappola della manipolazione; ma mentre milioni cadono nella trappola della manipolazione, il carattere di questa manipolazione cambia, si interiorizza. Alcuni all’improvviso pensano seriamente che la loro follia non sia emanazione di forze esterne, ma erompa dalla loro propria anima, sia una necessità della loro anima; e qui cominciano i guai impossibili da correggere.
Lo confesso con sincerità: quando per la prima volta vidi sullo schermo televisivo i mezzi corazzati israeliani diretti a Ramallah, inconsapevolmente e ineluttabilmente mi penetrò come una fitta questo pensiero: dio mio, quant’è bello vedere la stella di Davide sui carri armati israeliani, piuttosto che cucita sul mio vestito, come avvenne nel 1944. Non sono quindi privo di sentimenti di parte, non potrei esserlo. Non ho mai recitato il ruolo del giudice imparziale: lo affido a quegli intellettuali europei – e non europei – i quali giocano a questo gioco con tanta bravura, apportando però tanti danni. Dopo molta autentica e falsa solidarietà ora il dado volge diversamente: i mandarini dal viso severo si volgono verso Israele. In certe questioni evidentemente potrebbero anche avere ragione: soltanto che non hanno mai comprato un biglietto per la corsa in autobus da Haifa a Gerusalemme. Qui, in Israele, per dirla in linguaggio figurato, tutti portano in tasca quel biglietto. E questo fatto lentamente toglie alle persone la ragione.
Il freddo giudizio dei mandarini europei qui viene vissuto sotto la forma della bruciante questione della sopravvivenza. Forse è una nostra amica a formulare nel modo più conciso questa scissione, dicendoci nel bel mezzo di Yad Vashem, di questo possente cimitero delle persone trucidate nel corso dell’Olocausto: «Prima con tutta la famiglia partecipiamo a una manifestazione contro la guerra, poi ci arruoliamo nell’esercito». Non ho incontrato – per lo meno qui, in questa conferenza – un intellettuale israeliano che mettesse in dubbio la necessità di uno Stato palestinese. «Bisogna arrestare la colonizzazione – dice uno studioso di storia , uno dei dirigenti di Yad Vashem – e questo sfocerà in una sorta di miniguerra civile, che però dovremo comunque affrontare».
L’isolamento, la mancanza di solidarietà causa un dolore quasi fisico. E’ impossibile tollerare passivamente il terrore ed è impossibile fronteggiare il terrore senza terrore. Uno stato di necessità tormentoso, questioni martorianti, con le quali bisogna misurarsi da soli. «Ci chiudono in un ghetto morale» dice il mio amico Appelfeld, lo scrittore. Negli sguardi che ci circondano scorgo paura, smarrimento e determinazione. Precisamente come scrive David Grossmann nell’articolo sulla Frankfurter Allgemeine : «L’odierno Israele rassomiglia a una mano che stringe il pugno e nello stesso tempo a una mano che per la disperazione si abbandona senza forze».
Renan, lo storico francese, dice che non è la razza e nemmeno la lingua a determinare l’essenza della nazione: gli esseri umani sentono nel proprio cuore di avere dei pensieri, dei sentimenti in comune e hanno in comune i ricordi e anche le speranze. Ebbene, questo Paese, il quale finora era il Paese dei fondatori, ma soprattutto dei sopravvissuti europei, di coloro che cercavano protezione, dei sionisti militanti, delle sette che rifiutavano l’esistenza di uno Stato, dei militari severi, dei miti musicisti, degli uomini bianchi del Nord e degli ebrei di ogni colore venuti dall’Africa, dall’Arabia, dall’Oriente, dei cosiddetti levantini, il Paese senza una coerenza di culture e esseri umani differenti, ora, nel corso di questa guerra disperata, e priva di prospettive, ora di colpo questo Paese si è trasformato in nazione. Non so se gioire per questo fatto o deprecarlo – giacché il tempo delle nazioni proprio ora sta volgendo al tramonto – ma la realtà è questa e ciò non concede più il comportamento fatto di riserve mentali; di sorridente simpatia, talvolta di superiore ironia, col quale gli ebrei europei e americani fin qui si erano avvicinati a Israele. E’ una strana svolta, questa, e questa svolta, per lo meno nella relazione da ebreo a ebreo, senza dubbio avrà le sue conseguenze.
Le guerre della nostra epoca sono sempre di colorazione morale, in una misura senza precedenti. Nel nostro mondo moderno – o postmoderno – i confini non si tracciano tanto tra nazioni, etnie, religioni, quanto piuttosto tra diverse concezioni del mondo, diversi comportamenti del mondo, tra ragione e fanatismo, tolleranza e isteria, creatività e distruttiva sete di potere. All’improvviso nella nostra epoca si perpetuano guerre bibliche, guerre tra il «bene» e il «male». E dobbiamo mettere tra virgolette queste parole, perché non sappiamo che cos’è bene e che cos’è male. Ne abbiamo concetti diversi e divergenti e questi concetti resteranno discutibili fintanto che non si stabilirà una solida scala di valori nata da una cultura elaborata insieme e di cui ci si prenda carico insieme.
