VIII. La Reazione
Nel 1814 crolla l’Impero napoleonico; sotto Napoleone rimangono solo i pochi ebrei dell’isola d’Elba. Nel 1815 vengono ricostituiti gli antichi Stati, che in Italia sono i 7 seguenti: Regno di Sardegna (cui sono annesse Genova e la Liguria), il Regno Lombardo-Veneto, i Ducati di Parma e Modena, il Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie, tutti più, o meno sotto l’influenza austriaca (ossia del principe Metternich) e lo Stato pontificio. Sotto il governo, più o meno diretto, austriaco, gli Ebrei in Italia vivono press’a poco nelle stesse condizioni degli Ebrei austriaci; con alcune limitazioni riguardanti l’emigrazione e i matrimoni e l’esercizio di alcune professioni (per esempio, non potevano essere farmacisti). Una disposizione limitava il numero delle famiglie ebraiche che potevano risiedere a Gorizia; ma naturalmente non poteva essere fissato il numero dei componenti le famiglie. Così si ricorse a questo accorgimento: se una nuova famiglia ebrea si trasferiva a Gorizia, per poter ottenere il diritto di residenza veniva adottata da una famiglia ebrea già residente in quella città. Le famiglie goriziane Pincherle e Luzzatto adottarono molti neo-immigrati, i cui discendenti portano ancor oggi questi cognomi.
Discretamente vivono in quest’epoca gli Ebrei in Toscana; Livorno poi ha sempre una posizione di privilegio: ogni neo-immigrato era ammesso a far parte della Comunità, ed era automaticamente naturalizzato. I concistori istituiti da Napoleone sono aboliti; le Comunità dipendono ora da cancellieri a vita nominati dal Granduca (e questo fino al 1849). Anche a Panna la situazione è discreta: siccome questa città era governata dalla moglie di Napoleone, in essa vigeva ancora il Codice napoleonico; e gli Ebrei avevano il permesso di abitare nella capitale (come già ricordato, la legge di Alessandro Farnese del 1562 che accettava Ebrei nel Territorio, li escludeva dalle due capitali di Parma e Piacenza).
Nel resto d’Italia invece le condizioni sono ben diverse. Il Regno di Sardegna, dominato dai Gesuiti, diventa ora uno degli Stati più reazionari d’Europa: gli Ebrei sono ricacciati nei ghetti, espulsi dalle scuole; è loro proibito costruire nuove sinagoghe, tenere domestici cristiani. Alle pesanti restrizioni si aggiunge l’ironia: i figli battezzati, che, naturalmente. hanno abbandonato la casa paterna per prendere il loro posto nella privilegiata società cristiana, hanno diritto all’eredità. La proibizione di possedere immobili provoca ovunque vendite a condizioni disastrose o fittizie; e perfino conversioni. Due soli vantaggi sono concessi agli Ebrei piemontesi in quest’epoca: nel 1816 viene abolito il “segno giudaico” , e alcune famiglie, particolarmente benemerite per avere aiutato le classi pi’ umili durante l’occupazione francese impiegandole nell’industria tessile, ricevono dalla dinastia sabauda titoli nobiliari. Del resto, fino alla promulgazione del Codice Albertino, cosi chiamato dal re Carlo Alberto, del 1837, che prelude all’emancipazione degli acattolici, ossia Valdesi ed Ebrei, perché concede loro elementari diritti civili, le condizioni degli Ebrei nello Stato sardo sono molto penose. (Entro i confini del Regno di Sardegna vivevano compatti i Valdesi coi loro centri a Torre Pellice e Pinerolo. I rapporti tra Ebrei e Valdesi in Piemonte sono stati sempre ottimi, e continuano ad esserlo).
Anche a Modena tutto ritorna come prima del periodo napoleonico; gli Ebrei devono ritornare a vivere nei ghetto. Unica differenza: le porte dei ghetto non vengono rimesse sui cardini.
Ma peggiore che in qualunque altra parte d’Italia è la condizione degli Ebrei nello Stato pontificio. (Nelle Due Sicilie, dove il governo è dei più reazionari, non vivono Ebrei). Il papa Pio VII, che era stato tenuto prigioniero da Napoleone, torna trionfalmente a Roma; commercianti. ebrei che nella breve parentesi di libertà avevano aperto dei negozi fuori dei ghetto, ricorrono all’antico sistema – che era nella tradizione dei sistemi ricattatori del Governo pontificio nei riguardi degli Ebrei – di offrire una forte somma (100 mila scudi) per poter continuare a godere dei diritti ottenuti. Invano: il ghetto viene nuovamente chiuso coi suoi portoni, che non erano stati bruciati; gli Ebrei sono cacciati dalle scuole, e perfino, ad Ancona, dagli ospedali. Torna l’obbligo della predica coattiva e l’umiliante omaggio in Campidoglio, se pure i capi della Comunità possono andarvi ora vestiti con abiti comuni anziché con grotteschi travestimenti, tali da suscitare ilarità e disgusto; nel 1830 viene anche abolito il tradizionale calcio che in tale occasione essi dovevano ricevere. Soltanto il “segno giudaico” non è più obbligatorio come un tempo.