Questo, e soprattutto qui, nel Medio Oriente, è naturalmente soltanto utopia. Come si spiega, tento di capire, che giovani uomini forti e attivi accettino delle azioni terroristiche suicide? Quanto valutino la vita altrui traspare dalle loro azioni. Ma quanto valutano la loro vita? Un amico crede di saperlo: viene loro detto che nell’«aldilà», negli harem d’oltretomba li attendono e li vezzeggeranno 72 giovani vergini. E che cosa dicono alle donne?, domando. Il nostro amico scrolla le spalle sorridendo: questo non lo sa. L’odio io l’ho sempre sentito come un’energia. L’energia è cieca, ma la sua fonte, in modo paradossale, è la stessa vitalità della quale si nutrono anche le forze creative. La civiltà europea, che qui la gente ancora adesso e nonostante tutto riconosce come propria, ha come valore più nobile, la pienezza della vita umana. Il fanatismo è proprio il contrario di questo; su quali basi potrebbe allora nascere qui, quando che sia, un rapporto umano e una piena fiducia? Per ora fanno da signori assoluti la paura e l’odio. Molti hanno detto e ripetuto di essere venuti qui, dopo la Shoah, nella speranza di trovare quiete e sicurezza. Hanno costruito questo Paese con dura fatica, hanno dovuto difenderlo in duri combattimenti e intanto sentono l’ambiente vicino e quello più ampio metterne tutt’oggi in dubbio la pura sopravvivenza. Se questo dubbio – accompagnato al sentimento di essere completamente abbandonati – dovesse radicarsi anche in loro, potrebbe spingerli alla più profonda disperazione.
Per il momento, almeno secondo la mia esperienza, la vitalità del Paese rende ancora possibile la riflessione su se stessi: la maggior parte degli intellettuali del Paese se naturalmente non l’opposizione al terrore, pure critica con passione la modalità della difesa e l’azione bellica di ritorsione. Ma se l’indifferenza ostile davvero li consegnerà alla disperazione, tutto è pronto per la catastrofe; e in questo mondo intessuto di odio, di fanatiche idee sbagliate e di inerzia, la catastrofe non si abbatterebbe certamente soltanto sul Medio Oriente.
Lascio col cuore pesante il balcone, il panorama notturno di Gerusalemme. Domani sera partiremo e porterò con me uno strano regalo.
Nazione, patria, casa; per me finora erano concetti inavvicinabili. Non riesco a immaginare l’armonia di un cittadino che si identifichi senza condizioni con la sua patria, la sua nazione. Il mio destino ha voluto farmi vivere, con scelta e responsabilità volontarie, in una posizione di minoranza, potrei dire di una minoranza di fronte al mondo, e se volessi definire ancora più precisamente questa posizione di minoranza, non adopererei un concetto o dei concetti che riguardino la razza, l’etnia, la religione o la lingua. Definirei la mia minoranza volontaria come forma di esistenza intellettuale e spirituale basata su esperienze negative.
E’ vero, sono pervenuto a queste esperienze negative tramite il mio essere ebreo o potrei dire così: mi sono guadagnato l’iniziazione all’universo dell’esperienza negativa grazie al mio essere ebreo; perché tutto ciò che ho dovuto sperimentare a causa della mia nascita ebraica è da me considerato come un’iniziazione, iniziazione al più profondo sapere riguardante l’uomo e la condizione umana della nostra epoca. E così, dato che ho vissuto il mio essere ebreo come esperienza negativa, e quindi radicale, in fin dei conti tutto ciò ha portato alla mia liberazione. Questa è l’unica libertà che nel corso della mia vita passata sotto varie dittature mi sono procurato e proprio per questo l’ho gelosamente custodita fino a oggi. Durante il mio soggiorno a Gerusalemme per la prima volta mi ha sfiorato il sentimento gravoso e solenne della responsabilità nazionale; e anche se non so che cosa farmene, perché la mia vita si è decisa da un bel po’ di tempo, pure quel fatto mi ha emozionato profondamente.
Con questa emozione salgo sull’aereo in partenza per Budapest.
Il nostro apparecchio atterra felicemente a Budapest. Uscendo non riesco a trattenermi dal dire al personale indaffarato attorno al portello: «God save Israel! – Dio salvi Israele!». Ma può darsi che abbia pronunciato male la frase o una delle tre parole. «What did he say? – Cosa ha detto?» sento dietro le spalle le domande un po’ fredde dell’equipaggio. Tornerei indietro, ma una selva di bagagli mi respinge verso l’uscita.
Non hanno capito. Forse va bene così. Un passo, e scendo dall’apparecchio, sulla terra d’Ungheria.
(© Elet és Irodalom, Vita e Letteratura, maggio 2002. Trad. di Giorgio Pressburger)