Quando nel 1823 viene eletto papa Annibale della Genga, che prende il nome di Leone XII, la situazione si aggrava ulteriormente. Questo papa, che ha iniziato il suo pontificato scomunicando i patrioti, due anni dopo la sua elezione ribadisce l’ordine che gli Ebrei debbano vivere rinchiusi nei ghetti, debitamente muniti di portoni; a Roma vengono tagliate fuori del ghetto due vie che erano state precedentemente aggiunte, e i negozi in esse situati devono venir chiusi entro 24 ore. Nel 1826 viene rimesso in vigore l’”Editto sopra gli Ebrei” del 1775: gli Ebrei non possono più servirsi nemmeno della “donna del fuoco” (la cristiana che accendeva il fuoco di sabato). Anzi, per maggior sicurezza, il papa proibisce senz’altro agli Ebrei di accendere fuoco di sabato. Nel 1828 le condizioni peggiorano ancora: è obbligatoria la vendita d’immobili, si rinnovano i battesirni forzati, si ripetono, con impressionante frequenza, paurosi casi di oblazione (Lugo, Ancona, altri centri): chi aveva avuto al proprio servizio una domestica cattolica, si faceva rilasciare per cautela un certificato, in cui questa dichiarava di non aver battezzato nessun membro della famiglia.
Alla morte di Leone XII (1829) si intensificano gli eccessi antiebraici. Per un anno è papa Pio VIII (1829-1830), che vuole inasprire ancor più le leggi vigenti, e proibisce agli Ebrei qualsiasi rapporto con i Cristiani, tranne che per affari. Il papa Gregorio XVI (1831-1846) rimette in vigore l’imposta di carnevale, che sostituiva l’obbrobrioso palio accompagnato da sconce gazzarre popolari; e nel 1836 caccia da Bologna gli Ebrei che vi avevano preso stanza dopo la Rivoluzione francese. In questo periodo la Comunità di Roma rimane senza rabbino.
Ovunque c’è atmosfera di persecuzione: in Piemonte si ribadisce l’obbligo del ghetto, tranne che a Nizza; a Parma, un ebreo colpevole di aver chiesto l’ammissione del figlio a scuola è minacciato di arresto: il ragazzo diverrà poi un grande patriota: Enrico Guastalla, uno degli 8 ebrei partecipanti alla Spedizione dei Mille.
Naturalmente gli Ebrei sono esclusi da tutte le Università; tranne che da quella di Padova. Questa Università, che per secoli è stata l’unica del mondo ad accettare Ebrei, rimane ora l’unica d’Italia. Perfino a Livorno vengono proibiti i cortei funebri, tranne che di buon mattino o a tarda sera. Unica città del tempo in cui i cortei funebri con una certa solennità erano permessi, è Lugo. A Torino gli Ebrei sono obbligati a fare doni al ‘vescovo e agli altri funzionari per Capodanno, ed a pagare alla caduta della prima neve una tassa all’Universítà per non essere importunati dagli studenti; mentre in Toscana all’inizio dell’inverno essi devono offrire confetti agli studenti. Per un certo tempo quest’obbligo viene imposto anche a Padova, poi soddisfatto mediante versamento di una somma. Ed ancora torna ad echeggiare la “Gnora Luna” , e riaffiora come in tutti i tempi di gravi persecuzioni, l’accusa di omicidio rituale: a Mantova e a Badia di Rovigo.
Queste penose condizioni di vita suscitano in molti il desiderio di emigrare; cosa non facile, perché la tassa di espatrio, che si deve sborsare a favore degli ebrei poveri, è molto elevata. Tali tristissime condizioni sono note anche fuori d’Italia; e in Francia si fonda una società filantropica che ha lo scopo di assistere gli Ebrei che emigrano dal Piemonte. Ma l’aiuto maggiore viene dalla famiglia Rothschild, alla quale più o meno tutti i principi italiani, compreso il papa, ricorrono per aiuti finanziari, e la quale interviene sempre, per nobilissima tradizione di famiglia che continua tuttora, in favore degli Ebrei perseguitati.